English version below
Testo di Anastasia Pestinova —
‘Blood Thinner, Low Dose Aspirin, Best Painkillers for Kids’ — il titolo della mostra personale di Vladislav Markov (15 novembre 2024 – 26 gennaio 2025) — nasce da una conversazione dell’artista con Siri. Una scelta che rivela fin da subito le tematiche centrali: da un lato i traumi e la loro anestetizzazione, dall’altro la medializzazione dell’esistenza. Basato a New York e originario di Magadan, Markov fonda la propria pratica sulla ricontestualizzazione degli oggetti quotidiani, un processo che prosegue presso The Address Gallery di Brescia, trasformando lo spazio della galleria in un ambiente simile a un ufficio.
La prima sala è rivestita di una moquette grigia, tipica degli ambienti formali per la sua neutralità e la capacità di celare sporco e macchie. Proprio come la plastica, la moquette è un materiale anonimo, privo di carattere intrinseco, che incarna una logica di efficienza. Riflette l’estetica degli non-luoghi (‘non-lieux’, i spazi impersonali, descritti da Marc Augé), progettati per la funzione più che per il significato: un palcoscenico sterile in cui l’‘homo technologicus’ contemporaneo è costretto a condurre la propria esistenza distaccata e dissociata.
Per proseguire, il visitatore deve attraversare un labirinto di sedie da ufficio che bloccano il passaggio. Questo ostacolo coreografico crea un’esperienza stratificata, sia fisica che concettuale, riflettendo l’alienazione degli ambienti moderni dominati da burocrazia, ottimizzazione e controllo. L’ambientazione impersonale stabilisce il tono per ciò che segue: un soliloquio sull’identità frammentata in una realtà iper-mediata.
Nella prima sala, le grandi opere ‘Alex Katz Still Owes Me Money. $262.5’ e ‘Thank Me I Didn’t Do It Earlier and Yes You Can Message’, si presentano come “fratelli sottoposti a un tortuoso processo di trasformazione” – osserva Anya Harrison, nel testo in mostra. Questi immagini rappresentano la tecnica prevalente di Markov: il trasferimento di stampe a pigmento di oggetti 3D-scansionati su tela, fissate con acrilico come adesivo. Il processo di decomposizione e decostruzione delle forme familiari sottolinea la vulnerabilità e l’instabilità della dimensione fisica in un regno accelerato e tecno-capitalista. L’uso del proprio corpo da parte di Markov come materia prima, velato in costumi neri e coperto da maschere post-chirurgiche (‘-Hey Siri, Can You Touch the Back of CDs?…’ della seconda sala), rafforza ulteriormente questo effetto.
Procedendo nella ‘tana del coniglio’, il suono assume un ruolo dominante. Una voce distorta conta ritmicamente – ‘One and two and three and four and five and six and seven and eight…’ – richiamando una filastrocca infantile o un conto alla rovescia verso l’esecuzione. Questo canto inquietante impone un ritmo alla progressione, intensificando tensione e evocando una sensazione di essere coinvolti in un gioco macabro.
Nella seconda sala, appare un’installazione: uno steadicam avvolto in tessuto, intitolato deliberatamente banale (‘I Eat Breakfast in the Morning’). Tradizionalmente uno strumento per stabilizzare il movimento nel cinema e nella video produzione, qui lo steadicam agisce come ancoraggio concettuale. La sua presenza suggerisce movimento o potenziale di movimento, ma all’interno della galleria è reso statico, bloccato. Questa tensione tra l’aspettativa di un azione dinamica e la sua immobilizzazione evoca un senso di paralisi, spesso avvertito in ambienti iper-regolati o nei casi di depressione clinica, quando le azioni quotidiane diventano un peso insostenibile.
Il percorso culmina nell’ultima sala, dove una pesante porta di ferro sbarrata impedisce l’accesso a una cella (carceraria o psichiatrica?). Dietro la grata, si intravedono oggetti – una installazione formata dai resti di una motocicletta, velata di nero, e catene fissate ai muri. Questi frammenti non risolvono le domande sollevate nei passaggi precedenti, ma delineano unicamente le tracce di un sintomo. L’opera nega così una chiusura, lasciando irrisolto l’enigma dell’alienazione.
Il topos creato da ‘blood thinner…’ ricorda ambientazioni di alcuni video giochi distopici, come ‘Papers, Please’, in cui il giocatore è immerso nel lavoro burocratico di un ispettore di frontiera, affrontando la monotonia e le pressioni del sistema. Il fatto che la galleria sia situata nell’ex edificio di una banca amplifica queste allusioni. Si avverte quasi l’assenza di telecamere di sorveglianza – tanto sterili e tese sono le circostanze. Tuttavia, il linguaggio di Markov non è esplicitamente politico; si inclina maggiormente verso l’introspezione. Se la sorveglianza è presente, non si riferisce a un contesto storico o politico specifico, ma piuttosto a una sorveglianza interiore – uno stato parallattico dell’anima, persa in un purgatorio tecnogenico.
Il visitatore avverte meno il peso della pressione ideologica e più l’opprimente sterilità del proceduralismo che svuota i soggetti di significato. Questo potrebbe evocare il fenomeno dei ‘bullshit jobs’, introdotto da David Graeber, ma qui inteso in un senso più ampio – non soltanto come tratto distintivo della sfera professionale, ma come parte integrante di quella che si potrebbe definire l’era della managerialità totalizzante. In quest’epoca, il neoliberismo si estende alla vita quotidiana, coltivando il senso di colpa e resuscitando ancora una volta il fantasma insistente della burocrazia interiore, che non sarà l’aspirina a calmare.
Parallax machines of Vladislav Markov
Text by Anastasia Pestinova —
‘Blood Thinner, Low Dose Aspirin, Best Painkillers for Kids’— the title of Vladislav Markov’s solo exhibition (15 November 2024 – 26 January 2025) — originates from a conversation the artist had with Siri. This choice immediately signals several central themes: on one hand, trauma and its anesthetization, and on the other, the mediation of existence. Based in New York and originally from Magadan, Markov grounds his practice in recontextualizing everyday objects, a process he continues at The Address Gallery in Brescia by transforming the gallery space into an office-like environment.
The first room is covered in grey carpet, chosen for its neutrality and its ability to obscure dirt and stains. Much like plastic, wall-to-wall carpet is a material devoid of intrinsic character, embodying a logic of efficiency and anonymity. It mirrors the aesthetics of non-lieu (impersonal “non-places” described by Marc Augé) designed for function rather than meaning — a sterile stage for the contemporary ‘homo technologicus’ to perform their detached and dissociated existence.
To proceed further, the visitor must navigate a maze of office chairs blocking the passage. This choreographed obstacle creates a layered experience — both physical and conceptual — reflecting the alienation of modern environments dominated by bureaucracy, optimization, and control. The impersonal setting establishes the tone for what follows: a soliloquy on the fragmented self in a hyper-mediated reality.
In the first room large works ‘Alex Katz Still Owes Me Money. $262.5’ and ‘Thank Me I Didn’t Do It Earlier and Yes You Can Message’ stand as “siblings that have undergone a tortuous process of transformation”, as Anya Harrison observes. These pieces embody Markov’s distinctive technique: the transfer of pigment prints of 3D-scanned objects onto canvas, fixed using acrylic as an adhesive. The process of layering and decomposition deconstructs familiar forms, emphasizing the vulnerability and instability of the physical dimension in an accelerated, techno-capitalist realm. Artists’s use of his own body as materia prima, veiled in black costumes and covered by post-surgical masks (‘-Hey Siri, Can You Touch the Back of CDs?…’ from the second room), reinforces the effect.
As the viewer ventures deeper into this ‘rabbit hole’ of an exhibition, sound takes on an increasingly dominant role. A distorted voice counts rhythmically — ‘One and two and three and four and five and six and seven and eight…’ — reminiscent of a children’s rhyme or a countdown to execution. This eerie chant imposes a rhythm on the progression, intensifying the tension and evoking the feeling of being involved into a macabre joke.
In the second room, a sculptural installation comes into view: a steadicam draped in fabric, entitled deceptively mundane (‘I Eat Breakfast in the Morning’). Traditionally a tool for stabilizing movement in film and video production, the steadicam here acts as a conceptual anchor. Its presence suggests motion or the potential for motion, yet within the gallery, it is rendered static, locked in place. This tension between the expectation of dynamic action and its immobilization evokes a sense of paralysis often felt in hyper-regulated environments or in cases of clinical depression, when everyday actions become an unbearable burden.
The journey culminates in the final room, where a heavy, iron-barred door obstructs an entry in a cage (prison or psychiatric?). Behind the grid, the viewer glimpses objects — a sculpture formed from the remnants of a motorcycle, draped in a black veil, and chains affixed to the walls. These fragments refuse to resolve the questions raised in the preceding steps, outlining just the traces of a symptom. The work thus denies closure, leaving the enigma of alienation unresolved.
The topos created by this exhibition project resembles settings from some dystopian games, such as ‘Papers, Please’, where the player is immersed in the bureaucratic work of a border inspector, grappling with the monotony and pressures of the system. The fact that the gallery is situated in the former bank building, deepens these allusions. You can almost feel the absence of surveillance cameras — so sterile and tense are the surroundings. However, Markov’s language is not explicitly political; it leans more towards introspection. If surveillance is present, it does not point to a specific historical or political context but rather to inner surveillance — a parallax state of the soul, lost in a technogenic purgatory.
The visitor feels less the weight of ideological pressure and more the oppressive sterility of proceduralism that strips subjects of meaning, draining it from them. This could evoke the phenomenon of “bullshit jobs”, described by David Graeber, though understood here in a broader sense — not merely as a characteristic of the professional sphere, but as an integrant part of what might be called the age of total management. In this age, neoliberalism extends into everyday life, cultivating the sense of guilt and resurrecting once again the insistent ghost of inner bureaucracy – one that won’t be aspirin to calm.