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Yuri Ancarani | Le Radici della Violenza | Castello di Rivoli

Testo di Daniele Licata — Per il Castello di Rivoli – il primo museo d’arte contemporanea nella storia d’Italia, ricavato nelle sfarzose sale di una residenza sabauda – la stagione espositiva 2018/2019 si è distinta per le scelte coraggiose e...

Yuri Ancarani, San Siro, 2014 – DCP, color, sound 5.1 26 min. Courtesy the artist, Isabella Bortolozzi Galerie, Berlin, Zero…, Milano

Testo di Daniele Licata —

Per il Castello di Rivoli – il primo museo d’arte contemporanea nella storia d’Italia, ricavato nelle sfarzose sale di una residenza sabauda – la stagione espositiva 2018/2019 si è distinta per le scelte coraggiose e soprattutto celebrative verso la videoart. Il futuro distopico e chiassoso di Hito Steyerl, la delirante India postglobal di Nalini Malani, Anri Sala e la dolcezza del suono: un calendario fitto ed eccellente, che a sorpresa si conclude con un artista italiano, Yuri Ancarani (Ravenna, 1972).
Le radici della violenza, a cura di Marcella Beccaria, presenta in anteprima la nuova trilogia dell’artista, volta a scandagliare le strategie e i meccanismi sotterranei di controllo sociale. San Siro (2014), San Vittore (2018) e San Giorgio (2019, versione o girato originario) sono figure emblematiche dalla tradizione cristiana ma soprattutto identificative di tre architetture iconiche nel paesaggio sociale italiano: stadio, carcere e banca. Ancarani le racconta con il consueto rigore (la macchina da presa fredda e implacabile, montaggio serrato, il suono che irrompe esplosivo), soffermandosi su procedure gestionali, strutturali e d’accesso. Il percorso di mostra, benché succinto, è pensato proprio per consentire allo spettatore un’intensa riflessione sulle dinamiche societarie, e complice la scelta audace di esporre San Giorgio nella sua versione provvisoria – priva di montaggio e colonna sonora definitivi – vengono lasciati ampi margini di interpretazione personale. ATPdiary ha incontrato l’artista, per discutere il progetto negli aspetti formali e concettuali.        

Daniele Licata: La trilogia è un espediente narrativo tipicamente cinematografico, volto ad approfondire, sviscerare, dilatare ciò che sedimenta nei contenuti e nell’animo dei protagonisti. Cosa ti conduce a servirtene in maniera ricorrente?

Yuri Ancarani: Il mio lavoro si sviluppa in diversi modi, sempre sul confine tra arti visive e cinema. In tali campi d’interesse, il tempo è un fattore fondamentale e sempre percepito in maniera differente: dieci minuti in sala costituiscono un momento breve, effimero, mentre nell’arte sono perfetti per dire qualcosa, sintetizzare un concetto per lo spettatore. Nel sistema cinematotografico tutto è veloce: un’opera prima è abituta a ‘viaggiare’ tantissimo: festival, internet, streaming, supera ogni confine. Ma se il film viene presentato all’interno di una mostra, mi piace che i lavori dialoghino tra loro, creando cortocircuiti nella testa dello spettatore: in quel caso il film diventa un’altra cosa, un’opera d’arte con tantissime chiavi di lettura. In base al background culturale del soggetto ricevente si predispongono tanti livelli, ogni significato cambia.
Il tema della trilogia, a mio avviso, si può declinare in termini di serie (topic al quale oggi siamo peraltro abituati), intesa come percorso analogo alla carriera dell’artista: se analizziamo i miei lavori, dai primi sino all’ultimo, noteremmo che non si parla tanto di trilogie, bensì di un grande polittico. La personale alla Kunsthalle di Basilea dell’anno scorso era proprio questo, un percorso che si snodava dal primo all’ultimo film: per la prima volta, anche se i lavori venivano fruiti singolarmente, complici le interferenze tra le frequenze audio e il rapporto con lo spazio, ogni elemento finalmente assumeva un significato diverso. È stata una delle mostre più vistate a Basilea nel 2018, ne sono molto felice. Ma per tornare alla riflessione sulla temporalità di cui parlavamo prima, ecco, mi pesa molto perdere tempo: ecco perché non seguo le serie in voga oggi.

Yuri Ancarani, San Giorgio, 2019 (shooting reel edit) video loop, silent Courtesy the artist
Yuri Ancarani, San Siro, 2014 – DCP, color, sound 5.1 26 min. Courtesy the artist, Isabella Bortolozzi Galerie, Berlin, Zero…, Milano

DL: In Le radici della violenza, la tua personale al Castello di Rivoli, San Vittore è una tappa nodale nel percorso: realizzata con la collaborazione di Bambinisenzasbarre, è un’altra potente prova delle tue doti narrative, e della tua ricerca incentrata sul disvelamento dei meccanismi sociali. Anche in questo caso assistiamo a un racconto lucidissimo, quello dei controlli e degli ingranaggi che consentono il contatto tra soggetti imprigionati e i loro figli, configurati al di là delle sbarre. Cosa ci racconti di questa esperienza? E da dove nasce l’insinuarsi della pratica del disegno infantile, unica maniera che ha il bambino di trasfigurare il dramma del vissuto carcerario?

YA: Mentre terminavo la realizzazione di San Siro, ho pensato quasi per gioco che subito dopo avrei voluto raccontare San Vittore. A San Siro non avevo ottenuto i permessi per entrare ed avere un rapporto diretto con gli ultrà, dunque mi sono focalizzato sul backstage. In maniera diversa mi è successo anche a San Vittore: ho partecipato agli incontri, ho assistito a tutto, alle pratiche (obbligatorie) di perquisizione. Per quanto tu possa trovare la maniera il più possibile delicata, il bambino avverte tutto ciò come naturalmente pericoloso. Ho pertanto deciso di rimanere al di fuori dalla struttura, e di rappresentare il carcere attraverso i disegni dei bambini: loro son lì dentro veramente, e affidare loro la descrizione e la scoperta del luogo evita la spettacolarizzazione e la strumentalizzazione dell’ente, che oggi nei media è diventato un autentico teatro. Molti personaggi dello spettacolo adoperano il carcere come palco, dimenticando il carattere di detenzione: ho dunque scelto di gestire la questione con delicatezza e soprattutto con Bambinisenzasbarre, associazione autrice e promotrice di progetti di sostegno. La cosa incredibile, visibile nel film, è il cortocircuito, è che San Vittore ha davvero la forma strutturale di un castello e il bimbo lo vede come tale. Malgrado il papà abbia commesso dei reati rimane un personaggio importante, mitologico, il castello è un incubo dal quale egli non può uscire, fattore che manda il bambino letteralmente in tilt. Tra l’altro, prima dell’intervento di Bambinisenzasbarre, se un detenuto era ritenuto pericoloso o da tenere in stato di sorveglianza intensiva, la stessa pratica veniva imposta ai famigliari, e con l’associazione questa cosa si è smussata. Penso che l’opera contemporanea debba avere carattere di utilità: c’è stato un tempo in cui forse l’arte ci parlava di bellezza, ma nel 2019, a mio avviso, la bellezza imbarazza, spaventa. Credo ci si debba interrogare su cos’è un’opera d’arte, e io credo che l’opera debba avere un’utilità – sociale, appunto.

DL: San Siro, del 2014, è un altro affresco potente. Lo stadio, in Italia, è luogo di ritrovo, di incontro, ma anche di sfogo di pulsioni – quelle più recondite e sotterranee che si agitano nel corpo del tifoso. Amo particolarmente quest’opera, scissa tra l’analitica descrizione degli elementi costruttivi e partecipativi e il mirino puntato sullo sciame di tifosi, che con sorprendente ordine e rigore si dirigono verso un luogo mai svelato nella sua interezza, ma nel quale intuiamo che una pratica quasi rituale sta per compiersi. Cronache recenti – e non solo – ci hanno raccontato dello stadio come sfondo di gravi episodi razzisti, e in generale anche il sistema calcistico si è più volte imposto come modello poco virtuoso. Come ti poni in questo contesto?  

YA: San Siro è un’opera esposta non per caso in una mostra intitolata Le radici della violenza, la risposta è  questa. Disvela un’assurdità fondamentale, il controllo sociale che oggi si basa sulla pena e sull’intrattenimento. Penso sia esattamente questa la risposta. Ci comportiamo male in quanto abbiamo avuto cattivi maestri, che ne hanno avuti a loro volta ricevendo una cattiva educazione, derivata da una società che impone regole potenzialmente sbagliate e capaci di delineare una catena senza fine. Ho capito molto dell’emozione che prova un tifoso, delle vertigini che ha un ultrà nello stadio, i compagni, la condivisione delle medesime passioni, il credere in qualcosa…io l’ho capito. Ho però anche visto uomini adulti urlare, bestemmiare di fronte ai figli…ho assistito a moltissima rabbia. Stadio, carcere e banca sono dunque tre edifici fortemente simbolici, secondo me.

Yuri Ancarani, San Siro, 2014 DCP, colore, suono 5.1 : DCP, color, sound 5.1 26 min. Courtesy l’artista : the artist, Isabella Bortolozzi Galerie, Berlin, Zero…, Milano

DL: Di San Giorgio, la sera dell’opening, mi ha colpito non solo la coraggiosa scelta della presentazione di un’opera non finita, ma soprattutto l’assenza del suono! Cosa dobbiamo aspettarci? E soprattutto, nella presentazione di un’analisi dissezionata ma anche distruttiva, cosa volevi raccontarci?

YA: si tratta di un lavoro presentato in progress ma semplicissimo, che contiene già tutte le informazioni necessarie. Un’opera asciuttissima, il percorso di distruzione dei documenti sensibili che si tramutano in coriandoli, la ricerca di un’immagine che rasenta la perfezione. Succederanno cose interessanti in quel film, ma adesso deve essere così.

DL: Quando nel 2015 ti intervistò per Flash Art, Maurizio Cattelan esordì con le seguenti parole: “Una cosa che trovo interessante nel tuo lavoro è che non hai bisogno di sfruttare un’idea di arte contemporanea e nemmeno di “fare cinema”: produci delle opere che sembrano strane sculture abitabili…”. A quattro anni di distanza, cosa pensi di questa definizione?

YA: Beh, come si intitolava la mia personale alla Kunsthalle di Basilea? Sculture, appunto. Come possiamo pensare che le immagini che produciamo e di cui fruiamo oggi possano non essere tridimensionali? Quanto tempo passiamo di fronte agli smartphone? I ragazzi ne sono letteralmente risucchiati! Non possiamo pensare si tratti di bidimensionalità, tanto è alto il gradiente di assorbimento. I miei soggetti – che siano edifici come lo stadio, il carcere o la banca, o che sia Il capo (Ancarani si riferisce all’omonima opera del 2010, incentrata sulla carismatica figura del capocantiere Franco Barattini, che orchestra con gesti vigorosi i processi di estrazione del marmo nelle cave di Carrara, ndr) sono delle sculture, anche di carne: il “capo” è una figura incredibile, la sua bellezza è a dir poco statuaria. In San Vittore i disegni dei bambini diventano possenti architetture, sono castelli, mentre i lingotti di San Giorgio sono fatti di oro vibrante. Un materiale luminoso e vivo, oserei dire magico. Madonna, ma che intervista stiam facendo? È proprio vero che un artista lavora con pancia, cuore, inconscio. Il mio percorso comincia con un personaggio simbolico, che conduce un lavoro pericoloso, a petto nudo, il crocifisso sul petto. Dove siamo arrivati oggi? In tre edifici, non di marmo bensì di cemento: carcere, stadio, banca. Nel mezzo un’altra trilogia, quella del ferro. Ci sto pensando solo ora, ma in effetti il mio percorso è segnato dalle peculiarità dei materiali. È proprio così, un artista non pensa né spiega quello che fa, ci vuole sempre un critico: scrivilo, questo!

DL: C’è un’ultima cosa che avresti piacere di dire riguardo a Le radici della violenza, la tua personale in mostra al Castello di Rivoli fino al 10 Novembre?

YA: Sì, le tre sale sono stupende.

Yuri Ancarani
Le radici della violenza
A cura di Marcella Beccaria
Castello di Rivoli Museo di Arte Contemporanea
Fino al 10 novembre 2019
www.castellodirivoli.org

Yuri Ancarani, San Vittore, 2018 HDCAM, color, sound 5.1 12 min. Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino with the contribution of Italian Council, 2017