Per la rubrica New Photography, Sara Benaglia e Maura Zanchi hanno intervistato Laura Cemin
Sara Benaglia e Mauro Zanchi: In Paper notes and Pinecones all’Helsinki Museum of Art prendi in considerazione qualcosa a cui di solito si presta meno attenzione: braccia che si appoggiano ai lati del busto, punte delle dita che si sfiorano l’una con l’altra: i movimenti impercettibili anche a chi li compie. Come hai tradotto formalmente questa sensazione o intuizione per trasmettere la sottile immobilità, il processo di adattamento che i corpi subiscono quando si trasferiscono in un paesaggio culturale e linguistico diverso?
Laura Cemin: Ciò che può sembrare immobile e statico, in realtà non lo è mai davvero. Una persona “ferma” in piedi compie continuamente piccoli movimenti per mantenere l’equilibrio, così come una roccia, sebbene molto lentamente, è in costante cambiamento. Ho esplorato questi movimenti sottili e spesso impercettibili in lavori precedenti, ma in Paper Notes and Pinecones sono diventati il tema centrale. È affascinante rendersi conto che di questi gesti minimi viene notata la mancanza più che la presenza. Dopo otto anni vissuti all’estero, le persone attorno a me hanno iniziato a osservare che il mio linguaggio corporeo era cambiato: non mi muovevo più come una volta. Questo mi ha colpito profondamente, poiché i cambiamenti erano stati così graduali e costanti da essere passati inosservati persino a me stessa. Tale consapevolezza mi ha portato a riflettere su ciò che era stato dimenticato o si era trasformato: tutta una serie di gestualità che non c’era più. Di conseguenza, ho iniziato a prestare grande attenzione al linguaggio corporeo e ai micro-movimenti delle persone intorno a me. A volte, seduta su un treno o in un caffè, mi sento una detective, che passa ore a osservare, analizzare e registrare mentalmente come le persone si muovono.
Attraverso la mia esperienza e grazie a discussioni, interviste e workshop con chi ha vissuto cambiamenti nel linguaggio corporeo adattandosi a nuovi contesti culturali e linguistici, ho raccolto molti dati. Queste osservazioni sono poi state tradotte formalmente in oggetti, testi e immagini.
Per la mostra Paper notes and pinecones, ho fotografato gesti che avevo appreso o che mi erano stati “donati” da conoscenti e colleghi, utilizzandoli per creare collage tridimensionali in cui queste forme diverse si uniscono, trasformandosi in movimenti completamente nuovi. Questo approccio è particolarmente evidente in A Body with More Tongues is a Mythical Creature, una serie di opere a metà tra fotografia e scultura. L’ispirazione per questa serie è nata dal concetto di “Broken English”—una lingua ibrida usata da molti stranieri per comunicare, grammaticalmente scorretta ma ricca, strana e piena di personalità. Mi sono chiesta se tramite l’associazione di gesti di culture distanti, potesse emergere un linguaggio corporeo altrettanto “spezzato”.
Durante lo studio di questi movimenti, spesso li ho disegnati per comprenderli meglio e registrarli. Questi disegni sono poi diventati la partitura per le opere scultoree. I tratti a matita sono stati tradotti in alluminio, mentre elastici, fascette e post-it segnano dove lo sguardo cade, le intersezioni tra gli arti. Una parte essenziale di questo processo è stata modellare i materiali a mano, permettendo a un movimento precedentemente registrato su carta di materializzarsi non solo come scultura, ma anche di generare nuovi movimenti: quelli del mio corpo in interazione con le qualità, la resistenza e la natura dell’alluminio.
Infine, ho esplorato queste idee attraverso il video. In Handy Tips for Forgetful Bodies, tento con umorismo di reimparare i gesti della mia lingua madre attraverso azioni quasi assurde. Ho già utilizzato il formato del video tutorial in lavori precedenti, poiché credo che il suo tono accessibile e leggero si presti particolarmente bene ad affrontare temi difficili o nostalgici con un tocco di ironia.
SB+MZ: Nella performance Chameleons (2024) che differenza c’è tra una posa performativa e una messa in foto registrata da una macchina fotografica e ibridata da una scultura. Nella postura postmediale che incarni che relazione hai con gli strumenti di registrazione che utilizzi?
LC: Nel corso degli anni, ho iniziato a percepirmi come una traduttrice. La mia pratica inizia sempre con un’azione performativa, che poi si materializza in diverse forme, come sculture o fotografie.
In Chameleons io e I performers abbiamo esplorato l’idea di strati e livelli. Affrontando questioni legate alla memoria—ciò che viene ricordato, ciò che viene dimenticato, dove queste informazioni sono immagazzinate nel corpo e come è possibile accedervi—concetti come sovrapposizione, ripetizione e variazione sono diventati centrali. Sculture, immagini e corpi in movimento sono semplicemente versioni multiple della stessa essenza, che si sposta, si trasforma, si dissolve. In questo lavoro, sculture e immagini diventano partiture per la performance, che noi performer utilizziamo come materiale di studio in “scena”.
Ero particolarmente interessata a capire cosa accade durante il processo di traduzione tra media, cosa si perde e cosa si guadagna, cosa viene scelto per essere portato avanti e cosa viene lasciato indietro. Certamente, ogni medium e ogni modalità di registrazione ha le proprie qualità e possibilità, così come i propri limiti. Trovo affascinante esplorare come il movimento possa essere tradotto attraverso questi medium—come la sua essenza possa essere preservata o persino amplificata attraverso la relazione con un materiale, che si tratti di alluminio, carta o del corpo in movimento.
Quando abbiamo performato Chameleons – un lavoro di quattro ore in cui il pubblico può entrare e uscire liberamente – noi performer siamo diventati un ulteriore strato all’interno della mostra, senza necessariamente prevalere sugli altri. Inoltre, durante la performance il pubblico ha cominciato a interagire con noi, copiandoci, imitandoci e rispondendo non solo ai nostri gesti, ma anche alle immagini e alle sculture. È stato bellissimo assistere alla comparsa di nuovi strati, che non avevo previsto né immaginato.
SB+MZ: La tua pratica artistica multidisciplinare è informata dalla tua formazione come ballerina professionista. Utilizzi esercizi corporei presi in prestito dalle pratiche somatiche e dall’allenamento sportivo, ma anche la scultura, in cui ti avvicini ai materiali attraverso il corpo, esplorandone le qualità performative, il grado di resistenza e il peso. Un’assenza fisica performativa è talvolta compensata da immagini di corpi. Che relazione c’è tra le cose e gli esseri viventi?
LC: Durante i miei studi in arte visiva, ricordo che la mia tutor mi disse che non ero una scultrice, ma una performer che lavora con i materiali. All’inizio, questa affermazione mi sembrò confusa, forse anche errata, ma ora comprendo quanto fosse veritiera. Ogni volta che mi avvicino a un materiale, mi chiedo cosa questo materiale specifico permetta al mio corpo di fare. Ad esempio, nella mostra A Slash is a Dash is a Splash, mi sono concentrata sull’azione di cadere e sul suo legame con la sensazione di fallimento. Per esplorare questa idea, ho scelto materiali che mi permettessero di scivolare, inciampare e cadere: sapone, porcellana e grasso. È la natura del materiale, insieme alle sue connotazioni e associazioni, a guidarmi nel modellarlo.
Vedo ogni oggetto che creo come uno strumento, sebbene in senso ampio. Le sculture portano sempre con sé la relazione con il corpo che le ha plasmate, che le ha utilizzate o che interagirà con esse. Gli oggetti esistono autonomamente come sculture da esporre; sono corpi a tutti gli effetti, e il movimento è intrinseco in essi. In questo modo, non vedo molta differenza tra il corpo in movimento (sia il mio che quello dei performer con cui lavoro) e le sculture che creo. Siamo tutti corpi.
SB+MZ: C’è una vitalità nei corpi scultorei che crei, ma è una vitalità tendenzialmente informata dall’esperienza umana. Bruno Latour chiama attante l’entità che dà origine ad una azione, sia essa umana o non umana. Questa chiave apre ad una dimensione che è quella dell’azione delle cose non umane, a cui sembri avvicinarti, però in punta di piedi. Qual è il terreno teorico che informa la tua ricerca?
LC: Un tempo leggevo molta teoria, ma recentemente traggo più ispirazione dalla letteratura e dalla poesia. Credo che questo cambiamento sia legato al ritmo, un aspetto fondamentale nel mio lavoro; è proprio il ritmo che mi attrae verso la poesia, così come verso quegli autori che trattano il linguaggio come un materiale in sé. Scrittrici come Helen Cixous e Anne Carson, ad esempio, sono molto vicine alla mia poetica e alle mie idee. Le loro opere, insieme alle composizioni di Robert Ashley, hanno avuto un’influenza profonda su di me. Poiché la mia ricerca artistica è così strettamente legata al linguaggio, mi piace approfondire la teoria linguistica—soprattutto le opere di Saussure, Wittgenstein e Chomsky. C’è qualcosa nel modo in cui scompongono la lingua e il significato che è affine al mio modo di approcciarmi alla pratica artistica.
Negli ultimi tempi, i podcast sono diventati una fonte importante di nuove scoperte, soprattutto quelli che trattano di neuroscienze e linguaggio. Mi affascina il modo in cui queste discipline esplorano come elaboriamo, interpretiamo e creiamo il significato. Infine, sono profondamente legata alla filosofia indiana e quella buddhista, che influiscono sulla mia vita quotidiana e si infiltrano naturalmente nel mio pensiero artistico.
SB+MZ: Ci parleresti di Aspirations (2022) e della sua relazione con Aladdin’s Lexicon?
LC: Aladdin’s lexicon è una performance nata da un ricordo personale: un malinteso tra la parola “rock” e “rug” che ha dato il via a una serie di fraintendimenti. Durante la performance, interagisco con un tappeto, che diventa il mio partner scenico. Attraverso questo oggetto, il mio corpo si trasforma e si modella, sfuggendo a qualsiasi definizione fissa poichè le forme che creo sono costantemente formate e distrutte. Per la performance, ho scritto sette testi che leggo in scena: al primo approccio sembra che parlano di tappeti, ma in realtà riflettono su linguaggio, comunicazione e relazioni.
Quando sono stata invitata a tenere una mostra personale alla Galleri Verkligheten ad Umeå, Svezia nel 2022, decisi di espandere questa performance trasformandola in un’installazione. È così che è nata Aspirations, l’immagine di una roccia a cui sono cucite frange in cotone. Mi ero data il compito di esplorare tutte le possibilità per far sembrare una roccia un tappeto, e viceversa. Come ho accennato, il progetto è nato da un’esperienza personale che si è conclusa nel momento in cui il mio interlocutore, che aveva detto “rock” mentre io avevo capito “rug”, mi ha inviato una foto con la didascalia #finnishrock. Quel momento mi ha fatto capire quanto avessi frainteso. La foto utilizzata in Aspirations è proprio quella che mi ha inviato. Il titolo dell’opera fa riferimento al desiderio universale di essere compresi e accettati e a come spesso ci plasmiamo per piacere agli altri, per “migliorarci” o per diventare ciò che pensiamo ci si aspetti da noi. Sebbene l’opera abbia un tono umoristico, molte persone mi hanno commentato dicendo che c’è una tristezza profonda al suo interno, e sono d’accordo con loro.
SB+MZ: Come si può trasportare una lingua negli oggetti?
LC: Esistono molti modi per farlo, e mi piace scoprirne di nuovi ogni volta che creo un lavoro. Penso sia più semplice spiegare le mie “strategie” attraverso alcuni esempi.
Nella mostra A Slash is a Dash is a Splash, ho esplorato sia traduzioni letterali che metaforiche. Ero interessata a capire come gli idiomi o i modi di dire potessero essere tradotti letteralmente in materiali. Un esempio è Greasy Pole, inspirato all’espressione britannica che si riferisce all’idea di raggiungere una posizione di successo attraverso il duro lavoro e il superamento degli ostacoli. Per questo, ho realizzato un vero e proprio Greasy pole (palo scivoloso e unto), una rappresentazione materiale che in qualche modo ricorda anche l’albero della cuccagna (il gioco tradizionale italiano di arrampicata su palo). Un altro esempio è Slippery Slope, dove ho realizzato una grande lastra di sapone ed appoggiata contro il muro, per creare una discesa scivolosa, traducendo l’espressione figurativa in una forma tangibile.
Come forse è già emerso in questa conversazione, lavoro spesso con istruzioni, traendo ispirazione da artisti degli anni ’60 come Merce Cunningham e Yoko Ono, così come da scrittori del gruppo Oulipo. Seguire un’istruzione precisa – come tradurre letteralmente un modo di dire in scultura – mi consente di sperimentare con materiali che altrimenti non avrei mai preso in considerazione, di scoprire qualcosa di nuovo e di accostare textures e qualità apparentemente opposte. Questo approccio è simile alle tecniche di improvvisazione della danza, in cui noi danzatori ci diamo regole rigorose – un esempio potrebbe essere iniziare ogni movimento dal gomito – per scoprire nuovi modi di muoverci e rompere i pattern abituali. Come accennato prima, uso istruzioni scritte per creare oggetti e anche questo può essere visto come un modo per trasporre il linguaggio in forma. Infine, la scrittura è una parte fondamentale della mia pratica. Spesso creo pubblicazioni o libri che vanno al di là dell’essere “contenitori” di parole, ma diventano oggetti a sé stanti, progettati e immaginati in base alle loro qualità materiali, ritmi e alle sensazioni che evocano quando vengono tenuti in mano.
SB+MZ: Il corpo è agito dalla lingua o è una lingua che agisce sul corpo?
LC: Questa è la domanda principale su cui mi sto concentrando in questo momento, e penso che la risposta sia entrambe le cose! È un intreccio complesso. A livello fisico, il linguaggio influisce chiaramente sul corpo, poiché usiamo la lingua (apparato muscolare) per parlare e articolare suoni. A seconda della lingua che parliamo, sviluppiamo muscoli diversi per esprimerci, creando un effetto a catena che si estende lungo il collo e la colonna vertebrale. In questo modo, siamo tutti fisicamente plasmati dalla lingua che parliamo! Se approcciamo la domanda in modo più metaforico, tutto ciò che sentiamo, diciamo o pensiamo in linguaggio diventa qualcosa che digeriamo all’interno del nostro corpo. Le parole entrano nel nostro sistema e vi rimangono immagazzinate, influenzando il nostro modo di agire, spesso inconsciamente, e plasmando il modo in cui navighiamo nel mondo e interagiamo con gli altri. Nella performance How the Land Lies, che esplora come il linguaggio burocratico influenzi il movimento – sia su scala macroscopica della mobilità transnazionale, sia su quella microscopica dei singoli corpi – un testo poetico che scorre su un’insegna a LED recita: “Words stick to the body as stamps on a passport” (Le parole si attaccano al corpo come timbri su un passaporto). Quando ho scritto questa frase, mi ha colpito come un pugno allo stomaco, perché è apparsa così improvvisa, ma così vera. Le parole hanno davvero il potere di plasmare la nostra identità.
SB+MZ: Che cosa sono le tracce corporee?
LC: Le tracce corporee sono ciò che resta, ciò che viene ricordato, ma anche tutto ciò che è stato dimenticato. Sono le impronte sul grasso, le ammaccature e impressioni lasciate sul sapone da un corpo che cade, le strisce nere create dalle scarpe di un performer sul muro bianco della galleria. In realtà, sono tutto ciò che resta dietro, che rivela che qualcosa è accaduto, che qualcuno è passato, ha agito e se ne è andato. Possono essere gesti evidenti, come A Line Made by Walking di Richard Long, o invisibili e discreti, come il respiro caldo vicino al collo. Ne sono affascinata, le cerco e le colleziono. Di nuovo, come un’investigatrice.
SB+MZ: Come traduci gli affetti e le sensazioni corporee nei tuoi progetti?
LC: In alcune opere, questa traduzione è un aspetto consapevole e centrale, mentre in altre avviene più naturalmente attraverso i materiali stessi o il linguaggio. Due opere in cui mi sono concentrata specificamente sulla traduzione di affetti e sensazioni sono In Between. The Warmth, una serie fotografica con oggetti, e 4-Minute Warm Up, un video tutorial. In entrambe ho esplorato il tema del calore, che è anche una delle metafore più comuni per l’amore e la cura. In In Between. The Warmth, ho cercato di tradurre le sensazioni provate durante un abbraccio con un amico o un familiare in una forma tangibile, associando ognuno di questi gesti ad un materiale con diversa conducibilità termica. Volevo offrire allo spettatore una sensazione tattile di questo sentimento, sapendo che molte persone possono ricordare la sensazione di tenere in mano qualcosa come un gomitolo di lana o un cubo di marmo.
4-Minute Warm Up, invece, è un lavoro video in cui un personaggio (interpretato da me), da solo in un appartamento ampio e ben arredato, esegue una routine creata come risposta alle finte intimità tipiche delle società individualistiche. Una varietà di strumenti, come coperte termiche e cinture per sudare, create per generare calore e per essere usate a stretto contatto con il corpo, assumono nel video una nuova funzione: diventano sostituti di un altro corpo. In quest’opera, commissionata per la mostra Modern Love (or Love in the World of Cold Intimacies), ho voluto evocare una sensazione di solitudine e desiderio attraverso la cinematografia, l’ambientazione e l’assurdità dei gesti del personaggio.
Cover: Laura Cemin. A body with more tongues is a mythical creature (Tentative lexicon #1) (2024). Stampe Inkjet su carta fotografica, aste in alluminio. Crediti Laura Cemin