
Intervista di Francesca De Zotti —
Partendo dal tentativo di “estetizzare il quotidiano”, attraverso diversi media che spaziano dalla fotografia alla scrittura, fino al cucito, i tuoi lavori spesso enfatizzano il ruolo del linguaggio come catalizzatore di trame corali. In che modo storie e luoghi incidono sul tuo sguardo e sulla narrazione che ne scaturisce?
Tutte le cose che incontriamo entrano nel corpo, nel pensiero e nel tempo, creano vuoti da indagare andando a incidere sulle emozioni. Le emozioni sono il punto di partenza dell’analisi di tutto ciò che ci circonda.
Ricercando l’idea per una performance da fare a Pereto, in occasione della mostra straperetana, ho scoperto che il borgo non aveva una bandiera, ma solo uno stemma e la sua descrizione, che i disegnatori di araldica usavano scambiarsi per non perdere nessuno degli attributi dello stemma stesso. Ho pensato così di cucire e ricamare Una bandiera per Pereto. La scelta è legata alla tradizione dei piccoli borghi d’Italia, nei quali ancora oggi le donne ricamano all’aperto. Il sottotitolo dell’opera Guardando al futuro si pone come un augurio per il domani: nei borghi, attraverso le pratiche artistiche, il contemporaneo arriva alle persone mischiandosi alla tradizione.
E la bandiera ne rappresenta l’inizio.

Parallelamente, attraverso il libro d’artista, la tua ricerca lascia spazio anche a una dimensione più intima e personale, come in Dal mare al mare o in Unsuccesfull. Come si declina il tuo rapporto con la parola scritta e le immagini in questi lavori?
Con le immagini ho un rapporto esplicito, io e le immagini comunichiamo in modo rapido e chiaro. Con la scrittura è tutto molto intimo, scrivo per vedermi.
Nel libro la parola si mostra a chiunque voglia vederla, inizio a trattarla come se fosse immagine, diventa luce.

Nel 2020 hai dato vita a Gli occhi degli altri, un progetto attraverso cui riflettevi, sia a livello teorico che metodologico, sul concetto di relazione, invitando le persone da te coinvolte a rappresentarne con un’immagine il significato e i potenziali limiti. Che ruolo ha la fotografia all’interno di quest’opera e, in generale, della tua pratica?
La fotografia è l’immagine di un momento che è avvenuto lì, nel suo tempo e nel suo spazio. La fotografia è documentazione, sempre, anche quando è rayogramma.
Si fa opera nel momento in cui abita l’equilibrio estetico-temporale e impara a muoversi nel tempo, senza collocarsi in nessuna epoca.

L’incontro e il dialogo con altri artisti sono alla base di Parlami, il primo lavoro realizzato durante la tua residenza presso VIR Viafarini-in-residence. Partendo da otto diverse conversazioni originate da una domanda comune, questo progetto testimonia il tentativo di rendere collettivamente idee e pensieri che nascono come individuali e personali. In che modo lo scambio con gli altri residenti ha influenzato i tuoi presupposti iniziali?
Il mio tentativo di estetizzare il quotidiano si è trasformato in un tentativo di razionalizzare le emozioni. Le emozioni sono in continuo mutamento. Possiamo parlare di come un cambiamento ci influenza quando abbiamo finito di attraversarlo; nel mentre, siamo esseri nel flusso. E vale anche per la mia ricerca artistica, va di pari passo con la vita, si muovono insieme.
Cercare di razionalizzare le emozioni è una domanda impossibile. Questo mi dà la possibilità di lavorare sempre, cercando risposte che non troverò. Perché ne esistono infinite o nessuna. Chi sono? Dove vado? Da dove vengo? Perché sono qui? Rispondere significa mettere un punto, ma sono le domande che continuano a spingerci oltre, sempre più in là, o più in alto.

Staging the Residency | Yara Piras