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New Photography | Intervista con Benedetta Casagrande

"Mi interessa pensare alla superficie fotografica come sito in cui coesistono i paradossi del simile e del dissimile, del contatto e della sua perdita, di presenza e assenza, di vitalità e di morte." Benedetta Casagrande

Per la rubrica New Photography, Sara Benaglia e Mauro Zanchi hanno intervistato Benedetta Casagrande

Sara Benaglia +Mauro Zanchi: Nella mostra personale All things laid dormant, in Triennale, hai raccolto la tua produzione dal 2020 al 2025, dove fotografie in bianco e nero, insieme a sculture in ceramica argentate, registrano incontri con il non-umano. Quale è la genesi di questa ricerca?

Benedetta Casagrande: All things laid dormant è un corpo di lavoro che si interroga sul nostro rapporto con il vivente non-umano in tempi di estinzioni. Quando ho iniziato a lavorarci non avevo degli interrogativi di ricerca chiaramente definiti, ma un insieme di fotografie dal mio archivio che avevano stimolato il mio interesse. Ho iniziato a produrre in risposta a questo bacino di fotografie iniziali, lasciandomi guidare dalle immagini. Mi interessano i modi in cui si può entrare in dialogo con le immagini fotografiche, lasciandogli in un certo senso un margine di autonomia; quella libertà degli oggetti di puntare verso direzioni che non sono necessariamente subito intelligibili al pensiero razionale, ma che ci toccano. Alcuni dei temi centrali del corpo di lavoro — il rapporto con la natura, il desiderio di prossimità, un senso di perdita — erano già presenti nelle immagini di archivio, ma mi ci è voluto diverso tempo per imparare un linguaggio adatto per pensare e parlare di lutto ecologico, amore, vita, perdita, e ‘kinship’ interspecifica. Sono state fondamentali pensatrici e ricercatrici come Deborah Bird Rose, Donna J. Haraway e bell hooks (solo per citarne alcune), che mi hanno trasmesso un vocabolario adatto in un momento in cui mi mancavano le parole. É difficile parlare del lutto, è difficile parlare dell’amore, specialmente nel contesto del nostro rapporto con altre specie e con il resto del vivente. Gli interrogativi profondi del lavoro hanno preso forma da sé, nel modo naturale in cui si formano le cose. In un passaggio particolarmente saliente di Wild Dog Dreaming: Love and Extinction, Deborah Bird Rose scrive: “Animali e piante, tutti i nostri preziosi compagni terreni, sono abbandonati mentre precipitano in una morte senza ritorno. Le loro generazioni future vengono sradicate e la loro morte viene trattata come se fosse superflua. Chi canta per loro? O i loro richiami cadono in uno spazio di morte solitaria, dove i potenti, incantati dal loro successo e indifferenti al disastro, si voltano dall’altra parte e si rifiutano di guardare l’Altro negli occhi?”. Cosa vuol dire avere una pratica artistica in un contesto di rovina e di perdita di vita senza precedenti, e che forme può assumere una pratica che sia affermativa nei confronti della vita? Che modalità possiamo immaginare per rispondere alla chiamata dell’Altro? Praticare partendo da un posizionamento incentrato sul lutto per me è importante perché rifiuta profondamente l’idea che alcune vite abbiano più valore e meritino di essere custodite più di altre. L’immagine dell’occhio come evoluzione biologica della lacrima, evocata da Alberto Grifi nel sottotitolo di Autoritratto ad Auschwitz (l’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lagrima), è un’immagine che mi porto appresso perché trasporta l’idea del trauma del lutto come antecedente alla vista. Siamo testimoni oculari della violenza, dell’ingiustizia, ed è nostra responsabilità saper rispondere, sapere ricordare, saper guardare. Il testimone oculare non è mai un ricettore passivo. E la fotografia, oltre ad essere una forma di testimonianza (ma non necessariamente intesa come documento), ha un rapporto estremamente intimo con la perdita; nasce dal contatto materiale tra corpi, luce e materia fotosensibile. Mi interessa pensare alla superficie fotografica come sito in cui coesistono i paradossi del simile e del dissimile, del contatto e della sua perdita, di presenza e assenza, di vitalità e di morte. Gli incontri con il non-umano che si articolano nel progetto vengono veicolati da un mezzo che da un lato è basato sull’incontro con il mondo, ma che dall’altro crea una barriera che separa il mio corpo dall’Altro. Quindi in un certo senso articolano anche una serie di piccoli fallimenti, di modi di essere costantemente sulla soglia di un contatto che però non si attualizza mai. 

SB+MZ: All things laid dormant si apre con una immagine che sembra una antotipia. Si tratta, invece, di un misto tra stampa tradizionale in camera oscura e stampa a contatto. Non è la prima volta che nelle tue sperimentazioni utilizzi uno sviluppo vegetale fatto in casa. Che cosa significa cercare soluzioni di stampa a bassa tossicità? Quali pratiche a basso impatto inquinante utilizzi?

BC: Per me avere una pratica artistica significa avere uno spazio in cui imparare a vivere in questo mondo, e questo include imparare ad abitare il cambiamento climatico immergendomi al suo interno piuttosto che posizionandomi come osservatrice esterna, collocandomi nella rete di relazioni che fanno la vita, fanno la pratica, fanno “me”. È letteralmente il mio modo di essere nel mondo e uno spazio per sperimentare modi di pensare, abitare, relazionarmi, amare. Le pratiche sostenibili di camera oscura sono fondamentalmente focalizzate sul pensare a quali materiali e quali risorse sono disponibili in un determinato contesto localizzato, se sono rinnovabili, come riutilizzarle e riciclarle, come smaltirle e così via: è un approccio in cui la sostenibilità e l’impatto sono la lente principale attraverso cui si opera. È un modo di essere costantemente in relazione con il mondo esterno, uno slittamento tra il giardino, il sole, lo studio, la camera oscura, e un modo di abitare entrambi gli spazi. Ma si basa anche su piccole scelte molto semplici che si fanno ogni giorno e che diventano parte del modo di lavorare. Per esempio, per realizzare lo sviluppo a base vegetale si può foraggiare la materia vegetale o comprarla confezionata in plastica in un negozio di alimentari. Quando si foraggia, bisognerebbe pensare a quali piante sono di stagione e in quale densità sono presenti nel territorio, e sarebbe buona pratica non prelevarne più del 10%. Lavorare in modo più sostenibile richiede lo sviluppo di un pensiero ecologico, che si allena nel tempo e che non è quasi mai circoscritto alla sola pratica artistica, ma finisce per toccare ogni aspetto della vita. Nel caso da voi citato ho utilizzato appunto uno sviluppo a base vegetale fatto in casa utilizzando l’alloro, con una tossicità molto minore rispetto ai chimici tradizionali. Ma ci tengo a sottolineare che il materiale di scarto prodotto in camera oscura, anche se a base vegetale, va comunque gestito e dismesso in maniera corretta. L’impatto ambientale non si misura solo in base alla tossicità di un materiale; si misura soprattutto in base a come viene gestito lo smaltimento. Anche il letame se gestito male diventa un rifiuto inquinante. Io sono sicuramente ancora in un processo di apprendimento. Le cose da imparare sono tante, e apportano trasformazioni profonde al modo di praticare e pensare la fotografia. Alcune pratiche sostenibili che ho utilizzato in passato sono le stampe alla clorofilla, fatte direttamente sulle foglie affidandosi alle proprietà fotoreattive dei pigmenti delle piante; le antotipie, in cui si riveste la carta di liquido estratto a freddo dalla materia vegetale; le stampe lumen, in cui si usano carte fotografiche scadute per fare stampe a contatto esposte al sole, e l’estrazione dell’argento di scarto dal bagno di fissaggio. 

Benedetta Casagrande, All things laid dormant, Triennale Milano, 2025_foto Gianluca Di Ioia © Triennale Milano

SB+MZ: Nella tua pratica la ricerca fotografica ha anche una deriva scultorea, in cui l’argento di scarto estratto dal fissante della camera oscura gioca un ruolo chiave. Ci parleresti di questa pratica?

BC: Ho iniziato a ideare le sculture verso la fine del 2023, periodo in cui mi sono avvicinata alle pratiche di recupero dell’argento dai bagni di fissaggio. L’argento è uno degli scarti prodotti durante i processi analogici più difficili da smaltire, e rimuoverlo dal fissante è il primo passo per una gestione ecologica del residuo chimico. Nello stesso periodo mi stavo avvicinando alla ceramica e i due processi sono confluiti nelle sculture, che sono smaltate con uno smalto nero piombo all’interno del quale ho miscelato l’argento di scarto. Mi interessa la relazione tra queste creature, fotografiche e scultoree, nate e composte dalla stessa materia. Inoltre, le sculture rimettono in gioco una promessa che la fotografia fa, ma non riesce a mantenere; quella del contatto, della prossimità fisica con un corpo tridimensionale. Gli animali modellati con la ceramica rispondono sia al corpo di immagini del progetto, sia ai corpi incontrati lavorando come volontaria in un centro di recupero e riabilitazione selvatici. Com’è naturale che sia, le storie di alcuni individui incontrati al centro di recupero mi accompagnano anche dopo la loro morte o la loro liberazione, e in parte le sculture sono anche un processo di rielaborazione di queste storie e questi incontri. 

SB+MZ: All’entrata della mostra compare questo testo, che qui traduciamo in italiano per ragioni di accessibilità: La teca sembra vuota. Quando mi avvicino il mio respiro ne appanna il vetro. Tenendo lo sguardo fisso, qualcosa si muove tra la vegetazione. Gli insetti stecco manifestano la loro presenza come un’apparizione, si manifestano come certe immagini quando emergono dai recessi bui della memoria. L’animale che dunque sono desidera avvicinarsi, musi a contatto, ma qualcosa – la macchina fotografica? – continua a ostacolarmi. Ci provo e ci riprovo, ma i miei compagni non-umani restano fuori dalla mia portata, indugiano come fantasmi sui miei rullini, tremando leggermente alla luce rossa della camera oscura. Avvicino il muso alla carta fotografica, ma mi ritrovo a contatto con una forma di lutto: siamo in grado di conservare la vita solo nelle sue forme più mortificanti, pietrificata nelle fotografie e nelle teche dei musei? Eppure, continuo a presentarmi a questo incontro, chiamata all’appello dai miei Altri, mentre rimango sveglia la notte chiedendomi se davvero esista un Cane*.” (* Traduzione letterale dell’originale in lingua inglese, “as I stay awake at night wondering if there really is a Dog”, che gioca con la parola God (Dio) e dog (cane). Una traduzione alternativa potrebbe essere “mentre rimango sveglia la notte chiedendomi se davvero esista un Dio”. La frase, scritta originariamente da David Foster Wallace nel libro Infinite Jest (1996), e adottata da Deborah Rose Bird nel libro Wild Dog Dreaming (2011), viene qui ripresa dall’artista.)  Di cosa si tratta? Che ruolo ha la scrittura nella tua pratica?

BC: La scrittura è sempre stata un elemento importante per la mia ricerca, sia come artista che come ricercatrice e curatrice. Molta della mia attività da scrittrice ruota attorno ai testi critici, alle recensioni di fotolibri e alla saggistica, ma la scrittura creativa e speculativa è un elemento che accompagna quasi sempre i miei periodi di produzione artistica. Non la ritengo separata dalla creazione di tutto il resto, che siano immagini, sculture o altro. Nasce sempre tutto insieme. Sono pensieri e modalità di operare che si incarnano materialmente in diverse forme espressive, di cui la scrittura è una tra tante. Ogni mezzo rappresentativo ha i suoi limiti specifici, e mi interessa il loro potenziale di entrare in relazione l’uno all’altro, collaborando e rafforzandosi a vicenda. Producono qualcosa che da soli non fanno, o fanno diversamente. Per me è importante che questo tipo di testo non venga frainteso con i testi di sala, ma che venga percepito immediatamente come un’opera tra le altre, motivo per cui lo presento sempre in forme materiali che dialogano con il resto della mostra. Nel caso della mostra in Triennale il testo è stato stampato fotograficamente sull’opera sviluppata con lo sviluppo a base vegetale, mentre nella mostra Contaminazioni a Reggio Emilia l’ho scritto sul muro usando una fusaggine di salice, mettendolo in dialogo con le cornici in legno bruciate a mano che incorniciano le opere fotografiche. 

SB+MZ: Come parlare d’amore in un contesto di lutto ecologico? 

BC: Il biologo della conservazione Michael Soulé disse che le persone salvano ciò che amano, mentre Wallace Stegner disse che possiamo amare un luogo ed essere comunque pericolosi per esso. Nel capitolo di apertura di Wild Dog Dreaming, Deborah Bird Rose parte da queste due affermazioni per riflettere sulla necessità di formulare nuove domande per pensare l’amore in tempi di estinzioni. Chi siamo come specie? Come ci inseriamo nel sistema terrestre? Quale etica ci chiama? Come trovare una strada verso nuove storie che ci guidino in un’epoca di profondo cambiamento? Come rinvigorire l’amore e l’azione in modi che siano generosi, consapevoli e che affermino la vita? Rose affronta queste domande rifacendosi agli insegnamenti delle persone Aborigene dell’Australia del nord, in particolare delle comunità Yarralin e Lingara, che nascono in una cultura di stretta parentela interspecifica con piante e animali. Le loro relazioni sono fisiche, tattili, e fondate sulla creazione, sull’etica e sulla responsabilità. Questo mi fa pensare agli insegnamenti di bell hooks nel libro All about love, in cui l’autrice spinge per una demistificazione dell’amore. hooks ci invita a comprendere l’amore come un verbo, qualcosa che si fa, e formula un’etica dell’amore basata su attenzione, impegno, fiducia, responsabilità, integrità, rispetto, conoscenza e volontà di cooperazione. L’unico amore riconoscibile e legittimabile come tale in tempi di rovina ambientale e sociale è un amore decoloniale, che ha il coraggio di rifiutare un modello sociale ed economico basato sulla violenza, sullo sfruttamento e sul dominio. Siamo già ricchi di insegnamenti che ci vengono passati dalle comunità Nere e indigene, che a loro volta hanno rischiato l’estinzione. Quello che possiamo fare come persone con una pratica artistica è esercitarci, come dice la parola stessa ‘practice’. Immergerci nel terreno fertile messo a disposizione dal praticare come spazio di sperimentazione per nuove storie, nuovi sentieri, nuove relazioni. 

Benedetta Casagrande, Untitled (Phasmid #4), 2024, scritta con fusaggine di salice su muro
Benedetta Casagrande, Horn, 2025, e Slugs, 2025, sculture di ceramica smaltate con miscela di argento recuperato dai bagni di fissaggio esausti

SB+MZ: Ci sono due parole che abbiamo evidenziato dal tuo testo scritto in apertura a All things laid dormant: luce rossa. Perché? Essenzialmente perché una luce rossa è usata in camera oscura, ma è anche una luce che piace alle piante, è uno dei loro cibi preferiti. Quali sono le sfide nel portare la fotografia oltre il suo limite antropocentrico? In che modo possiamo uscire da un pensiero binario, pensando e agendo matericamente con la fotografia?

BC: Esiste un movimento nella fotografia che abbraccia la creazione di immagini ecologiche tramite la coltivazione di conoscenze a metà tra la scienza e l’arte, in cui piante, batteri, terra e altre forme di vita più-che-umane diventano collaboratrici nel processo creativo. Questo movimento non solo si concentra sulla sensibilità alla luce di nuove emulsioni vegetali che sono di natura analogica, ma sta cambiando profondamente l’idea stessa di fotografia, che non viene più intesa come un mezzo per documentare la realtà tramite una sua copia fotorealistica, ma come uno strumento per registrare e contestualizzare l’ambiente in modi in cui la fotografia tradizionale fallisce. Penso ad esempio al lavoro Permeance di Steffie De Gaetano, in cui l’artista crea delle cromatografie del suolo prelevando campioni dal letto fiume che scorre nel suo vicinato, pesantemente inquinato dal cadmio smaltito nell’acqua dalle industrie tessili locali. Tramite le variazioni tonali le cromatografie indicano la composizione della terra e la presenza di contaminanti; assorbendo la composizione chimica del suolo, queste immagini non sono una rappresentazione della contaminazione, ma sono la contaminazione stessa. Nell’introduzione al libro Re.source pubblicato da the Sustainable Darkroom, Hannah Fletcher usa tre parole chiave per allontanarsi dalla violenza del passato: ecologizzare, decentralizzare, collettivizzare. Nel testo Disimparare la fotografia: rimedi precari, Risk Hazekamp presenta i collaboratori più-che-umani partecipi nei suoi esperimenti, che considera parte del suo collettivo. Li descrive così: “Alcuni membri sono ciò che noi, esseri umani, consideriamo vivi, altri no. Alcuni membri sono stati nel regno della vita, altri no. Tutti i membri sono equamente importanti e sento una grande responsabilità nei loro confronti. Potrei sembrare ambiziosa, megalomane o semplicemente arrogante, ma mi considero sia l’iniziatrice che la custode di questo collettivo”. Allontanarsi dal limite antropocentrico è anche questo: provare a smettere di “usare” i microrganismi, le terre, le piante, gli animali con cui collaboriamo, e provare a vederli come collaboratori paritari all’interno della pratica. 

SB+MZ: Gli insetti stecco hanno un ruolo importante nel tuo lavoro. Che cosa è il paradosso del fasmide?

BC: Il paradosso del fasmide è un testo scritto da Georges Didi-Huberman nel 1989 dopo una visita al vivarium del Jardin des Plantes di Parigi. Nel testo, Didi-Huberman affronta ciò che lui descrive come “l’inferno del mondo visibile – il territorio della dissomiglianza” partendo dal suo incontro con la teca dei fasmidi. I fasmidi, dal greco phásma, fantasma, apparizione, presagio, fa “del suo corpo lo scenario in cui nascondersi, incorporando quello stesso scenario in cui nasce.” Il fasmide appare perché capace di dissimularsi, e rompe le gerarchie tra copia e originale: è una ‘copia’ che divora il modello imitato. Dall’incontro con questo testo otto anni fa, il fasmide è diventato uno dei miei animali guida, ed è forse l’animale più eloquente in termini fotografici. Mi interessa il potenziale dell’immagine apparente, non immediatamente manifesta, che si sveli con l’osservazione, che metta in gioco i paradossi del simile e del dissimile, e quel potere terrificante che ha la fotografia di fagocitare la realtà, restituendola trasfigurata. 

SB+MZ: In che modo hai lavorato sul mito di Santa Maria Maddalena? Che rapporto c’è tra memoria e fede, autenticità e finzione? Come le narrazioni immaginarie modellano e trasformano la realtà?

BC: Ripercorrendo il passaggio della Santa nel sud della Francia come narrato nella “Leggenda Aurea” medievale – che racconta il viaggio in barca di Maria Maddalena da Gerusalemme alla Camargue – il progetto esamina come il mito sia stato costruito e strumentalizzato per affermare il paesaggio locale come Terra Santa post-biblica, trasferendo dalla Palestina all’Europa non solo il culto e le vestigia della presenza materiale della Santa, ma l’esperienza stessa del pellegrinaggio. Riflettendo sul complesso rapporto tra memoria e fede, autenticità e finzione, il progetto si interroga su come le narrazioni immaginarie plasmino e trasformino la realtà sostanziale fino a renderle indistinguibili. Informato da numerose rappresentazioni accattivanti, emotivamente avvincenti e drammatiche della sua figura nelle belle arti, il suo mito anima riccamente la nostra immaginazione: contemplativa, lussuriosa, illuminata, sopravvive nella nostra memoria come la prostituta penitente che ha rinunciato alle sue passioni per seguire Gesù, diventando uno dei principali veicoli per la diffusione dell’ortodossia cattolica e plasmando la concezione occidentale della femminilità. Il progetto esamina la creazione della cultura per mettere in discussione le sue stesse origini e far rivivere la vivace molteplicità delle identità storiche di Maria Maddalena. Lavorando con strategie simili a quelle del mito, il progetto si muove tra memoria, realtà e immaginazione; i paesaggi reali in cui è ambientato il mito e le rappresentazioni classiche di Maria Maddalena (sia nella letteratura che nelle belle arti) si fondono con visioni oniriche e inquietanti del corpo femminile. 

SB+MZ: Quanto è importante lavorare in camera oscura nella tua pratica? Lavorare in maniera analogica e digitale come articola o sposta la tua ricerca?

BC: La camera oscura è uno spazio di fantasmi e di fantasie, ma è anche uno spazio in cui la pratica si incorpora in maniera fortemente materiale. É uno spazio in cui è impossibile dimenticarsi della tossicità dei processi che utilizziamo, uno spazio di contaminazioni tra chimici e superfici, tra cui la mia pelle. Amo la dimensione analogica della fotografia soprattutto per il rapporto materico che permette di avere con la creazione dell’immagine, fatto di contatti. Dentro e fuori dalla camera oscura mi interessano le pratiche incorporate e contaminate, sono sempre molto cosciente del mio corpo, dei suoi sforzi, degli sfregamenti con la materia. É un approccio alla fotografia che si allontana dalla sovranità pura dell’occhio e della vista come senso principale con cui navigare il mondo, e che riconosce l’insieme di relazioni sensoriali che fanno la conoscenza. Non è un occhio che domina dall’alto, ma un corpo che si unisce orizzontalmente con il resto della materia. Mi interessa anche la cecità dell’analogico, l’impossibilità di vedere l’immagine durante la sua produzione, un lavoro di fede, di imprevisti e di immaginazione. Ma in senso generale penso che qualsiasi mezzo sia legittimo, e lavoro con quello che ho a disposizione, digitale o analogico che sia; ci sono mezzi più o meno adatti per i processi a cui si è interessati, e questo è tutto ciò che conta. 

SB+MZ: In un mondo iper-accelerato, hai abbracciato la lentezza. Che cosa significa questo a livello ecosistemico e ultra-umano?

BC: Come già accennate nella domanda, la lentezza è un concetto relativo che dipende da un punto di paragone. Quando parlo di lentezza penso ai tempi naturali dei cicli del corpo, della natura, delle stagioni, al tempo fisiologico delle cose, in contrapposizione al tempo iper-accelerato della modernità. La slow research, intesa come la intende Carolin F. Strauss, abbraccia la lentezza come principio di osservazione, decelerazione e di riposizionamento costante attraverso cui provare a collocare l’esperienza umana in reti di temporalità e relazioni più ampie. Questo vuol dire anche concedersi il tempo per immergersi, per rimanere con il dubbio, per porsi le stesse domande più e più volte senza la necessità di dover arrivare ad una singola risposta, ma continuando a immaginare e sperimentare nuove possibilità. 

Cover: Benedetta Casagrande, Untitled (Wing), Untitled (Moon in a Bucket) e Untitled (Crab)

Casagrande Benedetta, All things laid dormant
Casagrande Benedetta – All things laid dormant