Sara Benaglia / Mauro Zanchi: In base a quali criteri scegli i materiali che poi entrano nelle tue fotografie?
Lorenzo Vitturi: La scelta dei materiali è un momento cruciale del mio processo e ha per me una doppia valenza. Alcune volte mi lascio guidare dal caso e la scelta diviene una sorta di innamoramento improvviso con un oggetto o un materiale trovato fortuitamente lungo i miei pellegrinaggi. In questo caso la mia attrazione avviene sul piano estetico: scelgo dunque il materiale per le sue caratteristiche formali, per una particolare texture o cromia. In altri casi invece il materiale viene selezionato per la sua valenza culturale ed antropologica, per un particolare significato simbolico o anche come testimone di una storia. Sono molto interessato a tutti quegli oggetti che portano con loro incontri tra mondi diversi. Prediligo oggetti ordinari utilizzati nel quotidiano, quelli che rifuggono dalla nostra attenzione perché comuni, ma che se osservati oltre il loro guscio superficiale nascondono significati inattesi.
In alcuni progetti la mia ricerca si concentra in porzioni di spazio molto limitate che visito quotidianamente, come una strada nel caso di Dalston Anatomy, dove la ricerca materiali è una sorta di attesa, di apparizione, come scoprire un materiale sulla riva dopo una mareggiata. In Caminantes, invece, un progetto che si è sviluppato in una dimensione itinerante tra due continenti, la ricerca di materiali si è alternata tra incontri fortuiti e scelte metodiche.
SB/MZ: Che rapporto intercorre tra te, il tuo sguardo, e la tradizione pittorica delle nature morte?
LV: Un rapporto molto stretto. Sono sempre stato istintivamente attratto dalle potenzialità espressive del genere della natura morta, forse perché trovo il silenzio del mondo inanimato un invito a uno stato più meditativo e riflessivo e un’alternativa all’atteggiamento antropocentrico. Penso che le pietre, gli oggetti e gli elementi inanimati abbiano una propria aura e una propria voce che va ascoltata. Definirei il mio uno sguardo quasi animistico, sempre attento a decifrare le storie che si celano dietro ogni cosa, che nel caso degli elementi naturali parlano di stratificazioni geologiche, mentre nel caso degli oggetti parlano della storia dell’uomo. Riguardo al mio rapporto con la tradizione pittorica, essendo nato a Venezia e avendo iniziato lì i miei studi, ho interiorizzato nel mio linguaggio fotografico il metodo della pittura veneziana: la costruzione dello spazio attraverso il rapporto tonale dei colori e un approccio pragmatico che si fonda sull’esperienza diretta del reale, senza costruzioni concettuali stabilite a priori.
SB/MZ: Nella mostra al Foam hai combinato materiali che permettono all’osservatore di mettere in discussione la loro funzione di marcatori culturali e di esplorare le dinamiche di culture convergenti. Hai unito il vetro con materiali grezzi (rocce, legno, schiuma, materiali tessili e di spedizione) accumulati lungo il viaggio e creato una serie di interventi effimeri nell’ambiente. Che relazioni inneschi tra fotografia e strutture plastiche?
LV: Fin dai primi lavori, anche quelli realizzati durante l’accademia, ho utilizzato la fotografia per documentare interventi costruiti di fronte all’obiettivo. Solitamente erano interventi realizzati in ambienti esterni, dove cercavo di ottenere delle situazioni ibride in cui il reale si confondesse con la finzione. Con questo fine in mente, l’ambiguità della fotografia si è rivelata essere il mezzo ideale.
Utilizzando soprattutto materiali dalla durevolezza incerta, e avendo lavorato diversi anni nell’ambito della scenografia per il cinema, ho sempre inteso la scultura come un processo di trasformazione della materia volto a ottenere corpi effimeri. Con la scultura mi interessa indagare la caducità della materia e gli effetti del tempo e delle sue leggi su di essa. E trovo le manifestazioni effimere molto interessanti perché sempre dotate di una forte vitalità. Cerco di portare questa intensità, questa forza rivelatrice, anche nelle sculture e la fotografia mi permette di fissarla in un’immagine. Voglio indagare come questi due linguaggi si possano compenetrare e mi interessano le implicazioni concettuali che questa relazione innesca.
Oggi il nostro rapporto con l’immagine fotografica è così stretto che ciò che non è fotografato o fotografabile pare non possa esistere.
Inoltre le mie sculture sono sempre il risultato di una fusione tra materiali e oggetti di diversa natura, molte volte fotografati al culmine della loro breve esistenza, giusto prima di cedere o crollare. Ogni cambiamento e ogni modifica della scultura sono seguiti da una fotografia. Agendo in questo modo i due medium si fondono in un processo organico. Se dovessi sintetizzare il mio procedimento direi che disegno con i volumi e scolpisco con i piani.
SB/MZ: Unire due o più luoghi geografici e tradizioni in un’esperienza più espansa, correlare oggetti, tracce e segni di diverse culture in uno spazio delegato all’arte come viene tradotto formalmente da te?
LV: Al momento mi trovo nel pieno di questo progetto e non ho ancora trovato la soluzione formale definitiva, sto esplorando diverse direzioni. Al Foam, dove ho presentato una prima parte del progetto Caminantes, il connubio tra fotografia e installazioni scultoree nello spazio espositivo mi ha permesso di raccontare come le diverse materie grezze si siano trasformate e fuse tra loro lungo la strada e come il viaggio sia divenuto una sorta di laboratorio nomade, dove materiali di diversa natura e provenienti da culture distanti tra loro si siano incontrati seguendo traiettorie misteriose, dettate in questo caso dalla mia storia familiare.
Questo processo presenta una circolarità che è data dall’uso promiscuo ed eterogeneo dei materiali.
Su alcuni lavori a parete, ad esempio, il Cotisso è prima utilizzato come soggetto delle nature morte e, poi, trasformato in lastre di vetro fuse tra loro, diviene il supporto di stampa per le immagini di viaggio realizzate lungo la Panamericana. Lo stesso avviene con i materiali da imballaggio, usati sia per il trasporto sia come elementi centrali delle sculture fotografate.
Questa promiscuità è funzionale all’idea centrale del lavoro, in cui nego l’esistenza di una purezza originaria. Poiché ogni elemento in natura è il risultato di una mescolanza avvenuta in precedenza, nella mia prassi cerco di dare una forma poetica ai fenomeni di ibridazione e di intreccio culturale tramite la loro esplorazione ed esaltazione.
SB/MZ: Come mai, al termine del viaggio, a Venezia hai fuso il vetro con il terreno peruviano? Cosa si combina in questa fusione e nel successivo trasferimento al medium fotografico?
LV: Nella parte scultorea dei miei lavori precedenti ho sempre agito accostando e sovrapponendo diversi elementi. Nel caso di Caminantes volevo spingere il processo a un livello ulteriore, ricercando una fusione fisica delle diverse parti così da ottenere una nuova materia nata solo per esistere in questo progetto.
Quest’intenzione nasce dalla idea portante di questo lavoro, che è appunto il raccontare contemporaneamente due culture, due luoghi diversi e di indagare quella particolare condizione per cui il proprio senso di appartenenza è frammentato e rimane sospeso tra origini diverse: non si appartiene totalmente a nessuna delle due ma, al contrario, il livello di appartenenza sfugge e si dilata per lasciare spazio a un’identità multiforme. Questa idea mi ha portato a utilizzare il calore come mezzo per fondere due materiali solitamente molto distanti tra loro, ma entrambi sensibili alle alte temperature: il vetro grezzo di Murano e la terra della selva peruviana. Il risultato ottenuto è stato illuminante, perché ha dato corpo a una nuova sostanza, che nella propria mescolanza racchiude l’idea del lavoro: la materia non può mentire, perché non può mai smettere di essere se stessa.
SB+MZ: Cosa significa per te la registrazione dell’azione del tempo sugli individui, e sul loro rapporto con le cose del mondo (oggetti)?
LV: Nei miei lavori fotografici, che catturano sculture flessibili e temporanee, cerco di contenere il piano tridimensionale dello spazio e il senso quadridimensionale della fluidità del tempo. Penso che la capacità del mezzo fotografico di affrontare il tempo attraverso la sequenza di immagini sia cruciale per la mia pratica. È stato fondamentale soprattutto nel caso di Dalston Anatomy dove volevo ricreare in studio, fotografando le diverse fasi di realizzazione delle sculture, il ciclo naturale di costruzione e distruzione che stavo trovando nella vita quotidiana del mercato di Ridley Road. La fotografia aiuta a preservare le mie opere nel tempo, ma questo è solo un aspetto. Mi aiuta anche a celebrare l’essenza effimera delle mie sculture. Il rapporto tra fotografia e scultura e come queste due discipline, apparentemente lontane, possano essere intrecciate, è centrale per me: lo sguardo fotografico bidimensionale plasma la scultura tanto quanto i volumi che ne fanno parte. La foto funziona come una specie di scalpello: è il mio modo per sapere dove intervenire dopo, scadenzando una ritmicità creativa.
SB/MZ: Gli interventi paesaggistici rispecchiano la natura transitoria di un mondo globalizzato in rapido cambiamento, in cui le culture si fondono tra loro?
LV: Uno degli effetti della globalizzazione è stato quello di velocizzare la circolazione dei prodotti e delle persone. Questa proliferazione ha ridotto le distanze geografiche tra i luoghi e tra i popoli e ha permesso un avvicinamento, attivando nuovi rapporti, nuove dinamiche e nuovi legami. Gli interventi nel paesaggio riflettono questo incontro di persone e di materiali, quindi anche di storie diverse.
Questi interventi avvengono in luoghi a me cari, luoghi a cui sono profondamente legato e soprattutto ambienti naturali ancora inalterati dall’azione umana. Il paesaggio diviene la superficie impura, dove convergono diverse rappresentazioni del concetto di identità. Queste operazioni vengono da me definite innesti perché, proprio come in quelli di natura agraria, avviene una fusione tra parti di specie differenti volta a ottenerne una più pregiata e di migliore qualità. In tali interventi l’innesto avviene tra materie inanimate, che si compenetrano una con l’altra dando forma a una sorta di ramificazione effimera in cui il tessuto Fortuny convive con la gommapiuma peruviana, il PVC si avvolge al tessuto andino e il Cotisso diventa punto d’appoggio e radice della composizione. In questo palcoscenico naturale questi interventi sono una sorta di rituale, concepito per rievocare le mie disparate appartenenze e la storia da cui esse sono scaturite.
SB/MZ: Come ti rapporti con la multidisciplinarietà?
LV: Per raccontare una realtà sempre più complessa e frammentata trovo che sia necessaria una mescolanza di linguaggi. Questa promiscuità è inoltre funzionale al mio interesse verso le tematiche che trattano di eterogeneità, sincretismi e incontri tra mondi diversi. Riguardando il mio percorso a ritroso sembra quasi che tali temi a me cari abbiano nel tempo plasmato il processo stesso. Inizialmente mi sono avvicinato all’arte attraverso la pittura, in un secondo momento – grazie all’esperienza nel cinema dove ho vissuto in prima persona le potenzialità di un approccio “concertistico”, in cui diverse discipline artistiche lavorano all’unisono verso uno stesso fine – ho capito che la multidisciplinarietà fosse la direzione giusta e ho trovato nella malleabilità del medium fotografico lo “spazio” ideale per far coincidere le diverse prassi.
SB/MZ: Cosa significano per te, nella tua ricerca in divenire, i cicli continui di produzione, distruzione e rinascita?
LV: È il ciclo naturale che scandisce la vita di ogni essere. È il respiro del mondo: nascita, crescita e distruzione. Io cerco di rimetterlo in scena nel mio studio ogni volta che realizzo una scultura.
SB/MZ: Ci parleresti delle porzioni di spazio molto limitate, verso cui rivolgi lo sguardo per costruire le tue immagini?
LV: Trovo che concentrare la mia ricerca su porzioni di spazio molto limitate, quali una strada o un edificio, faciliti l’ossessiva attenzione allo studio di queste realtà in cui pratico una sorta di anatomia visiva, una dissezione dal micro al macro del soggetto, che diviene un organismo da svelare o un sistema da scoprire.
SB/MZ: Rispetto al lavoro sul paesaggio di Viaggio in Italia come hai spostato ulteriormente il tuo sguardo e la tua ricerca? Come ti rapporti con le complessità del paesaggio italiano? Porti dentro anche connotazioni politiche nella tua ricerca?
LV: Trovo che la razionalizzazione e la normalizzazione dello spazio urbano stiano rendendo le città dei luoghi sempre più standardizzati, privati di quell’energia che rendeva le strade delle città vive.
Negli ultimi anni questo processo di trasformazione, in particolare dei centri urbani, ha portato a un annichilimento delle comunità locali e di tutte quelle realtà umane che ancora fornivano a ogni città una propria unicità distintiva. La valenza politica del mio lavoro si può forse trovare nella scelta di celebrare tutte quelle oramai micro-realtà, che io chiamo isole di resistenza, che con la propria fragile presenza si impongono alla standardizzazione dilagante e ci ricordano che oltre a uno sviluppo unicamente volto al profitto esistono altre possibilità.
In particolare, nel lavoro Viaggio in Italia, il paesaggio che ho trovato non era più quello delle pale e degli altari di Pasolini o quello che aveva fotografato Ghirri negli anni ‘60.
La via Emilia di oggi è la perfetta rappresentazione della nuova composizione del paesaggio della città allargata, in cui si alternano senza soluzione di continuità le carcasse delle industrie dismesse, i centri commerciali, le schiere di villette anonime e proliferano negozi di prodotti a basso costo importati dalla Cina. Questo magma caotico è intervallato qua e là da brevi frammenti di campagna e dalle bellezze dell’architettura storica che resiste.
Per raccontare in una mostra l’essenza disorganica di questo paesaggio stratificato e condensato da realtà e spazi in contraddizione tra loro, ho pensato che il modo più adatto fosse quello di rimescolare tutto il materiale visivo raccolto (immagini di architettura, still life e ritratti), dando forma a un’installazione tridimensionale che fosse in completa contraddizione con l’antica bellezza del chiostro di San Pietro.
A livello formale è forse il lavoro più estremo che ho realizzato, perché non ho utilizzato nessun filtro in relazione allo stridente del contemporaneo. Ho riportato, infatti, le stesse cromie e atmosfere trovate nei prodotti a basso costo cinese e nelle forme di un’architettura anonima, facendo dialogare in un’unica opera, ad esempio, il giallo ocra caratteristico degli edifici del Mercatone Uno con le plastiche di importazione e gli scampoli di pelle di una conceria.
SB/MZ: Che ruolo ha l’incoerenza (se la utilizzi come la fai agire?) nella tua pratica fotografica?
LV: Nella mia pratica cerco di usare l’incoerenza per la sua componente destabilizzante, capace di creare situazioni di tensione all’interno dell’opera. Se in alcuni lavori ricerco un’armonia tra le diverse parti, che si riesce a creare quando queste si incontrano in un equilibrio e danno vita a sculture di carattere quasi totemico, in altri ricerco invece l’effetto opposto: cerco nella composizione dell’immagine una discrepanza delle parti, una incoerenza appunto. Queste sono le immagini più caotiche, dissonanti, cariche di una tensione che racconta e preannuncia la fase di distruzione del mio processo: il collasso di una scultura o di un’installazione. Proprio questi momenti di distruzione però racchiudono una forte vitalità, un’energia intensa, che sempre ricerco.
SB/MZ: Lavorare con culture altre espone ai rischi di appropriazionismo ed esotizzazione, due “peculiarità” di un atteggiamento europeo “globale”. Perché il tuo lavoro non è appropriazionista?
Per la natura del mio lavoro, che indaga forme differenti di ibridazione e contaminazione, mi sono trovato ad affrontare queste tematiche e a trattarle includendole nella mia pratica.
In particolare, un lavoro in cui ho approfondito il mio posizionamento rispetto all’atteggiamento europeo è stato Money Must Be Made, realizzato in Nigeria. In questo progetto, infatti, intervenivo in una realtà distante da me e la mia posizione di artista europeo residente in Inghilterra era effettivamente, come si dice oggi, problematica. Il lavoro è divenuto quindi un’opportunità per affrontare le diverse questioni ed esperirle in prima persona sul campo.
Già nell’invito a partecipare alla residenza a Lagos del curatore Azu era implicita la necessità, o almeno il tentativo, di un mio posizionamento e una mia presa di coscienza riguardo a questi temi.
Prima di tutto ho deciso di focalizzare il mio sguardo su una tematica che non rientrasse nella solita rappresentazione univoca e semplicistica del continente africano da parte dell’Occidente come continente lacerato da guerra, miseria e povertà. Questa è infatti la cornice in cui l’Africa viene non di rado rappresentata, in particolare nell’ambito della fotografia. Ecco perché il mio lavoro Money Must Be Made, che ha come soggetto la dinamicità dell’economia informale a Lagos, nasce con l’intenzione di raccontare la complessità della realtà africana, evitando le semplificazioni prodotte dai media occidentali.
Inoltre, parte del mio processo consiste nell’attivazione di collaborazioni con la comunità in cui lavoro, così da dare al soggetto un ruolo partecipativo e instaurare un rapporto di scambio fertile.
Attraverso la metodologia, ho cercato inoltre di superare un altro problema ricorrente, ovvero quello di un rapporto fotografico a senso unico, dove il fotografo impone uno sguardo privo di potenziale creativo che non può essere che subìto, e mai fruito, dal soggetto.
Il pattern è infatti solitamente questo: gli autori europei arrivano in Africa e producono un lavoro, che poi viene poi distribuito e consumato solo nei canali del nord globale senza mai tornare nel luogo di origine. Ho sempre trovato questo fenomeno ingiusto ed è per questo motivo che la prima mostra del lavoro e stata fatta proprio a Lagos.
Per scardinare questa dinamica ho riportato nel luogo sorgente il risultato del lavoro, cercando un riscontro da parte della comunità locale attraverso la stampa di un libro e la richiesta di confronto con le persone, raccogliendo frammenti di interviste e rendendole parte integrante del lavoro. Ho anche incluso nel processo artigiani e competenze locali, come nella collaborazione attiva che ho instaurato con un calligrafo.
Concludendo, trovo che per evitare i rischi di una visione eurocentrica sia necessaria innanzitutto una presa di coscienza rispetto al proprio ruolo all’interno delle comunità in cui si è ospitati ed al contesto storico di quel determinato luogo. Penso anche che sia necessario evitare di imporre la propria visione acriticamente, ma attivare invece un atteggiamento di continuo dubbio rispetto alle proprie azioni.