Testo di Marta Acciaro —
Sono passati quasi dieci anni da quando dentro l’aula 1 di Brera con Alberto Garutti si discuteva se la street art potesse essere annoverata tra i movimenti creatori di opere d’arte. Generalmente la risposta era un secco: no. E d’altronde si può convenire che, nulla togliendo alla creatività e alla bravura di certi personaggi, molta parte della street art non sia altro che un modo per decorare e accrescere una gentrification che molti non accettano come riqualifica, perché depotenziano e snaturano i luoghi dalla loro storia, forzandoli “artisticamente”.
Le decorazioni, si sa, possono essere gradevoli, coi loro tocchi di colore e le forme più o meno complesse. Eppure, nella maggior parte dei casi, è arduo poterle confrontare con la grandiosità concettuale di un’opera d’arte, sebbene siano anch’esse “opere grandiose” quantomeno nelle dimensioni. D’altronde non c’è nulla di eclatante o geniale in Banksy, sebbene sia innegabile che stia modificando la fruizione dell’opera e il concetto di opera stessa. Vedremo come proseguirà la storia.
Ci si divide tra coloro che accettano gli street artist come artisti a pieno titolo e chi non riesce invece ad annoverarli in tale modo. Ma basta prenderne atto e, si spera, ci siano sempre delle eccezioni che possano far cambiare idea e stimolino una riflessione.
Queste eccezioni le ritroviamo ad esempio in CHEKOS’ART o Never 2051: ambedue hanno concentrato la loro ricerca sulla pittura sia sui murales sia su materiali (come le tele) di dimensioni inferiori a una parete. Ma al di là delle dimensioni, è la loro ricerca pittorica che rende il loro lavoro, di diritto, tra le opere che stimolano non solo una riflessione, ma che accrescono il concetto stesso di ‘fare arte’.
Tra questi artisti si può annoverare anche Vincenzo Ferlita che ha inaugurato la sua mostra personale “Astratto Concreto” alla Rizzuto Gallery di Palermo il 26 Giugno 2020 (visitabile fino a Settembre 2020), in una riapertura che ci ha commosso dopo tanti mesi di lockdown.
Le opere di Ferlita derivano tutte dall’idea di murales. Possiamo però distinguerle in due tipologie: le opere senza e le opere con cornice.
Le opere non incorniciate sono tutte tele di dimensioni differenti e sono totalmente riempite di colore. È possibile leggere con chiarezza la continuità del lavoro da street artist dell’artista che rielabora su una superficie più ridotta una pittura che è possibile definire murale sia per l’impostazione del rappresentato sia per il modo in cui la superficie viene trattata. L’artista si scaglia sulla tela con la stessa dinamicità con cui si scagliava contro il muro. Lo spray si confonde alla pittura che viene gestita in modo materico e in una velocità urgente. Le tecniche miste usate sono abilmente accostate e sovrapposte.
Differenti sono invece le opere incorniciate. Esse si presentano come più pensate, meno aggressive, più composte, maggiormente adulte. È possibile intravedere un approccio all’opera meno istintuale e più riflessivo. Il colore e i gesti sulle carte non riempiono l’intera superficie, ma lasciano intravedere sempre una bordatura bianca che, come diceva Luigi Ghirri, riesce sempre a donare aria a ciò che viene rappresentato.
I due tipi di opere sembrano rivelare differenti tentativi di pensiero sull’opera, uno che rimane fedele alla storia personale dell’artista (le tele) e l’altro che si presenta quasi come un tentativo di elevare al mondo dell’arte proprio un tipo di espressione non accettata unanimemente da questo ‘tipo’ di mondo.
Tutte le opere, per l’ottima disposizione all’interno della galleria, sembrano relazionarsi in un continuo dialogo tra loro, dialogo che non sfugge certamente al pubblico che può trovare connessioni, risonanze e assonanze tra più opere tra loro.
La mostra, che vi consiglio di visitare, viene accompagnata da un testo di Francesco De Grandi. Siamo d’accordo con De Grandi nel ritenere le opere di Ferlita dei “reperti e carotaggi di una stratificazione di tracce segniche”. Del testo, scritto forse non come pensiero, ma come letteratura d’arte, si può contestare l’uso della parola rizoma quando leggiamo che “il lavoro di Vincenzo Ferlita è una raffinata speculazione filosofica sul corpo della pittura ed al suo universo segnico, legato al modo di percepire la realtà che caratterizza il nostro tempo, cioè quell’idea del rizoma e della deriva che ci fa scorrere nell’ambivalenza dei segnali e nella loro caratteristica fluttuante”. Il rizoma è un concetto filosofico, usato soprattutto da Jung, Deleuze e Guattari (intendendolo in modi differenti) molto complesso e proprio per questo spesso irriducibile a una definizione chiara. L’appropriazione di questo, come di altri termini filosofici, per arricchire un discorso letterario artistico ci sembra criticabile per il non riuscire a far entrare lo spettatore in una piena e concreta comprensione dell’opera.
Quella che qui stiamo definendo “letteratura d’arte” crea una distanza tra lo spettatore e l’opera, creando una concezione elitaria dell’arte, dalle parole e dai pensieri estremamente difficili. La letteratura d’arte può essere certamente ripensata in termini di concretezza e accessibilità qualora essa debba accompagnare la fruizione di opere così esplicite e immediate come quelle di Ferlita.