Lucrezia Zanardi (1994, Bologna) è artista multimediale, ricercatrice e docente presso la Dortmund University of Applied Sciences and Arts. Sta completando il dottorato di ricerca presso il Radboud Institute for Culture and History presso la Radboud University Nijmegen. Ha studiato arti multimediali presso l’Università IUAV di Venezia e presso la Karlsruhe University of Arts and Design, conseguendo la laurea triennale a Venezia nel 2016.
Il suo lavoro si concentra su due temi principali: la percezione individuale e collettiva e le pratiche mnemoniche nella ricerca d’archivio. La materialità, la sua presenza tridimensionale e le sensazioni tattili sono essenziali per l’elaborazione della sua ricerca fotografica, che prende forma nel momento dell’installazione e della fruizione.
Per la rubrica New Photography, Sara Benaglia e Maura Zanchi hanno intervistato Lucrezia Zanardi —
Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Nel tuo lavoro la percezione personale e collettiva e le pratiche di memoria nella ricerca archivistica si intersecano. In che modo la materialità, la sua presenza tridimensionale e la sensazione tattile sono diventate parte integrante della tua pratica fotografica?
Lucrezia Zanardi: Tutto è iniziato da un interesse e una fascinazione per il frammento archivistico che sono strettamente collegati ad una materia “che rimane”, che per il suo contenuto e significato viene preservata. Allo stesso modo, anche al di fuori dell’istituzione, altri frammenti e informazioni circolano ed entrano in dialogo con una socialità famigliare e più intima. Penso agli album di famiglia, a memorie scritte, ma anche agli oggetti della quotidianità, che ci ancorano ad uno spazio e ad una determinata percezione del nostro universo personale. Nel mio approccio fotografico queste dinamiche tra il materiale d’archivio e il dialogo con i luoghi da cui questi materiali provengono si intrecciano visivamente e percettivamente. Mi stimola entrare in dialogo con una archeologia dell’oggetto e ragionare anche sui livelli immateriali che circondano la sua presenza fisica. Credo sia una esigenza nata anche da una frustrazione nell’agire e pensare nel bidimensionale dell’immagine, in un ragionare sulle forme che pian piano si è trasformato in un interesse nel riflettere attraverso il gesto fotografico sulla percezione dello spazio e delle relazioni intrapersonali e materiali. Questo interesse si esprime anche nella produzione stessa delle opere. È importante per me avere una relazione molto stretta con l’oggetto fisico che verrà fruito, ad esempio la creazione delle cornici fatte a mano, il levigare legno e parole, trasferire immagini su vetro, o frammentare immagini e ricomporle. È un approccio che mi porta a riflettere continuamente su cosa ho fatto o visto, a rimettere in discussione e lasciare spazio associativo tra elementi che alle volte prendono il sopravvento, altre fanno spazio ad ulteriori percezioni. Per questo mi interessa anche un lavoro un po’ “sporco”, nel quale si percepisca la traccia soggettiva e un discorso associativo e aperto ad una visualizzazione tattile che non si fermi allo sguardo, ma spinga a ragionare insieme a me sul processo associativo in modo dialogico.
SB+MZ: Il tuo primo lavoro che abbiamo conosciuto è stato Present Traces of a Past Existence: A Photographic Research (2017-2020). Si tratta di una indagine fotografica sulla diarista olandese Etty Hillesum (Middelburg, 15 gennaio 1914 – Auschwitz, 30 novembre 1943). Come sei arrivata a lei? Perché hai scelto proprio il medium fotografico per questo progetto?
LZ: Questa ricerca parte da molto lontano. Avevo dodici anni quando per la prima volta sono entrata in contatto con i diari di Etty Hillesum e tredici quando ho iniziato a leggerne la versione ridotta in italiano. Nel 2012 è uscita anche in Italia la versione integrale. Per me i diari di Hillesum sono stati una lettura e certezza costante. Mi hanno formata e influenzata nel pensare e relazionarmi con l’esterno. L’interesse è partito dal leggere della difficoltà iniziale e continua ricerca di Hillesum della propria “forma”, le frustrazioni nel non trovare le parole giuste e gli esercizi di scrittura dei quali i diari sono testimoni. Per la me adolescente, alle prese con le prime esperienze più ragionate di scrittura diaristica, questa ricerca di una forma che continua a levigarsi, riraccontarsi e mettersi in dubbio, è stata una grande rivelazione e stimolo verso una ricerca-altra, che è partita dalla parola scritta e poi ha raggiunto la fotografia. Nella fotografia ho ritrovato un linguaggio col quale sentirmi a mio agio e centrata rispetto al mio stare e sentire, che mi permette di continuare ad essere in ricerca. Questo approccio di ricerca di linguaggio lo devo molto a Hillesum ed è per questa ragione che nel 2017 ho iniziato questo progetto: per entrare in un dialogo più maturo con lei e segnare una chiara distanza fra i pensieri, che a forza di rileggere avevo cominciato a fare miei in una sorta di appropriazione, e la reale vita di Hillesum, con il suo contesto storico e la sua vita di tutti i giorni. Questo è stato possibile grazie alla cooperazione col centro di ricerca Etty Hillesum di Middelburg, che mi ha permesso di entrare in dialogo con ricercatori ed istituzioni, che mi hanno assistita nel transitare da una ricerca del tutto personale ad una indagine sul campo più dialogica e attenta a considerare le percezioni di Hillesum nello spazio attorno a lei. Credo che in qualche modo in questo dialogo in differita la commistione tra il medium scritto e fotografico sia stata una diretta conseguenza del confluire della sua ricerca di scrittura e della mia ricerca visiva.
SB+MZ: In merito alle immagini tratte dagli archivi di Etty Hillesum, in che modo li hai resi appunti e poi sistema relazionale, che include complementi di arredo e gestualità?
LZ: I diari e le fotografie di Hillesum sono preservati all’interno del Resource Centre del Museo Ebraico di Amsterdam. Qui ho avuto la possibilità di lavorare nell’archivio e toccare con mano i suoi diari, lettere e fotografie. In questo contesto ho cominciato a riflettere su un’idea di archivio espanso che non si limita agli oggetti preservati e viene integrato da nuove informazioni e tracce, anche impercettibili, evocative o coincidenziali, nei luoghi descritti e vissuti da Hillesum, anche attraverso l’esperienza e le atmosfere percepite dagli attuali abitanti. Per via di questo interesse, la mia esperienza in archivio ha cominciato ad esplorare, in una sorta di indagine etnografica, le relazioni e gestualità presenti nelle fotografie, ma anche allo stesso modo il gesto lasciato dalla grafia di Hillesum su diari e lettere, cercando di tracciare o immaginare movimenti e relazioni. Al contempo anche i complementi d’arredo hanno cominciato a prendere la mia attenzione, dettagli che hanno informato anche l’indagine fotografica all’interno delle case ora abitate da altre famiglie, in cantiere, o allora (2017-2018) adibite ad altra funzione. Ho fatto questo concentrandomi su dettagli delle fotografie attuando un reframing sull’immagine in modo da fissarle in memoria come appunti visivi che potessero aiutarmi a continuare la ricerca al di fuori dell’archivio.
SB+MZ: In che modo la tua attenzione, orientata al sé, si è sviluppata nel corso degli anni in una riflessione sulla percezione del materiale d’archivio e sugli strati della memoria? A quale tipo di indagine fenomenologica dell’atto fotografico ti ha iniziato questo approccio?
LZ: Ho già in parte risposto a come il materiale d’archivio è entrato nella mia ricerca artistica e su come approccio il concetto di archivio in un senso più espanso. Allo stesso modo il pensiero fotografico si è sviluppato negli anni in una idea di fotografia espansa. Dal progetto su Etty Hillesum mi sono resa conto che il mio lavoro funziona per associazione, in un fare che si interroga continuamente su cosa ho visto e su come possa esistere in relazione ad altri frammenti visivi, o meglio, come possa effettivamente dare forma all’esperienza di indagine fotografica attraverso qualcosa che racchiuda e proponga, e forse presupponga, un pensiero associativo. In questo senso la ricerca è anche una indagine fenomenologica dell’atto fotografico, che spero possa arrivare anche all’osservatore e che permetta anch’esso di entrare in una ricerca associativa propria. Questo pensiero è stato influenzato molto dallo studio di Vilém Flusser sui gesti del fotografo, ma anche da questi ultimi quattro anni di ricerca all’interno dell’archivio della fenomenologa Edith Stein, e conseguentemente entrando in contatto col suo metodo.
SB+MZ: Tra il 1941 e il 1943, indirizzata dal proprio psicochirologo, Etty Hillesum iniziò a redigere i suoi diari. In che modo l’analisi della mano entra nel tuo progetto?
LZ: La psicochirologia è lo studio delle linee della mano. Ci sono diverse correnti e approcci a questa pratica. Julius Spier, lo psicochirologo di Hillesum, aveva studiato con Carl Gustav Jung e considerava la sua pratica non come una previsione del futuro di una persona, ma come una possibilità di conoscere le proprie inclinazioni innate o derivanti dall’influenza famigliare. Attraverso il network del centro di ricerca Etty Hillesum, ho collaborato con una studiosa che ha un dottorato sulla pratica psicochirologica di Spier, Alexandra Nagel, perché è probabile che sia stato lui a indirizzare Hillesum a tenere un diario, come aveva fatto con molti dei suoi pazienti. Hillesum incontra Spier per la prima volta il 3 febbraio 1941 e partecipa ad una sua lezione in quanto oggetto di studio. Era molto prevenuta inizialmente per poi ricredersi e decidere di entrare in terapia con lui. Questo documento, l’analisi delle sue mani, è una scoperta di Alexandra stessa. Assieme ad Alexandra ho avuto modo di rileggere i diari di Hillesum e comprendere quanto la psicochirologia l’abbia entusiasmata, tanto da diventare per un periodo anche assistente di Spier. Da questo dialogo è nato un libro che, con lo stesso approccio delle cornici, può essere letto a diversi livelli ed intensità e combina l’analisi delle mani, come prologo dei diari, alla forma che poi questo incontro iniziale con Spier ha preso, quella del diario. Il libro riprende la forma e lunghezza di uno dei diari. La rilegatura giapponese ha permesso di stampare le scansioni dell’originale all’interno delle pagine, all’esterno parti dell’analisi delle mani di Hillesum sono presentate, accompagnate dalla ricerca fotografica nei luoghi collegati a Hillesum. L’indice, scritto assieme ad Alexandra, è più un racconto che la didascalia di ogni singola pagina e alterna spiegazioni del testo dell’analisi delle mani e racconti dai miei dialoghi con le persone che ora vivono nei luoghi che ho fotografato.
SB+MZ: In Diario 28.05.2017 – 30.08.2017, fotografie non lineari sono poste in relazione associativa con un testo scritto a mano e disposto cronologicamente. Questa associazione, che ha creato un mezzo analitico per un viaggio introspettivo, è riproposta in forma diaristica, e come ogni pubblicazione propone un senso lineare di lettura. Come esplori il tempo nel tuo lavoro?
LZ: La forma del diario, come probabilmente oramai è chiaro da questa intervista, ha accompagnato la mia ricerca fin dall’inizio. In Diario 28.05.2017 – 30.08.2017 ho documentato la prima ricerca fotografica collegata al progetto su Hillesum scrivendo a mia volta il mio diario di bordo. Parte dei diari utilizzati durante la ricerca sono anche racchiusi nelle cornici ed interagiscono con le immagini e la grafia. È stato molto importante ragionare sul mio approccio a questo progetto e al mio situarmi in quanto fotografa ma anche lettrice dei suoi diari. Così, influenzata dal suo linguaggio, avevo paura di perdere il filo del mio discorso e per questo è stato importante, una volta tornata a Dortmund, riprendere i diari in mano e analizzare cosa fosse rimasto della scrittura, delle parole e immagini che avevo fissato in questo lasso di tempo. A quel punto ho estratto le frasi che continuavano a risuonare, le ho fotografate, scontornate e riposizionate dove si trovavano in relazione ad una pagina A5 bianca. Come dite, ho seguito la linearità del diario e cronologicamente riassemblato la mia esperienza, ma al contempo ho ripreso i miei appunti visivi, che invece non seguono linearità e sono combinati rispetto ad associazioni con i frammenti scritti. La parola, anche se frammentata, la associo ad una consequenzialità di pensiero, che si accumula ma continua a svilupparsi abbastanza linearmente, con le immagini sono libera di instaurare relazioni temporali e ricreare, ragionando a ritroso, un senso diverso del tempo vissuto. In questo modo ho potuto ricreare un diario di bordo il più simile possibile all’esperienza che ancora ricordo.
SB+MZ: Porti avanti la tua ricerca attraverso un dottorato in cui l’archivio espanso è ripensato in chiave liberatoria, associativa e curatoriale. Quale ricerca stai conducendo? La fotografia è anche qui parte essenziale della costruzione del tuo pensiero?
LZ: Il progetto di dottorato si intitola “Shaping Time: Rethinking Archives Through Photographic Practice” ed esamina il ruolo della ricerca artistica negli archivi e le implicazioni che questi nuovi metodi hanno per il patrimonio culturale a livello curatoriale. In particolare, mi concentro su due casi di studio: uno attraverso la mia ricerca artistica nell’Archivio Edith Stein, un archivio “situato” nel convento carmelitano di Colonia, e l’altro in quanto artista-curatrice nella Etty Hillesum Huis, la casa natale di Hillesum, dove la ricerca interdisciplinare e la comunità mantengono la casa in dialogo e in movimento. Il lavoro combina ricerca artistica, fotografia, affect theory e new materialism, in linea con la natura interdisciplinare del mio gruppo di ricerca alla università Radound di Nimega. Come dice il titolo, la fotografia è un portante della ricerca ed è il mezzo principale attraverso il quale il lavoro può procedere. Il mio approccio sia nel lavoro artistico sia in quello accademico rimane lo stesso, grazie anche alla possibilità di fare ricerca artistica in università.
All’archivio Edith Stein la mia ricerca fotografica si è espressa in modo abbastanza diverso rispetto al progetto precedente, seppure simile nel metodo applicato. Mentre il progetto Hillesum è nato da una esigenza di dialogo con una figura che ha segnato gli anni della mia crescita, con Edith Stein c’è un interesse che si è sviluppato nella mia formazione interdisciplinare, sia per la sua storia incredibile e la sua continua ricerca filosofica, sia per la fascinazione per la fenomenologia come metodo di ricerca. Avendo elaborato un approccio intuitivamente fenomenologico rispetto al mio uso del mezzo fotografico ho voluto esplorare più a fondo la mia pratica in archivio facendomi guidare da Edith Stein stessa attraverso la sua tesi di dottorato sull’empatia. Ci sono tanti livelli che si sono sviluppati da questa intenzione iniziale ed elementi che non avevo preso in considerazione; ad esempio, Edith Stein è stata santificata e per questa ragione tutti gli oggetti da lei toccati sono considerati reliquie di secondo grado. Questa qualità dei manoscritti e dei suoi libri è sentita particolarmente all’interno del convento di Colonia, dove le sue consorelle si sono trasferite nel 1949. A maggior ragione questa dimensione tattile, che già prima mi suscitava grande interesse, in questo progetto si è manifestata più prepotentemente. Nel farmi guidare dal lavoro di Stein “Il problema dell’empatia” e dal suo metodo ho la possibilità di riflettere sul medium e sul pensiero fotografico ma anche sul luogo in cui mi trovo come archivio espanso, dove la differenza tra termini come “archivio” o “heritage” sfuma: l’archivio si trova all’interno del convento abitato dalle consorelle di Stein. Le suore trasmettono ancora una memoria immateriale di gesti e pratiche che ho riconosciuto in come Stein si relaziona al supporto cartaceo. Allo stesso modo la casa natale di Etty Hillesum è un luogo di patrimonio culturale e allo stesso tempo archivio di ricerca, memorie e azioni contemporanee legate ad Hillesum.
SB+MZ: Che cosa significa fare ricerca artistica in un ambito universitario? Quali sono le opportunità e le sfide che questo approccio offre al tuo lavoro?
LZ: Fare ricerca artistica nell’ambito di un dottorato è sicuramente una bella sfida, soprattutto se l’università cooperante non ha ancora avuto esperienza con questo tipo di ricerca. Al contempo credo sia fondamentale fare entrare la pratica artistica, e metodi sempre diversi che portano a nuove scoperte inaspettate, all’interno del dibattito accademico. Il bello di questo tipo di ricerca è la fusione che si crea tra il lavoro artistico e la tradizione accademica, da questa commistione nasce una nuova pratica e un nuovo modo di approcciarsi alla ricerca stessa. Questa consapevolezza però è difficile da tradurre in pratica fin dall’inizio. Venendo da una formazione pratica in arti multimediali e fotografia, è stato abbastanza complesso per me trovare un metodo più scientifico e ordinato di raccogliere dati, analizzarli ed elaborarli. Scrivere è stata la parte più complessa: se prima era per me una pratica del tutto personale e creativa, che veniva poi tradotta in immagine e installazione, nei primi due anni di dottorato mi sono dovuta confrontare col mettere in parola in modo formale e lineare un pensiero coerente e basato sulla letteratura esistente. È facile perdersi nelle regole date dal metodo ma poi pian piano è tornata l’esigenza di pensare al di fuori della struttura di un paper ed è lì, nel momento in cui queste conoscenze confluiscono nell’impulso creativo, che qualcosa di nuovo, una percezione o un modo diverso di approcciare il dibattito emerge. Anche prima di questi quattro anni la mia pratica artistica non poteva fare a meno della ricerca. Il progetto su Hillesum è stato un graduale avvicinamento e credo che il dialogo accademico e il dialogo con Stein abbiano affinato e completato il mio pensare attraverso il fare e viceversa. Ora questo è diventato qualcosa di unico, sempre in formazione e con (grandi) margini di miglioramento. Non li vedo più come due approcci distinti.
SB+MZ: In passato hai lavorato nello studio di Mario Cresci. Come ti ha cambiato questa esperienza?
LZ: Tra il 2015 e il 2016, durante l’ultimo anno di triennale a Venezia, andavo una volta a settimana a Bergamo in studio da Mario Cresci. Il suo lavoro mi affascinava per il suo potere associativo e il ragionamento sulle forme nell’immagine e al di là di essa, in un rapporto stretto e situato con luoghi e cose. La prima volta che sono entrata in contatto con Mario e col suo lavoro è stato a Bologna nel 2010 attraverso la mostra “Forse Fotografia” in pinacoteca. Nel 2015 stavo ancora sperimentando e cercando la mia relazione con la fotografia. Sicuramente l’esperienza da Mario, nell’iniziare a riordinare dia e negativi da Misurazioni e Racconti di Grafica, è stata una finestra su altri modi di vedere e relazionarsi coi materiali, un lavoro meditativo e al contempo entusiasmante nel comprendere più a fondo la riflessione che sta dietro al misurare e documentare, e ad una pratica sviluppata assieme agli abitanti dei luoghi e i loro legami affettivi con oggetti e territorio. Quindi questa esperienza, sia nella pratica sia semplicemente chiacchierando con Mario, ha influito molto sul mio modo di dialogare col materiale fotografico e riflettere sulla ricerca del mio linguaggio. Riparlandone ora mi rendo conto di quanto quell’approccio contestuale e relazionale, in cui l’immagine diventa un mezzo per esplorare e fare ricerca di forme e relazioni, mi guidi ancora.
SB+MZ: A cosa stai lavorando in questo periodo?
LZ: In questo periodo sto scrivendo molto, completando il manoscritto del dottorato e preparando la mostra finale che verrà presentata a maggio 2025 in occasione del Photoszene Festival a Colonia. Il lavoro su Edith Stein sarà presentato all’interno del convento e dell’archivio stesso. Sarà una restituzione più performativa, nella quale sto cercando di fare entrare il visitatore in una esperienza di ricerca all’interno dei materiali che ho analizzato, cercando di stimolare un senso di connessione intra-attiva nella loro materialità. Al contempo sto organizzando una serie di eventi e dibattiti che interagiscano con il convento nel suo essere archivio espanso e che permettano una riflessione sui metodi di ricerca artistica archivistica e sulle pratiche curatoriali in luoghi di memoria considerati “heritage places”.
Cover: Lucrezia Zanardi, On the Problem of Empathy (2020 – ongoing)