ATP DIARY

Intervista con Lidia Sanvito ☛ MA*GA Gallarate

Sono visibili fino all’8 giugno 2014 – nella Project Room del   Museo MA*GA di Gallarate – le  le opere di Francesco Bertocco e Lidia  Sanvito. Abbiamo pubblicato una breve intervista a Bertocco ?, ora è il turno di Lidia Sanvito introdurci il...

Lidia Sanvito,   Psicoggetti,   2014 -  MA*GA,   Gallarate - Installation view
Lidia Sanvito, Psicoggetti, 2014 – MA*GA, Gallarate – Installation view

Sono visibili fino all’8 giugno 2014 – nella Project Room del   Museo MA*GA di Gallarate – le  le opere di Francesco Bertocco e Lidia  Sanvito. Abbiamo pubblicato una breve intervista a Bertocco ?, ora è il turno di Lidia Sanvito introdurci il suo progetto ‘Psicoggetti’.

ATPdiary: Leggo nella bio che Lidia Sanvito ha una formazione da storica dell’arte. Facendo riferimento alle opere del passato, più volte ci parli di “fantasmi”, potresti spiegarci in quali termini ed esporre sinteticamente in cosa consiste la tua ricerca?

Lidia Sanvito: Studiare la Storia dell’Arte per professione è un po’ come intrattenersi tutto il tempo con il pensiero e le vite degli altri. Ogni caso pone delle domande, ma non sempre le risposte arrivano facili e alcune arrivano addirittura dopo anni. “I fantasmi dalle risposte lunghe” sono stati i miei fantasmi più insistenti: alcuni tornavano a visitarmi come un fastidio, altri come un affetto. Le mie opere nascono in un dialogo con questi fantasmi, di vivi e di morti. Ora, se definisco il fantasma come ciò che appare e non è o come ciò che è e non appare ritrovo perfettamente la descrizione del mio fare artistico. Tutti i miei lavori oscillano su questa ambivalenza, sulla messa a fuoco della forma come assenza di una presenza oggettivabile.

ATP: Il tuo lavoro si formalizza principalmente in ambito scultoreo assieme alla sua corrispettiva definizione teorica, linguistica e spaziale. Quale è stata la genesi di Psicoggetti, progetto site-specific, presso la projectroom del MA*GA di Gallarate?

L.S.: Gli Psicoggetti mi sono venuti in mente leggendo il titolo di un testo di Harold Rosenberg, “L’oggetto ansioso”, del 1964.  Una volta formalizzati, li ho mostrati ad Alessandro Castiglioni che subito mi ha posto la questione di come esporli: le sue esigenze curatoriali e di pensatore lo  spingevano a considerare una modalità espositiva più articolata, che eludesse la semplice e nuda messa in posa delle sculture. Ho pensato, quindi, al corredo visivo della proiezione video (una panoramica fissa di natura esclusivamente elencativa) e al contenitore ribassato per occultare parzialmente la visione dei pezzi in esso contenuti.

ATP: L’arte edifica, più di recente – e oramai nemmeno tanto -, manipola e defunzionalizza manufatti. Gli oggetti realizzati dall’uomo, un tempo utensili e protesi, oggi pare sollecitino sterili necessità. Ci puoi spiegare cosa sono i tuoi psico-oggetti?

L.S.: L’idea era di creare un nuovo tipo di oggetto che fosse maneggevole come un utensile, ma la cui funzionalità fosse legittimata soltanto dal moto psichico di chi lo aziona usandolo, appunto, come un oggetto psichico. Lo Psicoggetto, quindi, esiste solo in quanto oggetto della psiche: non serve a realizzare un’azione o una forma del “bello”, bensì una forma dell’essere.

ATP: La tua opera si configurain due parti -quattro sculture fitomorfe in terracotta dipinta disposte all’interno di una teca ribassata e un video: un montaggio di slide, una riproposizione in primo piano dei manufatti-. In questo modo è come se richiedessi allo spettatore un determinato tempo di fruizione. Puoi raccontarci la relazione spazio-temporale che hai voluto innescare e in quale senso si può parlare didispercezione”dell’immagine?

L.S.:  Fra la stanza e la base-contenitore e fra la base-contenitore e il suo contenuto intercorre una triplice relazione. La stanza è lo spazio aperto della scultura, il luogo della possibilità visiva massima dei trecentosessanta gradi. La scultura è persino collocata, secondo tradizione, al centro, avallando così la possibilità di questa relazione. Ciò nonostante, la base-contenitore in parte la nega con il suo piano incassato: l’apertura è ristretta, la visione è data con un punto di vista obbligato, dall’alto. In questo modo la scultura “si schiaccia” e perde, paradossalmente, spessore. La base-contenitore riduce quindi la visione oggettiva del suo contenuto e al contempo ne accresce l’ambiguità di lettura attraverso il semi-occultamento, spaziale e luminoso (la luce che arriva sul ripiano espositivo, infatti, è per lo più quella del video, fievole e intermittente). L’immagine viene così percepita parzialmente o mal percepita e fraintesa (cosa che io chiamo “dispercezione”), azionando un processo di partecipazione immaginifica in chi guarda e aprendo uno spazio ulteriore, questa volta infinito.

Intervista di Rita Valente

Lidia Sanvito,   Psicoggetti,   2014 -  MA*GA,   Gallarate
Lidia Sanvito, Psicoggetti, 2014 – MA*GA, Gallarate
Lidia Sanvito,   Psicoggetti,   2014 -  MA*GA,    Gallarate
Lidia Sanvito, Psicoggetti, 2014 – MA*GA, Gallarate