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Le atmosfere malinconiche di Diego Marcon | Intervista con l’artista

Piccolo e raccolto, quasi intimo. Il Teatro Gerolamo a Milano – ‘una piccola Scala in miniatura’ – ci avvolge con i suoi due ordini di palchi, un loggione e una piccola platea. Inevitabile sentirsi bambini, ritornare all’infanzia solo attraversando scale e i piccoli spazi di questa teatro mignon. In questo luogo che senza esagerazioni potremmo […]

Diego Marcon Ludwig, 2018 [still] Video, CGI animation, color, sound loop of 8’14’’ Credit: © Diego Marcon Courtesy Sadie Coles HQ, London
Diego Marcon Ludwig, 2018 [still] Video, CGI animation, color, sound loop of 8’14’’ Credit: © Diego Marcon Courtesy Sadie Coles HQ, London
Diego Marcon Ludwig, 2018 [still] Video, CGI animation, color, sound loop of 8’14’’ Credit: © Diego Marcon Courtesy Sadie Coles HQ, London

Piccolo e raccolto, quasi intimo. Il Teatro Gerolamo a Milano – ‘una piccola Scala in miniatura’ – ci avvolge con i suoi due ordini di palchi, un loggione e una piccola platea. Inevitabile sentirsi bambini, ritornare all’infanzia solo attraversando scale e i piccoli spazi di questa teatro mignon. In questo luogo che senza esagerazioni potremmo definire incantato, la Fondazione Trussardi presenta la mostra di Diego Marcon (Busto Arsizio, 1985), Dramoletti – a cura di Massimiliano Gioni – festeggiando con questo appuntamento il ventesimo anno di attività ‘nomade’.
Dalla prima mostra del 2003 nella Galleria Vittorio Emanuele, con l’installazione di Short Cut (2003) di Elmgreen and Dragset, passando per la Piazza XXIV Maggio con gli impiccati di Cattelan, all’Istituto dei Ciechi con le grandi installazioni di Urs Fischer, con le poetiche e, al tempo stesso, umoristiche, opere di Peter Fischli e David Weiss a Palazzo Litta; le atmosfere straniante di Pipilotti Rist al Cinema Manzoni, l’autoritratto ingigantito (e gonfiabile) di Pawel Althamer al Parco Sempione, L’isola dei porci di Paul McCarthy,il surreale campo di grano di Agnes Denes in Porta Nuova… Ogni progetto – delle mezze follie – è il frutto della mente geniale di Massimiliano Gioni e della lungimiranza di Beatrice Trussardi che hanno saputo scegliere, anno dopo anno, gli artisti giusti non solo per portare a Milano dei grandi progetti di arte contemporanea, ma anche di farci vedere luoghi della città con una diversa prospettiva. Basti citare l’installazione di Ibrahim Mahama ai Caselli Daziari di Porta Venezia o le atmosfere create da Tino Sehgal a Villa Reale – Galleria d’Arte Moderna. 

Fino al 30 giugno 2023, la Fondazione Trussardi presenta Dramoletti, la prima mostra istituzionale antologica in Italia di Diego Marcon, che raccoglie una serie di opere, dalla suggestiva e coinvolgente Ludwig, 2018, installata nella piccola platea del Teatro, al video The Parents’ Room (2021), presentato all’ultima Biennale di Venezia Il latte dei sogni. 

Abbiamo fatto alcune domande a Diego Marcon

Elena Bordignon: Partiamo dal titolo, Dramoletti. Citi i componimenti di Thomas Bernard. Mi dici come hai scoperto questi componimenti? Con ti ha colpito quando li hai letti?

Diego Marcon: Non è un riferimento letterale; Thomas Bernhard è uno dei miei autori preferiti, che in maniera più o meno consapevole, o anche solo di riflesso, condizionano e informano il mio lavoro. È tra gli autori che ho letto di più e che sento più affini per il suo utilizzo del linguaggio, per l’utilizzo di una certa autoironia unita ad aspetti più cupi e sinistri. Quando abbiamo iniziato a lavorare alla mostra ho pensato “siamo in un teatro, sono film molto brevi, sono drammi ma hanno aspetti scherzosi”. Per questo mi è venuto subito in mente Dramoletti. Ma si tratta solo di un’ispirazione, dato che in realtà sono testi saggistici con cui Bernhard esprime il suo disprezzo verso il teatro austriaco e verso l’Austria in generale. Non è come gli altri drammi teatrali o gli scritti di carattere più narrativo.

Diego Marcon Untitled (Head falling) (02), 2015 16mm film, colour, silent; fabric ink, permanent ink, and scratches on 16mm clear film leader loop of 10’’ each Courtesy the Artist and Sadie Coles HQ, London
Diego Marcon Untitled (Head falling) (01), 2015 16mm film, colour, silent; fabric ink, permanent ink, and scratches on 16mm clear film leader loop of 10’’ each Courtesy the Artist and Sadie Coles HQ, London

EB: Ti sei imbattuto nel suo libro in maniera casuale?

DM: Si è stato folgorante. È uno di quegli incontri in cui sembra di trovare un amico, per la consonanza nel modo di pensare. Altri autori che sono importanti per me e che possono essere citati in relazione a questi lavori sono sicuramente Collodi e De Amicis. Sono particolarmente affezionato a Pinocchio e a Cuore.

EB: Un bambino ammalato, ma che forse sta solo dormendo (Il malatino (The Little Sick Boy), 2017), la scena inquietante di una famiglia in una camera da letto (The Parents’ Room, 2021), ma penso anche a Ludwig (2018). I tuoi personaggi, quasi sempre bambini, sembrano avvolti da un buio esistenziale. Perchè scegli dei bambini come soggetti per i tuoi video?

DM: Il tema dell’infanzia è un argomento molto complesso: il motivo per cui ne sono attirato è il fatto che il bambino è una figura che permette l’instaurarsi immediato di un’estrema empatia tra opera e spettatore. Il bambino è una sorta di trigger, che mi permette di raggiungere lo spettatore in una certa maniera, se vogliamo anche un po’ maligna e sinistra. È un cavallo di Troia che consente di sfondare una barriera, per introdurre altri temi. Lo spettatore è indotto a sviluppare un senso di cura e apprensione nei confronti del bambino, dunque se il lavoro tocca altri aspetti lo può fare in una dimensione più “scoperta”.

EB: Nella presentazione della mostra si allude ai tuoi personaggi come a dei replicanti, delle marionette o degli avatar. Quanto ti interessa il mondo digitale della simulazione?

DM: Diciamo che a me interessa la componente più strutturale del lavoro. Tutti i lavori come The parent’s room sono estremamente strutturati prima delle riprese, c’è tanto lavoro di preproduzione. Chiaramente il 3D permette una cura puntigliosa di ogni dettaglio. Però si tratta di aspetti speculativi, che inevitabilmente il lavoro porta con sé, ma per me l’approccio è innanzitutto formale e strutturale. Effettivamente comunque in alcuni lavori come Ludwig impiego il 3D, ma quasi tutte le scelte sono formali; poi hanno chiaramente un rimando speculativo e concettuale, ma questo perché forma e contenuto sono la stessa cosa. In generale non mi riconosco in artisti che lavorano con il digitale e la simulazione. 

Diego Marcon The Parents’ Room, 2021 35mm film transferred to digital, CGI animation, colour, sound, loop of 6’23’’ Courtesy the Artist and Fondazione Donnaregina per contemporanee, Naples Supported by Italian Council (2019)

EB: Quanto c’è di te di autobiografico? Mi ricordo i tuoi primi lavori molto intimisti, tendenti allo scavo interiore.

DM: C’è stato sicuramente un percorso che posso dire grammatico e lineare. I primi lavori avevano un approccio documentario, che di fatto era il più semplice a livello di produzione. C’è ovviamente uno scarto rispetto agli ultimi lavori da questo punto di vista. Esplorare il reale all’inizioè stata la cosa più semplice da fare. I lavori poi sono andati mano a mano verso l’astrazione. Penso a She Loves You, o salut! hallo! hello! (2010); ma anche a Litania (2011), per la progressiva dissolvenza al nero. Dal 2015 con le “teste” [la serie Untitled (Head Falling)], dopo il buio che era Litania, è entrata la fiction; sia dal punto di vista della progettazione dell’immagine, sia per gli aspetti più “staged”. A quel punto il lavoro si è aperto al fantasmagorico e all’immaginario. A posteriori mi pare un percorso lineare. Di biografico c’è il fatto che li ho fatti io, sono temi che mi interessano; nessuno si riferisce nello specifico alla mia vita. C’è più che altro un sapore comune a tutti i lavori, la malinconia. Secondo me vivere in quanto tale è un’esperienza molto dolorosa. 

EB: Quando partecipasti alla nostra rubrica I never explain, ti soffermasti in modo molto accurato sulla descrizione di come avevi realizzato tecnicamente Il malatino, sottolineandone la dimensione artigianale.

DM: Sì, quel lavoro è fatto come un cartone animato tradizionale, disegnato a singoli fotogrammi poi scattati. Diciamo che parlare dell’aspetto della realizzazione strutturale è ciò che mi interessa sempre di più, rispetto alla componente più speculativa e teorica, che è importante ma voglio che rimanga più alla fruizione dello spettatore. Non ha senso soffermarsi a racconta i contenuti di un’opera, ognuno è libero di capire ciò che crede.

EB: Cosa stai leggendo adesso?

DM: Massimiliano Gioni mi ha regalato Tirar mattina di Umberto Simonetta, perché dice che i suoi titoli gli ricordano molto i miei lavori. Lo inizierò domani. Leggo anche poesie, e mi piacciono soprattutto le filastrocche per bambini: la poesia in rima baciata, la metrica molto scandita in endecasillabi. Da questo punto di vista i miei autori preferiti sono Tognolini e Rodari (che è anche delle mie parti).  

Qual è il lavoro che senti più tuo?

Quello che sarà presentato al Pecci. I protagonisti sono una famiglia di talpe.


(Ha collaborato Federico Abate)

Diego Marcon The Parents’ Room, 2021 35mm film transferred to digital, CGI animation, colour, sound, loop of 6’23’’ Courtesy the Artist and Fondazione Donnaregina per contemporanee, Naples Supported by Italian Council (2019)
Diego Marcon Il Malatino, 2017 [still] 16 mm film, colour, silent dur: 23 min, looped Credit: © Diego Marcon Courtesy Sadie Coles HQ, London
Diego Marcon Il Malatino, 2017 [still] 16 mm film, colour, silent dur: 23 min, looped Credit: © Diego Marcon, courtesy Sadie Coles HQ, London