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New Photography | Intervista con Nicolò Lucchi

"Nel mio lavoro, spesso agisco come se dovessi condurre un esperimento: mi do delle regole da seguire, definisco i tempi di realizzazione, ma non penso all’immagine che deve emergere. Mi concentro invece su come i materiali possano interagire tra loro e lascio che le cose accadano." Nicolò Lucchi

Per la rubrica New Photography, Sara Benaglia e Mauro Zanchi hanno intervistato Nicolò Lucchi

Nicolò Lucchi è un artista, che esplora l’evoluzione dell’immagine, mettendone in discussione la stabilità sia del corpo che della forma. La sua ricerca, fortemente legata ad uno studio della fotografia, va oltre la mera rappresentazione visiva, aprendo spazi astratti in cui l’immagine diventa un processo in continua trasformazione. La fotografia si interseca con fenomeni naturali, come l’acqua e l’erosione, che alterano la superficie dell’immagine, creando paesaggi fugaci e in continua evoluzione.

Sara Benaglia – Mauro Zanchi: Nella tua pratica artistica, che è strettamente legata al fotografico, sperimenti una fotografia di processo. Che cosa significa lavorare ai margini dell’immagine?

Nicolò Lucchi: Ciò che mi ha sempre affascinato del mondo dell’immagine è la sua relazione con la materia. Viviamo le immagini come se non avessero una loro consistenza, ma fossero principalmente una rappresentazione del reale, assumendo uno stato che coinvolge solo il nostro apparato visivo, filtrato da schermi e dispositivi di ogni genere. Le immagini esistono sui dispositivi digitali e non acquisiscono una dimensione concreta fino a quando non vengono stampate su un supporto materiale. L’aspetto intangibile dell’immagine ha suscitato in me un forte bisogno di fisicità e materialità, spingendomi a interrogarmi su quale sia la sua dimensione di oggetto sensibile. Per me, lo spazio di accesso a una nuova visione della realtà non risiede nella rappresentazione del reale, ma nel modo in cui un’immagine prende forma nel reale. In questo senso, l’immagine, nella mia pratica, è un oggetto scultoreo. Lavorare ai margini dell’immagine significa per me operare nei limiti del potenziale del mezzo fotografico, là dove esso risulta fragile o già definito concettualmente. Dove sembra esaurire il suo potenziale, io intervengo per dare risonanza a queste zone liminali.

SB+MZ: Acqua dura (2018-19) è un lavoro che hai sviluppato in Lessinia, dove hai studiato un paesaggio che si muove e hai individuato una temporalità non registrabile dalla macchina fotografica. Che tipo di temporalità dilatata hai ricercato? Come si può registrare un processo carsico in fotografia?

NL: Nel lavoro Acqua Dura ho cercato di esplorare una temporalità che si sviluppa oltre il tempo dello sguardo, al di là della capacità della fotografia di catturare un istante. Il processo carsico, infatti, è un fenomeno geologico che si compie in tempi lunghissimi: l’acqua, scivolando sul terreno, si arricchisce di anidride carbonica e dissolve lentamente la roccia calcarea. Ma questa distruzione porta con sé anche una fase costruttiva: il carbonato di calcio, trasportato dall’acqua, precipita e dà origine a nuove formazioni come stalattiti e stalagmiti. Mi interessava questa idea di un tempo che consuma e allo stesso tempo genera, un tempo che non si lascia catturare in un singolo istante, ma che si deposita e si accumula.
Per registrare un processo carsico in fotografia ho lavorato con un dispositivo in cui la natura stessa diventa autrice dell’immagine. La mia installazione è composta da una scultura “temporale”, una collana di pietre carsiche sospesa, sulla quale gocciola acqua con pH acido. Come accade in natura, l’acqua scioglie la superficie delle pietre e trasporta il materiale disciolto fino a depositarlo su un foglio di carta fotografica. Con l’evaporazione, il carbonato di calcio si solidifica, lasciando una traccia visibile sulla carta. Ciò che ne risulta non è una rappresentazione del processo carsico, ma la sua impronta fisica, la sua memoria sedimentata nel tempo.

SB+MZ: Nell’installazione finale di Acqua dura (2018-19) emerge un’idea molto materica di fotografia, attraverso la sperimentazione di una immagine che non è “scrittura di luce”, ma altro. Che cosa è il sedimento materico lasciato in questa installazione e in che modo questa lavorazione è tangente o parte del fotografico?

NL: Sembra esserci una forte similitudine tra il processo di sedimentazione geologica e quello di creazione di un’immagine fotografica. Nel lavoro Acqua dura ho esplorato questa analogia modificando i materiali che generano un’immagine: la fotografia si è così allontanata dalla sua definizione tradizionale di “scrittura di luce” per diventare un processo di sedimentazione, in cui l’immagine emerge non per impressione luminosa, ma per accumulo di materia. Il sedimento lasciato nell’installazione inizia a interagire con la chimica della carta fotografica, dando vita a un nuovo paesaggio. La fotografia, dunque, si modifica nella sua struttura materica e si presenta come un oggetto/con- tenitore di tempo e memoria.

Nicolò Lucchi, Acqua Dura, 2019, Carta fotografica, Residuo calcare

SB+MZ: Che implicazioni ha il tuo studio del residuo rispetto a un tempo non biologico? La fotografia può essere ricondotta a un tempo geologico?

NL: Quando si inizia a studiare il paesaggio, ci si accorge subito che esso si muove in un tempo che non è percepibile dall’essere umano. Una piccola depressione del terreno, in un paesaggio carsico, si forma nell’arco di migliaia di anni. Ciò che ci resta è la memoria fisica del tempo trascorso. Per questo, nel mio lavoro, lo studio del residuo diventa un modo per interrogare il rapporto tra immagine e tempo, andando oltre la dimensione biologica e umana per avvicinarmi a un tempo più ampio, che in alcuni casi si può definire geologico. La fotografia, in questo contesto, non è un dispositivo per congelare il tempo, ma un mezzo per renderlo visibile attraverso la sua azione sulla materia.

SB+MZ: Qual è il tuo ruolo di artista rispetto all’azione materica che programmi? La materia è autonoma?

NL: La materia vive con noi e al di fuori di noi. Siamo in un costante scambio di relazione con essa. Henri Bergson ci pone di fronte a una realtà materiale che definisce come “immagini esistenti in sé”, una definizione che mi affascina particolarmente perché attribuisce alla materia un piano di autodeterminazione e, allo stesso tempo, la considera composta della stessa “sostanza” delle percezioni. Dunque, sì, la materia è autonoma, ma la percepiamo come un’immagine filtrata dalla nostra esperienza e dalla nostra memoria. Continuo a riflettere su quale debba essere il ruolo dell’artista nei confronti del proprio lavoro e, nel tempo, ho sviluppato un approccio in cui la mia presenza è spesso marginale nel processo creativo, limitandomi a creare le condizioni iniziali senza imporre un risultato rigido. Nel mio lavoro, spesso agisco come se dovessi condurre un esperimento: mi do delle regole da seguire, definisco i tempi di realizzazione, ma non penso all’immagine che deve emergere. Mi concentro invece su come i materiali possano interagire tra loro e lascio che le cose accadano. Spesso il fallimento è l’aspetto più interessante. Gioco costantemente con il caso affinché non vi siano processi o soluzioni predeterminate.

SB+MZ: In Immagini di caverna (2019-20) hai inserito della carta fotografica in tre diverse grotte. Che cosa significa registrare un’immagine in un ambiente privo di luce? Cosa comporta lavorare su immagini mutanti che, seppur sviluppate e fissate, sono imprevedibili?

NL: Mi affascinano le caverne perché sono luoghi di sospensione. Nelle grotte che si sviluppano in profondità verticale nella terra, l’ambiente interno rimane stabile, con una temperatura che varia di pochi gradi durante il passaggio delle stagioni. Inoltre, gli eventi non sono scanditi dall’alternanza tra giorno e notte: è come se tutto fosse sospeso e la concezione del tempo, così come la intendiamo, venisse meno. Registrare un’immagine in un ambiente privo di luce significa innanzitutto lavorare con la materia fotografica al di fuori del suo tradizionale paradigma rappresentativo. Nel progetto Immagini di Caverna, l’assenza di luce trasforma la fotografia: non è più una testimonianza diretta di una realtà visibile, ma diventa traccia di un processo, impronta di un tempo interno alla terra. L’idea dell’immagine mutante presuppone la mancanza di controllo sul lavoro, e questo mi entusiasma perché apre a una concezione temporale ancora più astratta e imprevedibile. Stefan Klein, nel saggio Il tempo. La sostanza di cui è fatta la vita, descrive l’uomo nel suo costante tentativo di dominare il flusso temporale: misurandolo, scandendolo, tentando di fissarne i momenti. Tuttavia, il tempo reale – quello della natura – rimane sfuggente e incontrollabile. Dare all’immagine la possibilità di rappresentare ciò che non riusciamo a controllare è davvero entusiasmante.

SB+MZ: Che cosa significa fare interagire una carta fotosensibile con altri materiali. Se togliamo la radice “foto” dal fotografico, in quale sistema entriamo? Se dovessi coniare un neologismo, come definiresti la tua pratica?

NL: Far interagire una carta fotosensibile con altri materiali significa alterare il processo tradizionale della fotografia, spostandolo da un sistema basato esclusivamente sulla luce a uno in cui sono la materia e il tempo a determinare la formazione dell’immagine. Togliendo la radice “foto” entriamo in un sistema di possibilità davvero infinite, per quanto riguarda il mio lavoro potrei dire che si entra in una dimensione ambientale dove appunto è l’ambiente esterno che determina la scrittura. Se dovessi coniare un neologismo per definire questa pratica, potrebbe essere “echomateria” intesa come una sostanza che si manifesta come un’eco.

SB+MZ: Abbiamo visto il tuo lavoro installato nella mostra “SPORCO”, nello Spazio Contemporanea a Brescia. Una delle prime immagini che ho incontrato è stata una delle tue Evaporazioni (2022-23). Che processo hai seguito per creare i “negativi” di queste stampe?

NL: Il processo alla base delle Evaporazioni si basa su una trasformazione graduale della superficie della carta. Utilizzo una striscia di carta composta all’80% da polvere di pietra, il che la rende altamente impermeabile. Questa viene immersa in contenitori verticali pieni d’acqua arricchita con carbonato di calcio e pigmento colorato. I contenitori sono stati posizionati in luoghi e stagioni diverse, in modo che fosse l’ambiente esterno a determinare la velocità di evaporazione dell’acqua e, di conseguenza, la forma dell’immagine astratta sulla carta. Il naturale processo di evaporazione fa sì che, asciugandosi lentamente, l’acqua depositi gradualmente sulla carta il residuo pigmentato, creando variazioni di densità e tracce imprevedibili.

SB+MZ: In che modo cerchi di scardinare il fotografico costruendo immagini temporali senza luce, in cui a scrivere è la natura e non una macchina?

NL: Cerco di scardinare il concetto tradizionale di fotografia eliminando l’elemento essenziale della luce come unico mezzo di registrazione. Nel mio lavoro, infatti, l’immagine emerge attraverso interazioni fisiche e chimiche spontanee che avvengono al buio totale, come nel caso del progetto Immagini di Caverna o attraverso l’evaporazione dell’acqua come nel caso delle Evaporazioni. Così facendo, la carta non è più semplicemente una superficie che riceve un’immagine, ma diventa un sensore vivo che registra autonomamente le tracce e i segni di queste interazioni. La materia assume un ruolo centrale e indipendente, generando autonomamente un’immagine che è testimonianza concreta e spontanea dell’azione della natura. In un’intervista a Bruce Nauman contenuta nel libro Inventa e Muori lui esprime un concetto che condivido: “Per me l’arte è molto interessante quando smette di funzionare in quanto tale; quando ciò che intendiamo per pittura non è più pittura, o quando la riproduzione a stampa cessa di essere riproduzione a stampa, tutte le volte che l’arte si propone diversamente da come siamo abituati”.

SB+MZ: Come è nato Stillicidio (2025)?

NL: Avevo già realizzato le Immagini di Caverna, ma sentivo di non aver esaurito il mio interesse per gli ambienti bui delle grotte carsiche. Così, ho deciso di entrare in contatto con un gruppo di speleologi di Verona e ho chiesto il loro aiuto per sviluppare un nuovo progetto. Attrezzati, siamo scesi nella grotta del Monte Capriolo, una cavità orizzontale che si estende per circa 260 metri, con un dislivello di 50 metri e una temperatura costante di circa 9-10 gradi. In questo spazio, completamente avvolto nell’oscurità, ho collocato per 20 giorni una striscia di carta fotografica lunga 7 metri. Durante questo periodo, la carta è stata esposta allo stillicidio, il gocciolamento naturale dell’acqua che, interagendo con l’emulsione fotosensibile, ha prodotto trasformazioni chimiche imprevedibili. Una volta estratta, sviluppata e fissata, l’immagine ha rivelato le tracce delle condizioni ambientali e delle forze fisiche che hanno agito sulla superficie sensibile. La percezione del lavoro da parte dello spettatore è un aspetto fondamentale. Per questo, l’utilizzo di una striscia di carta fotografica di 7 metri è stato essenziale: mi ha permesso di restituire, nell’allestimento della mostra “SPORCO” a Spazio Contemporanea, una dimensione scultorea e temporale che nelle Immagini di Caverna non ero riuscito a trasmettere con la stessa intensità.

SB+MZ: Che relazione c’è tra Gola (2024-25) e i fantasmi del futuro? In che modo l’immagine instabile e la disgregazione si relazionano qui con materiale di scarto?

Gola indaga il legame tra memoria, immagine e percezione, esplorando la loro natura instabile. Le fotografie che compongono il progetto provengono dal mio archivio personale e vengono sottoposte a un processo che ne mette in discussione la permanenza e la leggibilità.
Nel mio lavoro utilizzo il carbonato di calcio per attivare un processo di trasformazione delle immagini. Stampando su fogli di PVC nero con una stampante a getto d’inchiostro, applico questa sostanza sulla superficie. Il contatto con l’inchiostro ne altera progressivamente la stabilità, impedendo all’immagine di fissarsi definitivamente. Mark Fisher rielabora in chiave contemporanea il concetto di hauntology, già espresso da Derrida, analizzando un presente ossessionato dal passato, in cui le possibilità di futuro sembrano svanire. Lo fa attraverso la produzione musicale di diversi artisti, tra cui alcuni legati all’etichetta britannica Ghost Box.
Influenzato dall’ascolto di questi spettri musicali, che attingono profondamente alla musica concreta, mi sono approcciato alle fotografie del mio archivio personale e ho elaborato questa serie di immagini. La disgregazione e l’instabilità dell’immagine non derivano soltanto da una scelta estetica, ma sono legate alla natura stessa della memoria, descritta da Bernard Stiegler come una memoria vivente che, se non iscritta in una forma oggettiva, tende inevitabilmente a dissolversi. La mia pratica in Gola lavora sulla condizione discreta e fragile dell’immagine/ricordo e su come la memoria del nostro passato continui a condizionare il presente e a generare fantasmi del futuro. Il materiale di scarto era sicuramente quello che più si avvicinava concettualmente al tipo di immagine precaria che stavo sviluppando. Mi è capitato spesso di trovarmi in stamperie industriali, dove il PVC è molto utilizzato; ho fatto delle sperimentazioni con questo materiale e le sue caratteristiche fisiche si sono rivelate perfette per le ricerche che stavo portando avanti.

Cover: Nicolò Lucchi, Gola, 2024, Stampa inkjet e carbonato di calcio su vinile, Supporto acciaio forato, 2 Pannelli 200 x 100 cm, Spazio Contemporanea, Brescia, 2025 copia

Nicolò Lucchi, Stillicidio, 2025, Carta fotografica, Supporto in acciaio e nylon 700 x 108 cm, Spazio Contemporanea, Brescia