“Mentre noi siamo qui”, il mondo è spaccato da conflitti, geopolitici e sociali, in rapido deterioramento. Questo l’assunto dell’edizione 2024 del Santarcangelo Festival, il consueto appuntamento con le arti teatrali e performative che ogni anno ha luogo nella cittadina di Santarcangelo di Romagna. Il programma ruota sempre attorno ad un filo conduttore generale che detta la postura artistica quanto politica della selezione, curata per la terza edizione consecutiva da Tomasz Kireńczuk. Dopo i due mantra delle precedenti edizioni – rispettivamente una domanda che invitava ad ascoltarsi e a farsi ascoltare, Can you feel your own voice?, e l’urlo di rivalsa Enough not enough – quello di quest’anno è un invito a riflettere sul proprio ruolo nel grande schema delle cose. While we are here suona come una presa di responsabilità, sulla scena e nel quotidiano, che richiede una risposta attiva, sul piano simbolico quanto su quello pragmatico: raccogliersi e lasciare che i corpi si esprimano per trovare forme eque di coesistenza nel mondo. “Al centro del nostro interesse c’è la ritualità dell’incontro, del coesistere nello stesso spazio e nello stesso tempo – scrive Kireńczuk – una ritualità ampia che abbraccia prospettive culturali molto diverse. Riti funebri, rave, pratiche decoloniali, in ognuna di queste prassi compaiono corpi che, nell’atto performativo, creano uno spazio comune. […] Siamo convinte e convinti che questo essere insieme, che sfugge alla logica della vita quotidiana, abbia un enorme potenziale. Vogliamo chiederci cosa ci succede, mentre siamo qui”. I corpi si creano uno spazio sicuro in cui esprimersi, unici, in comunità. Ed è Piazza Ganganelli, il fulcro sociale di Santarcangelo di Romagna, a offrirsi come primario spazio di relazione tra pubblico e artist*. Qui si ambienta HIT out di Parini Secondo, una composizione musicale per quattro performer in cui il salto della corda è impiegato come strumento coreografico e percussivo, traducendo in azione performativa una pratica di allenamento, che è anche atto di resistenza nei confronti delle forze esterne che comprimono e schiacciano a terra. E qui si sviluppa anche la corsa circolare di Francisco Thiago Cavalcanti, che in 52blue impersona una balena la quale si ritrova isolata dai suoi simili per il suo canto ad alta frequenza che la rende inavvicinabile, e che pertanto rimane inascoltato. Su un telo scuro, mosso a richiamare le onde, Cavalcanti invita a riflettere sui motivi che possono spingere gli esseri umani ad allontanarsi gli uni dagli altri.
Per altri lavori che si collocano nella sfera della danza sono comunque centrali pratiche di condivisione di un’esperienza che non è solo musicale, come la realtà dei rave, nei casi di GIMME ME A BREAK!!! di Baptiste Cazaux, che si sviluppa a partire dalla pratica dell’headbanging, e di While we are here di Lisa Vereertbrugghen / CAMPO, una performance techno-folk il cui titolo ha ispirato il claim del festival. Rispetto a queste pratiche di ispirazione o di esecuzione comunitaria, risalta per contrasto la performance one-to-one Nurture, in cui Samuli Laine accompagna l* partecipante in un lento rituale di cura che invita a riporre fiducia in lui e a lasciarsi andare, fino ad acconsentire ad un atto di allattamento artificiale. Piazza Garganelli si presta anche a farsi punto di partenza della performance collettiva sotto forma di corteo dal titolo HANDS UP, in cui il pubblico è guidato da Agnietė Lisičkinaitė per le vie della città mentre alza dei cartelli su cui campeggiano i più vari messaggi di protesta. Giunti al Palazzo della Poesia, sul corpo danzante della performer-attivista è proiettato un video girato pochi istanti prima che mostra il pubblico stesso durante il corteo, annullando ogni divario tra arte e vita nella lotta. E il Santarcangelo Festival di nuovo si conferma oscillare, come abbiamo già proposto nel nostro racconto in due parti della scorsa edizione, tra i due poli dell’essere comunità e del mostrarsi come corpi in rivolta. Rébecca Chaillon presenta due performance accomunate, come è sua consuetudine, dall’impiego politico ed espressivo della pelle nuda del proprio corpo nero e non conforme. Lo scorso anno con Whitewashing lo aveva usato per pulire il pavimento, sbiancandolo così con la candeggina, per denunciare la subdola violenza sistemica volta a rendere invisibili le persone di colore; quest’anno La gouineraie, condotto in coppia con Sandra Calderan, racconta con struggente leggerezza l’utopia di una comunità lesbica rurale in cui aspirare a decostruire il modello ormai anacronistico di famiglia patriarcale. Nella casa/famiglia in costruzione, Sandra e Rébecca (quest’ultima con il corpo adornato da strisce di carta da parati floreale) si alternano in un profondo ritratto della complessità e della ricchezza che possono assumere i legami interpersonali, che ha tutta la forza dell’esperienza autobiografica. In The cake, a tutti gli effetti un pezzo di endurance art, Chaillon ingerisce in sequenza gli ingredienti necessari a cucinare una torta, nelle quantità congrue a una ricetta di riferimento, trasformandosi idealmente nella torta stessa, per poi invitare il pubblico a “cibarsi” di lei.
Nel lavoro in due parti di Davi Pontes e Wallace Ferreira, Repertòrio n. 2 e Repertòrio n. 3, i corpi nudi danzanti sono impiegati come strumento di autodifesa intersezionale rispetto alle oppressioni sistemiche, in una coreografia ispirata alla capoeira che si pone sulla stessa linea espressiva di Batty Bwoy di Harald Beharie, andata in scena a Santarcangelo lo scorso anno: in entrambi i lavori, infatti, i corpi nudi dell* performer si fanno strumento sovversivo di rivendicazione di uno spazio di lotta e privano il pubblico della sua zona di comfort. Nel corso della sequenza di movimenti perfettamente sincronizzati ad un ritmo incalzante, Pontes e Ferreira arrivano ad appropriarsi, costringendo gli occupanti a spostarsi, delle piattaforme adibite a sedute poste all’interno di quella che si penserebbe essere la zona delimitata della rappresentazione, quando invece essa si estende fino alle ultime file delle tribune. Il pubblico non può dunque ritenersi “al sicuro”. Una simile sensazione di “eccesso di prossimità” rispetto a ciò che avviene in scena si prova di fronte a Rectum Crocodile di Marvin M’toumo, una fiaba macabra postcoloniale che ha per protagoniste le schiave di una piantagione e alcuni animali impersonati in scena con abiti curatissimi. Terribili storie di soprusi coloniali si susseguono dinamicamente quadro dopo quadro e il pubblico, prevalentemente bianco, è direttamente tirato in causa come corresponsabile di ciò che accade. La narrazione angelicata e maliziosa di un bambino contrasta nettamente con i monologhi colmi di astio delle interpreti in scena, ma in entrambi i casi la lingua francese, simbolo dell’oppressione coloniale, viene rivendicata come strumento espressivo che si tinge vicendevolmente delle più giocose o crude allitterazioni, di jeux de mots e di calembour aspri e articolatissimi, che verbalizzano i traumi penetrati in profondità nelle popolazioni un tempo sottomesse. A questi lavori che, in modi diversi, hanno la loro forza scenica nella destabilizzante presenza fisica dei corpi, ne corrispondono altri che invece tendono alla smaterializzazione. In The Last Lamentation di Valentina Medda, dodici donne vestite a lutto camminano con estrema lentezza sul letto prosciugato del fiume Marecchia, accompagnate da una litania ipnotica, mentre il pubblico assiste da molti metri di distanza; quella che l’artista definisce un’“elegia funebre per il Mediterraneo” qui si tinge anche di un riferimento ai temi della siccità e delle migrazioni a cui le popolazioni sono costrette a causa dell’emergenza climatica. Ma sono eteree e crepuscolari anche le sagome che appaiono e scompaiono nella coltre d’ombra trasfigurante il palcoscenico del Teatro Galli di Rimini, in Rive di Dalila Belaza: qui la sequenza tradizionale in tre step del pas de bourrée rappresenta l’innesco da cui si sprigiona un ritmo martellante, energia che intride i corpi all’unisono in un caos controllato di vita brulicante, in qualche modo un nuovo inizio che nella notte primordiale è foriero di futuro.