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Definirei questa Biennale 2017 con una parola: scolastica. Questo termine, ovviamente, non è da ricollegare alla filosofia e teologia medioevali – anche se, l’utilizzo di questa parola è iniziato a prendere piede proprio con gli umanistici (tanto citati da Christine Macel), per designare una filosofia pedante e astrusa, che si perdeva in sottigliezze dialettiche… – ma al suo significato più corrente: relativo e destinato alle scuole; che riflette il grado di conoscenza che si apprende a scuola.
Didascalica, chiara nei suoi significati e nelle sue intenzioni, VIVA L’ARTE VITA, sembra costruita e sviluppata per introdurre in modo pedagogico, delle giovani menti all’arte contemporanea. Dopo l’inconscio dei mondi enciclopedici di Massimiliano Gioni, i labirintici intrecci tra irrealtà e idee proto-marxiste di Okwui Enwezor, ora, con questa Biennale – sicuramente per reazione – c’è l’affermazione della leggerezza, del disimpegno, della creatività fine a se stessa, tautologica: insomma un inno all’operosità artistica senza dilemmi.
Fin dai suoi primi respiri, nelle stanze del Padiglione centrale ai Giardini, la curatrice mette subito in chiaro quelle che sono le sue carte, le sue intenzioni e il ‘tono’ di quello che sarà la mostra: un programma – a volte interattivo – da seguire per comprendere con diversi temi e forme espressive, il pensiero dell’uomo contemporaneo, tra gioie e paure, tra spazio intimo e collettivo, tra questioni ambientali e afflato cosmico, tra forme più o meno digeribili di iniziazioni e perdita di sensi… per culminare in una sorta di passaggio-trionfo colorato e giungere in una dimensione dove tempo e infinito dialogano. (Forse vi ho già annoiati!)
Questi, in modo discorsivo, i temi che Christine Marcel ha indagato grazie ai lavori di 120 artisti di ben 50 paesi. Nomi di artisti altisonanti si contano sulle dita delle mani, tantissimi, invece, gli artisti che partecipano per la prima volta alla Biennale (103). Tra questi, però, devo dire che, a parte casi sporadici, non ho scoperto nessun talento rivelante.
Al di là dei numeri, che dicono, spesso, ben poco, direi di tornare ai temi della Biennale, analizzata grazie a trans-padiglioni (che abbiamo completamente perso di vista, se non muniti di mappa e guida alla mano) “liquidi e fluidi” che hanno l’obbiettivo di disegnare un “movimento di estroversione, dall’io verso l’altro, verso lo spazio comune e le dimensioni meno definibili, aprendo così alla possibilità di un neoumanesimo”. Non ho rivelato nulla di nuovo, dunque, definendo questa Biennale “scolastica”, perché è la Macel stessa che, in modo sottinteso, la vuole così. Neoumanesimo è una parola che si utilizza, in modo generico, per definire programmi culturali che si ispirano a studi del mondo classico e, più nel dettaglio, è stato definito così l’orientamento pedagogico fiorito nella Germania tra il 18° e 19° secolo, impiegato per diffondere e dare valore alla ripresa dello studio delle lingue e della civiltà greca. Ma non usciamo dal nostro seminato…

E’ diventato un ritornello – o un tormentone, dipende dal punto di vista – la frase “VIVA ARTE VIVA è una Biennale con gli artisti, degli artisti e per gli artisti.”, che per molti versi, vuole dire, tutto e niente. Ovviamente le azioni più evidenti di questa ‘intenzione’ sono chiare: la produzione di video girati dagli artisti nel loro studio per rivelare parti della propria pratica (Progetto Pratiche d’Artista), la Tavola Aperta – luogo per mangiare e discutere con e degli artisti -, una studiata bibliografia che segue interessi e ricerche degli artisti (La mia Biblioteca). Ma, a parte queste buone ‘intenzioni’, nella pratica non si evince questa volontà di mettere al centro – o al servizio – gli artisti. Molto labile è anche il tema iniziale della Biennale, quello del Padiglione degli Artisti e dei libri. Qui, per semplificare, c’è un’attenzione particolare per lo studio – come luogo fisico, dove si producono le opere – e per l’oggetto libro.
La Macel tenta di creare della complessità, in questa sezione, inserendo un’atmosfera, un umore: aleggia il concetto di ‘ozio’, tema certo affascinante che costella tanta parte della storia e dell’arte dalla notte dei tempi. La letteratura sull’ “ozio creativo” – sintesi di lavoro, studio e gioco – è lunga e accattivante. In tanti se ne sono serviti per giustificare o arricchire la vita di artisti e letterati… La curatrice decide di dare voce al connubio tra dovere e piacere, tra tempo libero e produttivo, in modo direi un po’ approssimativo: relegando Franz West in una nicchia, davanti ad Frances Stark la cui opera si vede di sguincio, tra un ready-made con un letto che ospita un artista che finge di dormire (Yelena Varobyeva e Viktor Varobyev) …
Un’altra parola che ho sentito – e ho usato io stessa – per raccontare la logica di alcune opere è “didascalica”: ritorniamo ancora a termini legati alla scuola e all’insegnamento. Perché questo è quello che emerge sempre nel Padiglione degli Artisti e dei libri. In merito all’oggetto libro, questo viene imbevuto di inchiostro e di pittura (Geng Jiany), è utilizzato come scultura nelle opere di John Latham; è ritratto magnificamente da Liu Ye; sono oggetti-diario (Abdullah Al Saadi) ecc.
La lista di esempi per corroborare il taglio ‘didattico’ è lunga. Lasciati i Giardini, anche alle Corderie il tono della Biennale non cambia, anzi, si fa ancora più lineare e prevedibile. Apre il percorso il Padiglione dello Spazio Comune che, a parte alcuni eccezioni – il delicato e sognante spazio di Maria Lai e la tavolata del rammendo di Lee Mingwei – la sezione si sviluppa con i toni “Peace and Love” grazie ad un’infilata di video di Anna Halprin (“Planetary Dance”, gente in circolo che, dopo un evento shoccante, inneggia la pace), di Miralda, Rabascalli, Selz e Xifrail (“Rituel en quatre couleurs”, in occasione di una festa campestre) e di Marcos Avila Forero (“Atrato”, video-documento di una comunità afro-colombiana che lotta per preservare le proprie tradizioni). Oltre, tende e tendaggi, luci colorate, vasi in ceramica, arnie d’api, ricami, stoffe e strutture interattive…

I toni non cambiano nel Padiglione della Terra, dedicato ai mutamenti ambientali, alla bellezza del nostro pianeta, alle relazioni contraddittorie che abbiamo con esso, ma anche con gli animali e le risorse naturali. In questa sezione spiccano per umorismo e sagacia le opere di Shimabuku, “The Snow Monkeys of Texas – Do snow monkeys remember snow mountains?” e “Sharpening a McBook Air” (affila la cover di un macbook air tanto da farne una lama tagliente capace di tagliare una mela); l’installazione di Petrit Halilaj con le grandi falena-costume confezionate con la madre con tessuti tradizionali kosovari; i delicati disegni di Kanaginak Pootoogook che raccontano con ironia i mutamento della civiltà inut, i valori della tradizione e del progresso. Con quello dei Colori, il Padiglione delle Tradizioni è quello che celebra in modo più evidente il taglio didattico-divulgativo di questa Biennale. Dall’aula di Ciacciofera composta di tavoli con ceramiche, favi, fossili, ammoniti, ricami, tappeti, arnie decorate, griglie con ricami ecc. alle opere tessili della messicana Cynthia Gutierrez, al finto cantiere di Irina Korina, pieno di corone funebri composte da materiali artificiali al totem di ceramica di Yee Sookyung. Spiccano le esili figurine della bravissima Francis Upritchard che ci guardano con occhi vuoti nei loro abiti pesanti e fortemente decorati, che fanno tutt’uno con l’epidermide fluorescente. In questa sezione anche Anri Sala con un maxi carillon a parete e Grabriel Orozco che per la sua quarta partecipazione alla Biennale presenta “Visible Labor”: delle grandi travi di legni disseminate di automobiline Ferrari, figurine del Budda e un gioco da tavolo cinese.
Che dire del Padiglione degli Sciamani? Sorpassata la grande tenda di Ernesto Neto – che ospita i riti tradizionali degli indios delle foreste amazzoniche – abbiamo la sensazione di essere in un pseudo-parco giochi composto da opere fortemente decorative …
Il tono non cambia di molto nel Padiglione Dionisiaco, dedicato alla femminilità, al piacere, alla vita, con gioia e senso dell’humor. Bizzarre la presenza di Kader Attia con una studio approfondito sul mutamento della voce e le fotografie di Eileen Quinlann.
Sorvolo il Padiglione dei Colori, stanchissima, per trovare riposo davanti all’intrigante installazione di Alicja Kwade che unisce, grazie ad un sapiente gioco di riflessioni e specularità mediante specchi, materiali e forme differenti di pietre e sculture. Ho apprezzato anche l’installazione all’esterno dell’Arsenale: delle enormi sfere di pietra che simulano i pianeti.
Se alle Corderia sono più evidente e chiare le tematiche sviluppate dalla curatrice, ai Giardini la sensazione che si ha è quella di aver attraversato un repertorio di stanze ‘dedicate’ – sottolineo che è una forzatura collocare un artista per stanza con un progetto chiuso e a se stante – spesso slegate tra loro, senza né continuità né tensione. Dal video di un coniglietto (Rachel Rose) alle stanze dedicate alla pittura (Marwan, Firenze Lai, Sung Hwan Kim), da bellissimi disegni (Ciprian Muresan, Lubos Plny) … all’opera di Philippe Parreno.. Una costellazione di ‘isole felici’ che non formano una struttura, non c’è dibattito, confronto, polifonia. Tutto è disconnesso e casuale.
Ma forse è questa l’intenzione della Macel: creare un minimondo eterogeneo e contraddittorio, casuale e disparato, felice e spensierato.. un po’ come sarebbe bene prendere la vita, con leggerezza, sorridendo.
Una Biennale color pastello, rassicurante e senza asperità. Amorevole. A tratti scialba. Sicuramente non la ricorderemo tra le migliori.
Viva l’arte viva! Viva l’arte Viva!


