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VISIONI | Arte & Cibo — Intervista con Giovanni Caldara

Intervista di Mauro Zanchi Giovanni Caldara, giornalista professionista, si occupa di cibo e cultura, tematiche che ama intrecciare alla ricerca delle comuni radici: tanto sulle pagine culturali di Avvenire, dove ha scritto, che al Tropea Festival Leggere & Scrivere o all’Ombre Festival di Viterbo, con cui ha collaborato. Ha scritto per Il Domenicale, per il […]

Baciami, piccola pasticceria del ristorante stellato Kresios a Telese Terme (BN)

Intervista di Mauro Zanchi

Giovanni Caldara, giornalista professionista, si occupa di cibo e cultura, tematiche che ama intrecciare alla ricerca delle comuni radici: tanto sulle pagine culturali di Avvenire, dove ha scritto, che al Tropea Festival Leggere & Scrivere o all’Ombre Festival di Viterbo, con cui ha collaborato. Ha scritto per Il Domenicale, per il sito de Il Giornale, per l’inserto Gourmet del femminile Elle. Collabora con QN e Civiltà del Bere.

Mauro Zanchi: Partiamo da due locuzioni gastronomiche che coinvolgono il senso della vista: “mangiare con gli occhi” e “divorare con lo sguardo”. Anzi, forse è preferibile iniziare da qualcosa che appartiene all’atto dell’immaginare prima di un assaggio: pregustare con la mente, prepararsi all’assaggio partendo dalla contemplazione dei colori e forme composte in un piatto realizzato da uno chef stellato.

Giovanni Caldara: Conviene partire da un’evidenza su cui tutti oggi concordano – antropologi, etnologi, storici e archeologi -, per cui il cibo riveste una dimensione culturale e certo non si riduce alla pur necessaria funzione biologica. E dunque se il cibo è parte di un tessuto di relazioni, se cioè assume significati diversi, ma anche differenti aspetti a seconda del contesto in cui viene preparato e consumato (si pensi a un banchetto di nozze, a una cena romantica o a quella gourmet piuttosto che a una sagra o un semplice pranzo in famiglia), allora tali dimensioni estetiche – o ancor più specificamente: le suggestioni legate a filo doppio al mondo dell’arte – lo caricano di sensi (intesi sia come significati, che di vere e proprie sensazioni fisiche) che lo conducono e ci spingono su terreni tutti da decifrare.

Mauro Zanchi: Dove risiede secondo te l’aspetto più interessante dell’esperienza gastronomica di un certo livello, che potremmo collegare a qualcosa di simile all’incontro con un’opera d’arte visuale in un luogo deputato per fruire nuove idee o intuizioni, aspetti concettuali, esperienze estatico-percettive, emozionali, cognitive, o incontri polisemici?

GC: Ragioniamo allora per analogie, ma anche per contrasti. Quando nel 2002 il top chef spagnolo Jordi Roca (il cui ristorante El Celler de Can Roca è a giudizio unanime ritenuto tra i migliori al mondo) lanciò un dessert (a base di bergamotto) che chiamò “Eternity by Calvin Klein” lavorò con un profumiere per ottenere un dolce (che avrebbe visto nel piatto la presenza anche di una salsa al basilico, di gelatine di acqua ai fiori d’arancio e di sciroppo d’acero, con la granita e gli spicchi di mandarino) che ricreasse quella specifica fragranza (il profumo in commercio!) che lo aveva incantato: era, il suo, un piatto in cui il gusto si legava intimamente all’olfatto. Qualche anno prima, nel 1990, lo chef svizzero Pietro Leemann – 1 stella michelin con il suo ristorante di alta cucina vegetariana Joia a Milano – aveva invece dato vita a un piatto rivoluzionario (che lo avrebbe fatto conoscere al grande pubblico) come “Colori, gusti e consistenze” e che poneva l’accento non tanto sugli ingredienti, ma sulle sensazioni tattili (e anche cromatiche) legate al gusto. Il “nostro” senso della vista, invece, è divenuto oggi, in tempi di dominio assoluto di Instagram, il protagonista principale della scena al punto d’aver lanciato un’OPA – è ancora da definire quanto ostile – scalzando il gusto, quale senso più deputato a esprimersi quando parliamo di cibo.

Nel 2000 lo chef Michel Troisgros, tra i grandi di Francia, creò un piatto in cui una pellicola di caglio sottile ricopriva un pesto di tartufi neri. Si parlò di “alchemica combinazione di sapori” che tuttavia mancava di un non so che: di quell’impatto visivo che fosse pari a quello sprigionato dal gusto. Quando un giorno la pellicola per sbaglio si strappò, rivelò un inatteso squarcio di nero tra il velo latteo del caglio e fu così che lo chef esclamò: «Ho fatto un Fontana» per poi subito precisare: «Non dico mai: “ehi, adesso faccio un Fontana o un Rothko” altro pittore che ammiro. Accade … come un passaggio naturale tra arte e cucina».

Da menzionare è poi un importante dessert opera – in tutti i sensi! – dello chef australiano Philippe Searle dal momento che lo pensò e lo creò in chiava squisitamente artistica: diede vita infatti a un mosaico di sorbetto all’ananas e gelato all’anice stellato. Ogni quadratino veniva a sua volta incorniciato da una sottile striscia nera di gelatina di liquirizia. Che veniva poi inserito, tale mosaico, in una griglia costituita da una mattonella di gelato alla vaniglia. Il critico gastronomico Pat Nourse paragonò la “Scacchiera di gelato all’anice stellato, sorbetto all’ananas e liquirizia” (1988) all’intensità meditativa di un dipinto di Agnes Martin, capace di dare vita a una sinestesia: una vera e propria partita a scacchi per il palato.

Mauro Zanchi: Dove e con chi ha preso forma un interessante rapporto sinestetico tra cibo e arte, tra rimandi culturali, omaggi o reinvenzioni?

Giovanni Caldara: Gualtiero Marchesi, il modernizzatore della cucina italiana, credeva in un rapporto speciale tra cibo e arte: la scelta attenta delle materie prime e la ricerca di una leggerezza che avrebbe anzitutto consentito di apprezzare la qualità degli ingredienti si ponevano in contrasto con l’opulenza spesso greve di una cucina ormai datata, ma s’intrecciavano alla perfezione con un’estetica accattivante del piatto. Si pensi al suo celeberrimo “Dripping di pesce” (del 2004) ispirato esplicitamente a Jackson Pollock e alla sua tecnica di sgocciolare i colori sulla tavolozza. Il piatto è composto proprio da una tela, fatta però di maionese, in cui sopra vengono versati calamari e le vongole, ma anche succo di pomodoro, nero di seppia e prezzemolo: e sarà allora il cucchiaio, quale moderno pennello, a mescolare gli ingredienti, dando così forma (e sostanza) al piatto. ln “Achrome di Branzino” (del 2006), Marchesi renderà omaggio all’amico Piero Manzoni. In “Rosso e Nero” (2006) il tributo ad Alberto Burri passa invece tra il contrasto (visivo e cromatico, ma anche tra temperature diverse che incidono dunque direttamente sul gusto) tra la salsa fredda di gazpacho (con pomodori e peperoni Rossi) e la rana pescatrice spadellata, immersa precedentemente nella salsa al Nero di seppia. 

Le forme luminose e i colori brillanti sono stati scelti dal nostro grande chef vegetariano Pietro Leemann con un obiettivo dichiarato: opporre, in cucina, la vita alla morte. Ispirazione che lo chef intende comunicare attraverso i suoi piatti. In linea con la sua filosofia che vuole promuovere un approccio pacifico alla natura. I valori spirituali in cui crede questo cuoco consapevole e sensibile, allievo di Marchesi, vengono continuamente sollecitati da un sofisticato aspetto estetico. Come in “Cibo offerto” (2007), dove la sacralità dell’atto del cibarsi viene ribadita dal piccolo altare, che funge da piatto, su cui il cibo viene presentato.Nel 1992, Leemann crea “Gli strati dell’asparago”: di nuovo un piatto significativo – oltre che buono! – perché per primo introduce nel panorama gastronomico italiano la separazione degli ingredienti in verticale. Quella verticalità che da allora ha avuto grande successo. L’operazione culturale consiste nel concepire in modo esteticamente diverso il piatto: se da noi veniva per lo più visto come un quadro privo di volumi, in Oriente e nel caso specifico in Giappone, dove lo chef ha vissuto, è piuttosto presentato come un paesaggio e quindi con montagne, rocce e alberi. Un ulteriore spunto ci giunge da un altro piatto di culto, questa volta dello chef australiano, ma di origine malese, Cheong Liew e che si intitola “Quattro danze del mare” (del 1995) in cui il cibo giunge in tavola attraverso una volumetria di quattro “isole” concettuali da consumare in ordine crescente di gusto. 

Mauro Zanchi: In alcune opere dell’arte visuale, sia antica sia contemporanea, l’inserimento di un cortocircuito formale o concettuale crea un effetto spaesante o inaspettato, o nei casi più riusciti un bagliore che lascia il segno. Accade qualcosa del genere anche nell’arte culinaria?

Giovanni Caldara: Un esempio apparentemente paradossale, ma in realtà assai rivelatore, ce lo offre un indiscusso maestro come il top chef francese Michel Bras, che in un documentario (L’invention de la cuisine di Paul Lacoste) ha raccontato di come si sia servito di un ingrediente “estraneo” al suo territorio come la rana pescatrice per ricreare proprio l’essenza della sua amata terra, l’Aubrac. Ovviamente un pesce marino assai pregiato come la rana pescatrice nulla ha a che fare con l’altopiano vulcanico che si trova nel cuore della Francia, ma la sua carne dal colore bianco perlato – ecco la lezione del grande chef – questa sì è per lo chef perfetta per rappresentare il contrasto cromatico di luci e ombre (grazie anche a una salsa di olive disidratate) che si crea ogni qualvolta le nuvole attraversano la sua campagna.
In Oriente, terra di grandi suggestioni ma anche di provocazioni, lo chef Alvin Leung ha creato un piatto, il “Sex on the Beach”, in cui un profilattico commestibile riempito di miele e prosciutto viene adagiato su una “spiaggia” di funghi shiitake. È stato servito a Hong Kong al fine di sensibilizzare sulla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili.

Mauro Zanchi: Che rapporto c’è tra sostanza e forma, tra qualità e presentazione estetica, tra equilibrio e genio, tra ciò che attinge alla tradizione e ciò che desidera sperimentare nuove possibilità, nell’arte culinaria e nel rapporto tra chi crea piatti e chi li fruisce?

Giovanni Caldara: Tra le mie esperienze particolarmente significative una è in chiave positiva, la seconda assai meno. Laddove in Francia il pasto alla francese è parte del Patrimonio immateriale dell’Unesco, il rivelarsi di un’intera civiltà attraverso un piatto e qui di un gesto, accadde un giorno nella cornice magnifica e incantata del ristorante Le Meurice di Parigi (tre stelle Michelin ai tempi dello chef Yannick Alléno) dal superbo décor che si rifà agli appartamenti reali di Versailles: il servizio ha le movenze e i tempi di un corpo di ballo. Dove ciascuno dei membri della brigata di sala, dal commis allo chef de rang, sino al maître e su su fino al direttore interpreta alla perfezione il ruolo che gli spetta. E allorquando il commis giunse dalla cucina con il grande vassoio con sopra il mio piatto, catturò indelebilmente la mia attenzione: quella “delicata” operazione di porgermi il piatto, mai l’avrebbe potuta compiere da sé. Questa infatti spetta al suo diretto superiore, lo chef de rang, impegnato tuttavia in quel momento in un altro tavolo. Quella straordinaria civiltà, così sofisticata, si rivelò a me proprio in quell’istante: quando il commis, evitando di fermarsi alle mie spalle, per non infastidire il cliente, compì piuttosto un piccolo giro a vuoto col suo grande vassoio (e il mio piatto), attirando l’attenzione del collega, che una volta libero, riuscì a portare felicemente a segno il suo compito: porgermi il piatto.

Il Fungo secondo lo chef stellato Raffaele Lenzi

Giungo invece in un villaggio sperduto della Baviera, dopo un viaggio di oltre 500 km per sedermi alla tavola di uno dei più celebrati cuochi del pianeta: Heinz Winkler. L’attesa è alle stelle. La gioia pure quando leggo che nel menu è presente uno dei piatti che hanno fatto la storia di questo chef e del suo ristorante, come la variazione di foie gras accompagnata dal suo gelato. Quando giunge in tavola, però, il sublime gelato al foie gras è già pressoché sciolto. No, non è possibile né accettabile, di certo non a questi livelli. “Perché è molto caldo”, è l’imbarazzata giustificazione del maître che auspica la mia comprensione: siamo alla fine di luglio in un’estate particolarmente afosa anche per la solitamente fresca Baviera. Difficile però giustificare la scivolata, dato anche il prezzo con cui l’antipasto viene proposto. Così rimando in cucina il piatto senza neppure toccarlo. Dal grande chef in cucina nemmeno un plissé di scuse, si va avanti come nulla fosse con il piatto successivo. Ma ahimè il servizio giovane e attento coglie il nervosismo e la mia contrarietà, e chiede come poter riparare: «semplice – propongo –: facciamo finta che il piatto non sia ancora arrivato, di modo che lo chef lo possa preparare di nuovo. Dopo tutto, le centinaia e centinaia di chilometri li ho percorsi anche per gustare quel suo piatto mitico”. Invece il maître madido di sudore, dopo un consulto in cucina, di ritorno mi gela con queste parole: «Lo chef non intende più cucinare per lei e le chiede di lasciare il ristorante». Un attentato, il mio, di lesa maestà. Un incantesimo, per me, che invece si è rotto: e la magia che può svelare l’alta cucina si è sgonfiata come un soufflé preparato dalle mani di uno chef alle prime armi, anzi no: è stata più una … bavarese … decisamente indigesta.

Un piatto dello chef Massimo Bottura

Mauro Zanchi: Come si fa ad andare oltre un gusto (o i sapori che magari in pochi riescono ancora a riprodurre nella stessa maniera della tradizione) che riecheggiano “il vecchio piatto della nonna”, oltre gli elementi nostalgici che provengono da esperienze vissute nell’infanzia, che potrebbero prendere il sopravvento nel giudizio?  

GC: Un’eccedenza di significato, quella che cela e rivela il cibo, che non viene di sicuro da oggi: le follie della cucina contemporanea quanto spesso sono state contrapposte alla buona e cara cucina della nonna. A una civiltà, cioè, rimpianta e per sempre perduta, che è poi quella delle osterie di una volta, in cui il cibo veniva amorevolmente preparato e servito, senza essere caricato d’inutili sovrastrutture. Eppure anche la nostra amata tradizione gastronomica non andrebbe affatto pensata come a quel repertorio di ricette immutabili. Anzi, per quanto queste ci appaiano tali, celano in realtà i mille arbitri di cui sono fatte e che solo abbiamo dimenticato. Per orientarci, con Lévi-Strauss, potremmo dire che il buono è tale solo se è “buono da pensare”. Come esempio calzante, ci soccorre quella antichissima tradizione popolare in terra di Sardegna che consiste nella preparazione dei pani votivi: non intendono forse veicolare un ben preciso significato già a partire dalle forme con cui vengono confezionati? Siano essi a croce (“sa rughe”), a forma di scala della deposizione (“s’iscala”), persino di chiodi (“sos zoos de Deus”) ma anche di palma, per la domenica che precede la Pasqua, quando le strisce di pasta dura vengono intrecciate per simulare le foglie e decorate con mandorle o uva passa.

Mauro Zanchi: Per mestiere, un critico gastronomico esprime giudizi sull’operato altrui. Immagino che per esprimere giudizi con cognizione di causa sia necessario che il critico serio abbia la capacità di assaggiare una creazione culinaria e che riesca a differenziare ogni assaggio rispetto ai ricordi di un gusto precedentemente memorizzato. Presumo che ogni creazione sia sempre diversa, e questo dipende dal fatto che ogni volta viene realizzata in un determinato momento e da una certa persona o chef, e ci sono sempre molte variabili che non si riescono a tenere sotto controllo completamente. È anche probabile che ogni volta l’esperienza del critico cambi perché anche se una ricetta viene eseguita alla perfezione, il sapore può variare in base a vari fattori che sono parte della esperienza personale e alla qualità degli ingredienti. Senza alle spalle la personale sperimentazione i sapori di ogni piatto non avrebbero che un valore astratto e per molti incomprensibile. Un piatto può comunicare a chi lo assaggia sensazioni ed emozioni diverse. Rispetto al cliente di un ristorante, un critico culinario non si lascia totalmente trasportare dalle sensazioni organolettiche, per riuscire a cogliere nel piatto il bilanciamento tra l’estetica, il sapore creato dall’accostamento degli ingredienti e la tecnica di esecuzione. Ci aiuteresti a capire meglio la questione? 

C’è chi vede un filo diretto che unisce uno dei grandi maestri della pasticceria, il francese Marie Antoine Carême, che nell’Ottocento diede vita alle sue celeberrime creazioni alte oltre un metro, le Pièces Montées, poste al centro della tavola al termine di interminabili banchetti luculliani, con l’attuale fenomeno del Cake Design: vale a dire di quella decorazione di torte coloratissime, piene di personaggi di cartoni animati che animano le feste di compleanno dei bambini (benestanti, dato l’alto costo) del pianeta. Ricoperte come sono di pasta di zucchero, del loro gusto poco si sa: nascono infatti per un puro piacere estetico, per conquistare l’effetto wow! e appunto per essere fotografate e condivise sui social: vivono di quella dimensione. Ma io credo che un piatto, qualsiasi piatto, debba invece confrontarsi e venire a patti con il gusto: dia vita pure a ogni genere di sollecitazione – artistica e intellettuale, che poi giudicheremo se rivelatrice o fine a sé stessa, a seconda anche di quanto già abbiamo visto nel nostro percorso. Ma dal momento che l’esito ultimo sarà di essere mangiato (ribadisco: parliamo di un piatto, non di un quadro), le forche caudine del giudizio finale saranno senza dubbio rappresentate dal gusto. E laddove la sollecitazione estetica, anche quella più riuscita e intrigante, dimentica l’ambito in cui vive (la cucina), quella creazione certamente sarà da bocciare.

Mauro Zanchi: Per dare un’obiettiva valutazione dei piatti quali parametri deve tenere in considerazione un critico culinario? La critica gastronomica onesta e oggettiva avviene nel momento dell’assaggio, senza pregiudizi e nella completa differenziazione di tutti gli elementi proposti?

Ovviamente, per risponderti, mi appoggio all’esperienza, al cosiddetto “marciapiede gastronomico” calcato per anni e anni da “cronista” (piuttosto che “critico”) gastronomico. E in una serata importante come la cena di gala per la presentazione della nuova Guida Michelin di qualche anno fa, che si tenne nella splendida cornice del palazzo della Pilotta a Parma, ricordo quella lunghissima fila di “illustri invitati” (per lo più tutta gente del settore) in attesa paziente non già di gustare le creazioni sofisticate degli chef più titolati (dopotutto erano presenti a cucinare ben due “tre stelle Michelin” e ciascuno chef era dotato di una postazione cui ci si recava per ritirare il proprio piatto), ma l’attesa era tutta per le “semplici” (ovviamente solo apparentemente) creazioni di una magnifica trattoria – Ai due Platani di Parma – che con i suoi salumi, i tortelli e il mitologico gelato alla crema aveva catturato il cuore di ciascuno. Un tempo anche quello di Gualtiero Marchesi che l’adorava, preferendola a tanti ristoranti stellati: ironia della sorte, molti di quelli di Milano, sua città, erano e sono in mano ai suoi allievi. E dunque la critica deve certo essere capace di discernere: a partire dal piatto, dalla qualità delle materie prime impiegate sino alla loro lavorazione (dopotutto cucinare è trasformare, cosa che gli animali per alimentarsi non fanno), ma il giudizio complessivo terrà conto anche di tutti quei segni e valori impliciti che un ristorante giocoforza comunica e che l’osservatore attento riesce a distinguere: se è “rivelazione” o  “bluff” (quando ci troviamo dinanzi a una cucina provocatoria) oppure tra preziosi custodi della tradizione (come nel caso dei nostri Due Platani) o invece a stanche ripetizioni di una cucina che oramai ha già detto tutto.

Mise en place del ristorante stellato Lido 84 a Gardone Riviera
Gli ori del Garda, dessert dello chef Roberto Stefani del ristorante Tancredi di Sirmione