Tra i tanti volti presenti nella bellissima mostra open-end di Marlene Dumas a Palazzo Grassi – a cura di Caroline Bourgeois, fino al 08/01/2023 – quelli che ci catturano per intensità sono quelli che non ci guardano, perché avvinghiati in uno stretto abbraccio o, meglio, in un bacio appassionato. Ci sono tanti baci, soprattutto disegnati, in questa mostra, ma è il piccolo olio su tela (24 x 30 cm), dal semplice titolo Kissing (2018) che ci attira per la carnosità delle pennellate, per l’irriconoscibilità del volto, per la scelta dei colori – blu, azzurro, ocra, grigio e bianco -, ma soprattutto per le forme che mutano completamente seguendo l’azione, appunto, del baciare. Questo quadro è in stretta relazione con l’altrettanto piccolo quadro che per posizione e intensità apre – letteralmente – la mostra: Kissed, sempre del 2018, la tela installata nel mezzanino della scala d’accesso al primo piano del museo.
“Baciata, ricevere un bacio. C’è il primo bacio, che forse non è il migliore, c’è sempre il timore di una caduta, dopo la quale «nulla sarà più lo stesso»”. Scrive l’artista nel 2021.
Questo piccolo quadro si basa su un fotogramma tratto dal film Una gita in campagna (1936) di Jean Renoir, che mostra l’unico bacio del film. Nel quadro l’azzurro del cielo si riflette sul volto della donna. Tornando a Kissing, invece, la leggerezza del bacio iniziale, qui si perde per diventare pastoso – ‘paludoso’ – una fanghiglia di blu, umidiccio e verdastro. Qui il bacio non riflette l’ambiente, l’aria, la leggerezza momentanea del reale, ma diventa carnale: la pelle dei due individui si fonde e confonde, emerge infatti la sensualità e passionalità del baciare.
E’ soprattutto nei quadri di piccolo formato che potremmo tracciare la grande sapienza pittorica della Dumas. Certo, anche in quelli di ampie dimensioni si rivela la sua bravura, ma nel piccolo formato, a mio parere, emerge la sua specificità pittorica, la sua maestria nel dar vita ad una grammatica che è tutta intrinseca alla stessa pittura.
Nel guardare i suoi quadri ci concentriamo sempre sui soggetti, leggiamo le targhette e scopriamo che spesso l’artista descrive il soggetto che dipinge: labbra, denti, alieno, occhio, dita. Ma al di là del reale, ciò che osserviamo è la liquidità e pastosità della stessa pittura. Anche laddove le forme sono ben definite, rimane sempre una forte ambiguità del tratto pittorico, la cremosità dell’olio non combacia quasi mai perfettamente con la forma, ma deborda, sbava. Da qui, l’equilibro tanto precario quanto magistrale della pittura della Dumas: riuscire a scendere a patti tra la volontà di rappresentare un volto, un corpo, un’espressione e l’irrequietezza e informalità del puro colore, della sua caotica materialità. Con pochi e rapidi tratti, sembra creare e negare al tempo stesso le forme, in un continuo oscillare tra due mondi, quello del raccontare le figure e quello oscuro delle atmosfere e dell’informe.
E’ la stessa Dumas a chiarire: «Vorrei che i miei dipinti somigliassero a poesie. Le poesie sono frasi che si sono tolte i vestiti. Il significato di un poesia è dato dalla sua cadenza, dai ritmi, da come le parole si muovono sulla pagina».
Queste parole sono associate al quadro Longing, bramosia (2018), che mostra un volto definito da poche pennellate, tratti che ne disegnano gli occhi, il naso, delle labbra carnose, per lasciare la maggior parte del quadro vuoto, quasi piatto.
Continuando a selezionare le opere dove maggiormente la rappresentazione viene meno rispetto alla supremazia del colore, ci fermiamo davanti a The Gate, La soglia (2001): in 24 x 24 centimetri l’artista ci mostra dei glutei e parti di cosce. I colori sono innaturali, vanno dal rosa intenso all’azzurro e hanno poco della tonalità dell’epidermide. Lo spazio tra le cosce della donna è enfatico quanto le cosce stesse. Scopriamo che il titolo fa riferimento al dipinto di Barnett Newman, The Gate (1954). Come l’artista statunitense, anche la Dumas ricorre al concetto di negativo e positivo, pieno e vuoto, trattandoli con la stessa intensità e valore.
Negli approfonditi testi in catalogo (Marsilio Arte) da più parti l’artista sottolinea che i suoi lavori migliori trattano concetti astratti in termini figurativi: ecco allora che è la stessa artista a rivelare che ciò che accade nelle tele è una sorta di lotta tra la definizione e la liberazione della forma.
Scrive Ulrich Loock nel saggio in catalogo “L’origine della pittura”: «Con il passaggio al colore, il suo esterno, la pittura riesce a creare una possibilità di avvicinarsi alla mancanza di significato e di aprirsi alla spaventosa mancanza di forma – cercarla, accettarla e goderne – e questo proprio perchè la pittura è lo sforzo di affrancare l’ordine sistematico delle identità e di raggiungere una liberazione da queste ultime.»
I tanti temi che nella sua carriera la Dumas affronta – e in mostra sono ben rappresentati da una vastissima selezione di opere – percorrono in modo più o meno palese la sua biografia personale: dalla separazione del suo amato, la nascita e la relazione con la figlia (in mostra in un’ampia parete è esposta la toccante collaborazione tra Helena, la figlia bambina e la madre, nella serie Underground del 1994-95), la nascita del nipote, così come la sua giovinezza sotto il regime dell’apartheid, i suoi contatti con i diseredati del Congo, dell’Algeria o della Palestina.
Spesso i temi e soggetti trattati – non ultimo, la sua presa di posizione politico-morale contro il razzismo e la discriminazione sessuale – sono ben riconoscibili e conducibili non solo a fasi ben precise della sua vita, ma anche a personalità note, basti citare i quadri presenti in mostra che ritraggono Charles Baudelaire e la sua amante Jeanne Duval, Oscar Wilde e Lord Alfred Douglas (Bosie), Jean Genet e Abdallah Bentaga (Jean Genet’s first long time lover), Anna Magnani nell’angosciante dipinto Mamma Roma (2012), accanto all’altrettanto intenso ritratto di Pier Paolo Pasolini (nel 2012 la Dumas scrisse le ragioni per cui era attratta dal noto scrittore e regista: per «il suo sensuale uso della luce e del buio, l’ ‘irrealismo’ narrativo dei suoi film, il modo in cui i suoi personaggi appaiono e scompaiono, il fatto che non si fida di se stesso»), Celine ritratto sul letto di morte (The Death of the Author, 2003),la bellissima Dora Maar (The Woman Who saw Picasso Cry, 2008), così come l’irriconoscibile Marilyn Monroe defunto, rappresentata con toni cerulei e spenti.
Ma slegati dal loro contesto e guardati prescindendo dalla riconoscibilità del loro soggetto, questi dipinti sono ‘disponibili’ per una nuova interpretazione. Riconoscibilità e cancellazione di essa potrebbe essere un processo perpetuo per la comprensione della grandezza della Dumas. La soluzione, continuamente nuova e sempre alla ricerca di una definizione, è da ricercare proprio nell’ambiguità del gesto pittorico, nella sua dissoluzione e, al tempo stesso, creazione.
Per un piccolo quadro, Immaculate del 2003 (24 x 18 cm), la Dumas sceglie il titolo pensando all’Immacolata Concezione di Maria e di quest’opera scrive: « “E’ molto triste”, dissi. “Come se nessuno fosse mai entrato qui. Come se nessuno fosse mai tornato da lì. Come se non fosse mai stata usata. Come se tutto il colore si fosse prosciugato, fosse stato drenato. Questa non è l’origine del mondo. Questa è la fine del mondo (…) Ci sono state volte in cui ti ho invitato. Ci sono state volte in cui ti ho affrontato. Ci sono state volte, ma non questa volta.»
In questo dipinto – dove l’artista cita L’origine del mondo di Gustave Courbet del 1866) – che mostra un torso di donna piegata che occupa tutta la tela, in primo piano gli organi genitali sono dipinti di scuro, l’epidermide attorno è chiara, bianco ghiaccio con sfumature dal grigio all’azzurro. Negli angoli, quasi fuori dalla tela, dei capezzoli scuri. Il limite della tela fa da inquadratura alla visione ravvicinata di questo corpo che non sembra tagliato dal formato, bensì sembra che sia il corpo stesso a premere per entrare nella superficie pittorica.
Di corpi che forzano i limiti della tela, in questa mostra, ce ne sono tantissimi: dalla Turkish Girl (1999) che si sgamba davanti a noi esibendo i genitali, The Particularity of Nakedness (1987), che mostra il corpo deformato dal bellissimo volto del compagno della Dumas, Jan Andriesse; Light and Dark (1990-2000), dipinto dalla lunghissima gestazione – 10 anni – che mostra una donna carponi definita da rapide pennellate di bianco e rosa su sfondo nero; Losing (Her Meaning) (1988) che racconta di una donna a faccia in giù, in uno specchio d’acqua scuro e denso.
Sia che ci guardino, languidi, disperati, ammiccanti – che dire dello struggente dipinto Dora Maar (The Woman Who saw Picasso cry, 2008)? – sia che ci osservino impassibili come nella serie Betrayal del 1994; o, per l’inverso, che lo sguardo ci sia negato, come nella lunga lista di dipinti in cui la persona è deceduta – Canary Death, The Martyr, Dead Marilyn, Red Moon, Death by Association – nel trovarci davanti alle opere della Dumas, abbiamo sempre l’impressione di essere osservati dalla stessa pittura. Davanti a queste tele, prima di noi c’è stata la stessa artista che ha guardato le persone e il loro passato, i suoi cari, i poeti, gli scrittori e i loro amanti, e tutti coloro che sono entrati nella dimensione pittorica della Dumas che ne ha ritratto il profondo, il nascosto, l’inafferrabile umore. Ecco allora che nella tela è come se rimanesse l’essenza di queste persone che, sfuggente all’occhio distratto, così come alla macchina fotografica, è raccontata “sensibilimente’ dalla Dumas.
Da qui il legame osmotico tra la sua pittura e la poesia. L’artista, come sottolineato all’inizio di questo testo, ama paragonare la propria pittura alla poesia. «La poesia è una scrittura che respira e fa dei balzi e che lascia spazi aperti per consentirci di leggere tra le righe»
Chi meglio della curatrice della mostra Caroline Bourgeois poteva sintetizzare il lavoro dell’artista:
“Ai miei occhi Marlene Dumas è un’artista attraversata dai nostri fantasmi, quali le tracce della storia, le tracce dei corpi, l’utilizzo dei corpi ancora e ancora, all’infinito. Il suo lavoro ci invita
a essere più «veri». Il suo modo «liquido» e fisico di dipingere, che fa apparire il soggetto senza
che questo sia stato precedentemente disegnato ma solo attraverso le pennellate, rende le sue opere seducenti e misteriose, come altrettante apparizioni vitali.” (Estratto dal catalogo Marsilio Editori).
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In occasione dell’apertura al pubblico della mostra, Palazzo Grassi e CHORA presentano un podcast – “Una specie di tenerezza, Marlene Dumas fra parole e immagini” – in due episodi, in tre lingue, con la partecipazione di Marlene Dumas e tanti altri ospiti, fruibile gratuitamente sul sito www.palazzograssi.it e su tutte le principali piattaforme di podcast streaming.Il podcast a cura di Ivan Carozzi, autore e scrittore per Baldini & Castoldi, Einaudi e Il Saggiatore, coinvolge numerose figure del panorama culturale internazionale, chiamate a comporre un racconto corale sui temi e sul mondo dell’artista.
Tra le voci che hanno contribuito al racconto, quelle della filosofa Adriana Cavarero, il Premio Strega Walter Siti, le scrittrici Olivia Laing e Marlene van Niekerk, lo scrittore e storico dell’arte Donatien Grau, la storica dell’arte Elisabeth Lebovici, la curatrice Caroline Bourgeois e lo staff di Palazzo Grassi.