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Welcome to Bergamo #2 episode

Nella mattinata di giovedì 3 aprile, si è svolto in un’aula dell’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo uno studio visit suddiviso in due parti: l’auto-presentazione di quattro artisti in venti minuti -reali e cronometrati- e un momento per domande e confronto diretto con gli stessi. Ci ha introdotti a tale incontro Paola Tognon, […]

Nella mattinata di giovedì 3 aprile, si è svolto in un’aula dell’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo uno studio visit suddiviso in due parti: l’auto-presentazione di quattro artisti in venti minuti -reali e cronometrati- e un momento per domande e confronto diretto con gli stessi.

Ci ha introdotti a tale incontro Paola Tognon, che insieme a Elisa Bernardoni e Paola Vischetti ha fondato il progetto contemporary locus, ovvero un percorso svolto con vari artisti (ora siamo alla sesta edizione) che ha come scopo quello di far rivivere luoghi dismessi, abbandonati e dimenticati del nostro territorio, mediante interventi d’arte site specific. Questa associazione culturale -volontaria e no profit-, fondata nel 2012, ha organizzato per la prima volta lo scorso hanno quel piano di lavoro e progettazione chiamato Welcome to Bergamo. Sono stati invitati operatori, giornalisti ed artisti a visitare alcuni luoghi di Bergamo, da istituzioni ad eventi privati, “per ritrovare e mostrare al pubblico la relazione tra ciò che ci sta intorno e la nostra città. Bergamo è un luogo intenso, carico di idee e progetti, ma anche soffocato da una chiusura mentale e da mura non solo in mattoni”. In questa direzione, Welcome to Bergamo si slancia nello spazio come momento di dialogo ed incontro, per aprire connessioni e vie libere. Quest’anno siamo quindi giunti al #2 episode del programma suddetto: “abbiamo chiamato un gruppo di artisti affinché portino la loro esperienza a voi, voi dell’Accademia, nonché uno dei luoghi più significativi della città”. È quindi un programma tutto impegnato a garantire la vitalità e vivacità della formazione in toto, considerandola come unica garante e custode del progresso e dell’evoluzione sociale e, dunque, urbana. “Attraverso i racconti delle loro storie in questi brevi momenti di 20 minuti, in cui è difficile riuscire a scegliere e a condensare il discorso (molti di loro sono abituati ad incontri di due, tre, quattro ore), si attua un meccanismo di connessione ed attenzione. Tutto sarà rivolto alla diversità e al fulmine delle informazioni che ci arrivano: sarà una maratona, in cui il nostro corpo cammina nello spazio e deve trovare un suo equilibrio”.

Apre l’incontro Anna Scalfi Eghenter, artista nata a Trento nel 1965, “allieva di Luciano Fabro e diplomata a Brera, ho studiato teatro alla Silvio d’Amico di Roma. Dopo una quindicina d’anni ritorno all’esperienza acquisita a Brera e la recupero come necessità nell’ambito degli studi sociologici. Trovo utile rivolgermi allo strumento dell’arte come ad un gesto sperimentale”. Prosegue la sua presentazione mediante alcuni lavori “che ho proposto nel tessuto urbano”, soffermandosi talora sulla segretezza degli spazi recuperati dal passato e talora sulla loro storia sociopolitica, con uno sguardo estremamente umano, anzi con uno sguardo che si umana. Passando da lavori quali Welcome to Italy (2007), in cui espone nella piazza del MART di Rovereto le bandiere di 76 nazioni ordinate per percentuale di donne in parlamento che vengono prima dell’Italia, ad altri che riflettono sulle questioni di genere, come il lavoro fatto a Rovereto cambiando la sagoma dei semafori o dei cartelli di “lavori in corso” da maschile in femminile, sotto permesso, per otto ore consecutive, ci parla poi di Always Half full (2008), in cui, in collaborazione con la Sandretto Re Rebaudengo, riempie 700 bottiglie di Barbera d’Alba solo a metà per poi essere vendute nei tre giorni consecutivi, dopo i quali il prodotto sarebbe scaduto e diventato opera. Descrive Celata (2008), lavoro fatto negli eventi paralleli a Manifesta7, nella Piazza Duomo di Rovereto, in cui 22 lavatrici funzionanti erano state posate sulla striscia di pietra rosa che copre la roggia che scorre tuttora sotto la piazza. “Messe in funzione per undici ore al giorno, le persone ricostituirono in quei metri la possibilità di interagire, di farne luogo inter-relazionale”. Descrive anche Indeposito (2009), Chat (2009), Histogram (2007), Liturgia Breve (2011) e altri progetti, che hanno tempi di realizzazione che vanno da pochissimi mesi a quattro-cinque anni. Interessante il discorso fatto sull’esecuzione dei progetti richiesti da altri, che “in certe occasioni non rispettano l’identità dell’artista”, soffermandosi solo sul fine e non sul mezzo, e sul lavoro, ancora in corso, chiamato Anonymous Collectors, che vuole far incontrare collezionisti d’arte in occasione di alcune fiere, come Art Basel, “in gruppi di mutuo aiuto per smettere di collezionare. I collezionisti sono la linfa del mondo dell’arte, con quella passione viscerale che diventa quasi maniacale”.

Il secondo artista che presenta se stesso è Diego Marcon: nato a Busto Arsizio nel 1985, frequenta il

Liceo Artistico e poi la Scuola Civica di Cinema “per imparare la pratica per fare i miei lavori, per indagare il cinema sperimentale, l’arte visiva e le forme ibride tra cinema e film”. Dopo lo IUAV a Venezia, ora vive a Parigi, dopo due diverse residenze sul suolo francese. “La matrice del mio lavoro è o documentaria, con immagini di repertorio ed elementi-video di famiglia, o di produzione-video vera e propria. Il punto di partenza è la realtà, che poi riscrivo. La ricerca parte dalla convinzione che il cinema -o lo sguardo in generale- sia un atto molto potente, uno scalpello capace di rompere la superficie del reale, andando in una dimensione profonda”. Marcon presenta lavori quali She Loves You (2008), in cui in quaranta minuti narra la storia di Claudia, donna che vive la propria vita in un rapporto al limite del patologico con i Beatles, ascoltando sempre loro canzoni o leggendo loro report, “sacrificando gli amori, la vita quotidiana e anche i figli, cresciuti dalla nonna. Tuttavia ha sempre deciso di non avere un contatto reale con questi cantanti, per non intaccare la dimensione virtuale e immaginaria che si è fatta attraverso il repertorio di oggetti collezionati”. Ci parla anche di Storie di fantasmi per adulti (2010), video nato da un percorso di artisti svoltosi a Guarene d’Alba, un paesino “in cui c’è un nulla che avanza e nessuno fa niente per abbatterlo”, interpretato da Marcon attraverso una serie di cambi fissi dedicati a ninnoli e gingilli di una casa standard. Conclude descrivendo i lavori Litania (2011), riproduzione di nuvole al limite della visibilità su sfondo bianco, e Interlude (2014), rivisitazione filmica di un ricordo di Georges Perec.

Il terzo artista invitato è Luca Resta, che dopo gli studi all’Accademia di Bergamo, va a Parigi per un “ricongiungimento famigliare”. Ci parla di lavori, ancora sperimentali, che si relazionano alla scultura e agli oggetti: “mi piace sporcarmi le mani con la materia e raccogliere oggetti, per poi collezionarli anche in maniera inconscia”. “Le scatole sono la mia mania”: riflette sulle scritte degli scatoloni di cartone come fossero carte d’identità, oppure trasforma i pacchi d’imballaggio in sculture di marmo, con una fissità esagerata data dalla volontà di essere fedelissimo all’originale. “Colleziono poi oggetti arrugginiti, blister di pastiglie e medicinali, posate usa e getta, divise per colori e tipologie. Mi sono concentrato sullo stuzzicadenti, nato come oggetto borghese in avorio, sino a divenire comune e usa e getta. Io lo realizzo in marmo, in dimensioni reali. Mi piacciono anche i petardi, mi piace scoppiare, raccolgo fuochi esplosi per fotografarli. La polvere da sparo ha un forte potere colorante, quindi ho realizzato monocromi con essa, poi incorniciati in cornici vuote che avevo a casa: mio papà faceva il pittore”.

Ultima artista della mattinata è Francesca Grilli, che, nata a Bologna nel 1978, ha studiato prima all’ISAB di Bologna, poi all’ISIA di Urbino, per frequentare infine seminari all’Antonio Ratti di Como. “Io nasco come fotografa, ma passo al video iniziando la mia carriera performativa. La performance è ora il linguaggio con cui riesco ad esprimermi con maggior intensità.” Si dice “visceralmente affezionata” al lavoro Arriverà e ci coglierà di sorpresa (2006), che segna lo spartiacque fotografia-performance e che nasce quando è stata selezionata come artista partecipante per il festival della performance organizzato da Centrale Fies. Realizza qui un video in cui affida a due ballerini anziani le fila del discorso performativo, lasciando a loro disposizione una balera musicata per tre ore. Altra performance (Enduring midnight, 2007) viene ideata con un ospite della Casa Verdi di Milano, una cantante d’opera di carriera negli anni 50, che dopo aver sposato un direttore d’orchestra più vecchio di 30 anni abbandona questa sua passione. La Grilli vuole creare un percorso performativo in cui mostrare come la voce di questa donna non corrisponda all’età anagrafica del corpo, come se “la castrazione di una passione rompesse il passaggio fisico del tempo”. Descrive poi l’incontro con una cantante albina newyorkese che mette in relazione performativa con il Tubo di Ruben (Moth, 2009), in un gioco di voce e fuoco, e Ossido ferrico (2013), lavoro portato all’ultima Biennale di Venezia, nel padiglione Italia, in cui “la voce diventa indizio, sintomo della libertà d’espressione”.

Report di Marco Arrigoni

Paola Tognon,   Francesca Grilla foto Simone Montanari
Paola Tognon, Francesca Grilla foto Simone Montanari
Paola Tognon  - Anna Scalfi Eghenter,   foto Simone Montanari
Paola Tognon – Anna Scalfi Eghenter, foto Simone Montanari