E’ stata presentata oggi alla stampa I’ll Be There Forever The Sense of Classic, la mostra – prodotta da Acqua di Parma e a cura di Cloe Piccoli – che “scandaglia un tema d’attualita? e rilevanza internazionale, come quello del classico nell’arte contemporanea, osservando come gli artisti si confrontino con questo concetto.” La mostra è ospitata a Palazzo Cusani (Milano) dal 15 maggio al 04 giugno 2015.
ATPdiary ha posto una serie di domande agli artisti, in merito sia al concetto della mostra che alle opere che esporranno in questa occasione. Dopo le interviste di Diego Perrone, Massimo Bartolini, Simone Berti e Armin Linke, vi presentiamo quella di Rosa Barba.
ATP: La mostra “I’ll Be There Forever/The Sense of Classic” ti ha portato, per molti versi, a relazionarti con concetti quali classico, storia, storia dell’arte e figure archetipe, ma anche termini come intramontabile, canonico ed esemplare. Mi dai una tua definizione di “classico”?
Rosa Barba: “Classico” per me è un termine che si riferisce a qualcosa di molto autentico e che dura nei vari decenni. È appropriato e suscita delle discussioni. È qualcosa di cui non si può dare una definizione conclusiva perché è in costante variazione, mantiene la sua idea originale ma reinventa sempre la terminologia.
ATP: Hai mai pensato al tuo lavoro in relazione all’ “imponente” storia dell’arte? O, ad un altro aspetto fondamentale: la durata di un’opera?
RB: Non riesco a vederlo in questo modo, io sono all’interno del mio lavoro, è un processo continuo e non penso mai che un’opera d’arte sia veramente finita. Sono più punti su una mappa che cercano di illustrare un’immagine più grande. Immagino che potrò osservare il mio lavoro e i suoi collegamenti più avanti, oppure potrà farlo qualcun altro.
ATP: Idealmente, hai mai immaginato una tua opera tra un secolo? Come sarà fruita o, ancora, cosa ne resterà?
RB: A volte penso a come i miei film potrebbero comunicare nel futuro quando il paesaggio si sarà trasformato ulteriormente e quando gli immaginari si saranno potuti avverare. È un altro argomento fittizio.
ATP: Il ciclo “The Hidden Conference” è stato realizzato nei depositi di grandi musei. Cosa ti affascina di questi luoghi? – In occasione della mostra “I’ll Be There Forever/The Sense of Classic”, presenterai il terzo episodio “The Hidden Conference: About the Shelf and Mantel”, realizzato alla Tate Modern di Londra. Mi introduci brevemente questo video?
RB: Il mio interesse era su come le opere di autori contemporanei e non contemporanei possano ora condividere lo stesso spazio senza che gli autori si conoscano. Le opere possono continuare una conversazione nel tempo – e nei “luoghi” – e hanno molte più possibilità di rispondere a interrogativi. È un altro punto di vista su una specie di “tempo archeologico” tra le opere. I film evocano le possibili conversazioni immaginarie fra le opere d’arte nel deposito del museo. “The Hidden Conference: About the Discontinuous History of Things We See and Don’t See” è un’opera in evoluzione che conferma la mia continua ricerca sulle aree e sugli archivi del deposito culturale: le opere d’arte conservate diventano protagonisti di una narrativa filmica che si svolge di fronte ad una telecamera portatile: i loro nessi invisibili e la condizione di coesistenza silenziosa sono animati, oltre che dalle affermazioni scientifiche o cronologiche, dal lavoro incessante della telecamera e del montaggio di frammenti testuali, fermi-immagine ed elementi sonori. Anche il paesaggio sonoro, come avviene sempre nei miei film e nelle installazioni, si fa sostenitore del processo di invenzione.
“The Hidden Conference: About the Discontinuous History of Things We See and Don’t See”, è stato girato poco dopo aver lanciato il progetto “a curated conference” presso il Museo Reina Sofia di Madrid nel 2010, e ne è un ulteriore approfondimento. Girato in un luogo indefinito (il magazzino del Neue Nationalgalerie di Berlino) e in “un punto imprecisato nel tempo (nel futuro o nel passato)”, porta alla luce una situazione che come ci informa il prologo scritto, anche se esiste da anni, ora ha assunto un certo “grado di urgenza”. Tuttavia, non si conosce più il motivo dell’incontro. Mentre la telecamera coreografa un gruppo eterogeneo di oggetti d’arte avvolti in un’illuminazione noir, emergono narrazioni frammentarie che però non si uniscono mai. Ancora una volta la narrazione funge da “mediatore non (da) soluzione”.
Il discorso fa parte dell’esecuzione corporea poiché la colonna sonora minimalista di Jan St. Werner, mio collaboratore da lungo tempo, incita le opere – di Ernst Barlach, Renée Sintenis, Gerhard Marcks, e altri ora affondati nell’anonimato – a creare un senso di gioco attraverso il gesto, l’atteggiamento, la postura e lo sguardo. Lungi dal contestare il paradigma dell’archivio come una visione futuristica fallita, questa conferenza clandestina ne conferma la retorica. Il pathos circonda le ambizioni di un tempo del museo, visto come insieme rappresentativo, mettendo in discussione la possibilità di un recupero redentore di questi frammenti senza collocazione, in una storia spezzata. “The Hidden Conference: A Fractured Play” (2011) è stato girato negli archivi dei Musei Capitolini a Roma, mentre la parte più recente “The Hidden Conference: About the Shelf and Mantel” nei depositi della Tate di Londra nel 2015. Questa terza parte ha un forte elemento sonoro che dialoga con le opere visive. Possiamo sentire frammenti di interviste, dichiarazioni di artisti, che presumibilmente sono presenti anche nei depositi del museo.
(Traduzione di Gabrio Micheli)