E’ in corso fino al 6 gennaio al MAST di Bologna la mostra SPECTACULAR. Un’esplorazione della luce dell’artista tedesca Vera Lutter (Kaiserslautern, 1960). Curata da Francesco Zanot, la mostra riunisce per la prima volta nel mondo un’ampia selezione delle fotografie, realizzate dagli anni Novanta ad oggi, sui temi dell’industria, del lavoro e delle infrastrutture per la movimentazione delle cose e delle persone. Sono le 20 le opere di grandi dimensioni, provenienti da musei e collezioni private, oltre ad un’installazione e a una serie di materiali in gran parte inediti che documentano il processo creativo della fotografa. Per questa occasione abbiamo posto alcune domande al curatore, in merito alla particolare ricerca dell’artista, sulla particolare tecnica fotografica che essa utilizza e dalla straordinaria capacità della Lutter di creare delle immagini dove “il mondo e i soggetti che lo popolano non siano semplicemente quello che appaiono”.
Elena Bordignon: “Spettacolari”: così hai definito le grandi opere presentate alla Fondazione MAST da Vera Lutter. Immagino che tu non abbia scelto questa parola a caso: il termine spettacolo, nella sua definizione etimologica, abbraccia concetti come il ‘guardare’, l’ ‘attrarre lo sguardo’ ma anche la ‘rappresentazione scenica’. Mi racconti le tue primissime impressioni – dunque poco mediate dall’intelletto, e più appannaggio dell’emotività – davanti alle opere di Vera Lutter?
Francesco Zanot: Credo che le opere di Vera Lutter prevedano nel proprio progetto un ‘esperienza più immediata e una invece più informata e documentata da parte dell’osservatore. Nel primo caso l’impressione è quella di sprofondare all’interno di una versione alternativa della realtà dove ogni cosa appare liquida e ancora non perfettamente definita. E’ un paradosso, poiché il senso di sicurezza che in genere accompagna l’osservazione del documento fotografico, che qui non è in nessun modo alterato o manipolato, viene sostituito da un’irrisolvibile sospensione tra certezza e incertezza, realtà e sogno. Nel 2007 era uscito un videogioco rompicapo che si chiamava Portal e si basava sulla possibilità di costruire dei varchi nelle pareti dello spazio virtuale in cui ci si muoveva per potere passare da una stanza all’altra. Le opere di Vera Lutter funzionano come questi portali: mettono in connessione il mondo reale con un suo doppio fantastico e imprevedibile.
EB:Uno degli aspetti che emergono con forza dalle sue visioni è il carattere monumentale dei luoghi. Come spiegheresti questa peculiarità del suo lavoro? E’ una questione di scala o è più legata all’aspetto temporale?
FZ: Entrambi. Dal punto di vista temporale, le opere di Vera Lutter rifuggono la logica della rappresentazione dell’istante (momento decisivo) che ha dominato la produzione fotografica dell’ultimo secolo, in particolare se pensiamo anche agli usi sociali di questo mezzo, per concentrarsi invece su ciò che resiste e permane. Le sue fotografe sono il risultato di pose estremamente prolungate che vanno da alcune ore fino addirittura a mesi interi, cosicché tutto quello che si vede al loro interno ha superato la prova del tempo. Sono attestati di presenza. Per quanto riguarda invece l’aspetto delle dimensioni, ciò che importa innanzitutto non è tanto la scala fisica dei soggetti fotografati, ma quella della visione che li alimenta o li ha alimentati. Vera Lutter si concentra su soggetti che sono scaturiti da grandi imprese e grandi idee. La monumentalità qui non è un attributo che riguarda semplicemente gli oggetti fisci che possiamo vedere, ma anche i progetti che li hanno alimentati.
EB:Al di là della scelta peculiare dei luoghi, molte immagini si caratterizzano soprattutto per un sapiente e calibrato uso del chiaroscuro. Ma non solo, anche i tagli e le prospettive spesso centrali donano alle opere la capacità di essere estremamente coinvolgenti per chi le guarda. Come racconteresti l’abilità e sapienza da parte dell’artista di ‘travalicare l’ordinario”?
FZ: Non credo dipenda solo da una questione tecnica. Nessuna fotografia di Vera Lutter ci mostra il mondo come appare ai nostri occhi. Sono tutte il frutto di un evidente processo di trasformazione del reale, a cominciare dal fatto che si tratta di immagini in negativo. Il risultato è dunque una costante, ripetuta sorpresa, da cui scaturisce la consapevolezza del fatto che i concetti stessi di ‘ordinarietà’ o straordinarietà’ sono sostanzialmente intercambiabili tra loro e dipendenti da fattori individuali e culturali. E’ una questione di complessità. Osservando queste fotografie siamo certi che il nostro mondo e i soggetti che lo popolano non siano semplicemente quello che appaiono.
EB: La tecnica di Vera Lutter è profondamente novecentesca. Mi racconti il lungo processo che sta dietro alla produzione delle sue immagini?
FZ: Direi addirittura prima che Novecentesca, se pensiamo ai fotografi che utilizzavano la camera oscura all’inizio della storia di questa disciplina e ai pittori che avevano dato avvio a questa tradizione già nel Cinquecento. Tutte le opere di Vera Lutter sono infatti realizzate attraverso l’utilizzo di una camera oscura In pratica, prima di realizzare qualsiasi fotografia, Vera Lutter ne costruisce una che posiziona davanti al suo soggetto. Si tratta di una camera oscura di grandi dimensioni, come una stanza, una vera e propria architettura concretamente abitabile, tanto che Vera Lutter entra al suo interno. Fotografa così dalla pancia della macchina fotografica, anziché tenerla di fronte ai propri occhi penetra nelle sue viscere, come se si trattasse della caverna di Platone, realizzando il sogno di tanti fotografi: trovarsi laddove le immagini si formano. L’operazione fotografica di Vera Lutter è così un lento rituale che costituisce un’estensione dell’antico gesto del fotografo che metteva la testa sotto il panno nero, soltanto che in questo caso è tutto il suo corpo a scomparire dentro la macchina, confondendosi con questa.
EB: Hai definito le opere della Lutter come “sculture fotografiche”. Vorrei che approfondissi questa tua definizione sulla sua ricerca.
FZ: Facevo riferimento al fatto che le sue opere sono delle copie uniche che vengono realizzate direttamente all’interno della camera oscura. In pratica, i fogli di carta fotografica che vediamo in mostra sono gli stessi che in precedenza sono stati davanti al soggetto e lì sono stati impressionati con la sua immagine. Non ci sono passaggi intermedi. Nessuna copia, nessuna riproduzione. Per questo le opere di Vera Lutter non sono mai soltanto delle immagini, ma degli oggetti, e in quanto tali hanno un valore scultoreo. L’immagine e il suo supporto corrispondono. L’opera funziona come una sorta di sostituto dell’artista, del suo corpo, insieme sono stati all’interno della camera oscura e lì hanno assorbito tutta l’energia di ciò che si trovavi davanti, all’esterno.
EB:Per molti versi le fotografie della Lutter sono una sorta di condensazione del tempo e delle azioni, sono l’antitesi dell’immobilità fotografica, da sempre ingabbiata nell’attimo decisivo. E’ come se avessero in sé la mobilità del cinema e l’eternità di una scultura in marmo. A livello filosofico, la sua poetica suscita più di una riflessione. A tuo parere, c’è un’opera in mostra che sintetizza, più di altre, gran parte della sua ricerca?
FZ: E’ molto difficile scegliere una singola opera di Vera Lutter perché sono tutte molto ricche e complesse. Vera realizza poche opere ogni anno, il suo lungo processo di lavoro non le consentirebbe di fare diversamente, così ognuna risulta estremamente densa e importante. Non c’è spazio per alcuna diluizione. Mi fa però piacere citare una fotografia realizzata nel 1999 a uno Zeppelin in un hangar di Friedrichshafen, in Germania. Vera Lutter aveva calcolato una posa di quattro giorni, ma quando era appena a metà, una mattina si è alzata e ha visto il dirigibile allontanarsi in cielo. In pratica, senza che lei fosse stata avvisata, i proprietari avevano organizzato un volo di prova. Nell’imagine finale il dirigibile appare così semi-trasparente, poiché non è rimasto fermo davanti alla camera oscura un tempo sufficiente affinché la sua immagine si imprimesse completamente sulla carta. Il fantasma di questo dirigibile ci dice che in fotografia qualcosa può contemporaneamente rivelarsi e scomparire, esistere e mancare.
Cover: Vera Lutter, Kvaerner Shipyard, Rostock, Warnemünde, IX: December 5, 2000 203 x 320 cm – Sam Trower, Princeton, NJ, USA @ Vera Lutter by SIAE 2024