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La collettiva Undomesticated Ground a Centrale Fies | Intervista a Barbara Boninsegna e Simone Frangi

Si conclude la trilogia di "mostre performative" dedicate da Centrale Fies al pensiero di Stacy Alaimo. I curatori ci raccontano come stavolta l'obiettivo fosse quello di decostruire la concezione occidentale di una "'natura' oggettificata, addomesticata e disponibile, da cui estrarre risorse materiali, simboliche e cognitive".
Undomesticated Ground. Exhibition view Théophile Peris | foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies

Nel denso programma di eventi estivi del centro di ricerca sulle pratiche performative contemporanee di Centrale Fies è inclusa la mostra collettiva Undomesticated Ground, allestita fino al 20 settembre nella Galleria Trasformatori e in altri ambienti della Centrale. Da anni Fies offre mostre di ricerca che si connotano per l’approccio ibrido tra i linguaggi delle arti visive e della performance, giovandosi inoltre di un forte retroterra teorico, che si stratifica e si dirama anno dopo anno. I curatori Barbara Boninsegna e Simone Frangi ci hanno parlato di Undomesticated Ground, che rappresenta una tappa importante di questo ciclo di mostre e offre dunque l’occasione per riflettere su quanto fatto finora e sulle prospettive future.

Federico Abate: Con il group show Undomesticated Ground concludete una trilogia di mostre dedicate a indagare attraverso le arti visive e performative il pensiero della teorica femminista post-materialista Stacy Alaimo: dopo aver affrontato nel 2023 il concetto di “naked word”, una nozione impiegata per riferirsi a modalità espressive del corpo in protesta in solidarietà con altri agenti non umani, e nel 2024 quello di “material self”, usato per rimarcare la stretta prossimità tra il corpo umano e l’ambiente (ne avevamo parlato qui e qui), quest’anno richiamate il saggio Undomesticated Ground, scritto nel 2000. Quali sono le tesi contenute nel saggio che vi hanno orientato nella preparazione della mostra? 

Barbara Boninsegna e Simone Frangi: Il terzo episodio della trilogia prende spunto dal saggio Undomesticated Ground scritto da Alaimo nel 2000 con l’obiettivo di decostruire criticamente le prospettive teoriche e simboliche che hanno costruito – particolarmente in Occidente – un’idea di “natura” oggettificata, addomesticata e disponibile, da cui estrarre risorse materiali, simboliche e cognitive. Come Alaimo si chiede in Allo scoperto – unico testo di Alaimo disponibile in italiano, scritto nel 2016 e tradotto da Laura Fontanella e a cura di Angela Balzano pubblicato per Mimesis nel 2024 – “è possibile ridisegnare ciò che è domestico secondo un’etica dell’abitare? È possibile farlo in modo tale per cui il domestico non addomestichi, in modo tale per cui i muri non interrompano le nostre connessioni? È possibile dare vita a un’etica dell’abitare che, interconnettendo, generi piacere? È possibile dare vita a un’etica dell’abitare che, di fronte all’inaspettato, sappia gioire, che sia capace di abbracciare le molteplici possibilità del divenire, e di stare in relazione di quella radicale alterità che abbiamo chiamato ‘natura’?” (S. Alaimo, Allo scoperto. Politiche e piaceri ambientali in tempi postumani (Mimesis, Milano 2024, p. 64). In linea con le istanze di Alaimo, la mostra riunisce prospettive artistiche che sovvertono lo spazio deterministico di questa idea di “natura” applicata al vegetale, al minerale, alla carne umana e animale e che reclamano la vita biologica – sia degli umani che di altri agenti non umani – come uno spazio indisciplinato e disobbediente, carico di possibilità politiche e immaginative. Uno spazio non neutro, romantizzato ma piuttosto attraversato da storie di colonialità (esterna e interna), rotture ecologiche, assegnazioni di genere e razziali nonché suddivisioni di valore calcolate su basi economiche e di classe. La mostra si inserisce in questo solco, raccogliendo opere che interrogano le tassonomie imposte sia all’umano e più che al più-che-umano dalle imprese sesso-coloniali occidentali, dal capitalismo, dall’emergenza della proprietà privata come strumento di estrazione personalistica dalla terra nonché dall’organizzazione del suolo in virtù di un urbanismo antropocentrico. La mostra riflette inoltre su come la “natura” sia stata manipolata in senso ideologico a fini escludenti. Come ricorda infatti Alaimo: “Il pensiero occidentale e angloamericano ha a lungo difeso la ‘natura’ e il ‘naturale’, contrapponendovi le persone LGBTQ, le donne, le persone razzializzate, colonizzate e le popolazioni indigene” (Alaimo, p. 100).  

Undomesticated Ground. Exhibition view Théophile Peris | foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies
Undomesticated Ground. Exhibition view Marcos Kueh | foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies

FA: La mostra raccoglie lavori di Giulia Crispiani e Golrokh Nafisi, Marcos Kueh, Elizabeth A. Povinelli, Théophile Peris, Adam Christensen con Tom Wheatley e David Aird. Il group show si anima poi con un live program che include performance, concerti e workshop. Potete parlarci brevemente dei lavori che avete selezionato? In che modo essi si fanno interpreti delle istanze del pensiero di Stacy Alaimo?

BB & SF: Le pratiche delle artiste e degli artisti partecipanti alla mostra e al live program gravitano intorno a una volontà di mettere in crisi la nozione e la prassi dell’addomesticamento, sia essa applicata a questo fittizio “oggetto-natura” che il pensiero occidentalocentrico ha creato o alle carnalità umane e animali. Rifacendosi alla riflessione di Yi-Fu Yuan, Alaimo rende chiaro che “‘addomesticamento significa dominare: le due parole hanno la stessa radice e si torcono verso la stessa accezione di padronanza nei confronti di un altro essere; significano portare un’altra creatura nella propria casa o nel proprio dominio’. Presso le culture occidentali, l’addomesticamento degli animali avviene sotto forma di un processo di familiarizzazione” (Alaimo). Nel film The Inheritance, l’antropologa e artista americana di origine trentina Elizabeth A. Povinelli compone un saggio video in tre atti costruito come un montaggio, che esplora l’eredità intesa come accumulo di spossessamenti razziali e coloniali di insediamento. Con l’intento di intervenire in quella che Povinelli ha definito la contro-riforma del nativismo bianco contemporaneo, The Inheritance ribalta le idee e le emozioni legate a storia, eredità e identità sociale attraverso una rilettura delle storie di immigrazione da Carisolo (nei pressi di Centrale Fies) a Buffalo che i nonni raccontavano a una giovane Elizabeth Povinelli. Carol Devane ha scritto che “le modalità di identificazione e appartenenza in relazione a Karezol/Carisolo creano un’eredità aggrovigliata, che tuttavia è svanita dall’esperienza sociale via via che la famiglia veniva assorbita nei privilegi della bianchezza negli Stati Uniti, anche se tale assimilazione è stata a volte problematica. La storia vivida e inquietante di questa famiglia offre un punto d’accesso per riflettere criticamente sulla classe, sul senso di appartenenza radicato nei luoghi, e sui privilegi e le punizioni che ne derivano.” Marcos Kueh è un artista originario del Sarawak, nel Borneo malese, che attualmente vive e lavora nei Paesi Bassi. La sua pratica artistica si concentra sui tessuti come mezzo per raccontare storie, attingendo alle tradizioni ancestrali di tessitura del Borneo per esplorare temi quali l’identità, il lavoro e la globalizzazione. Cresciuto in un Paese in via di sviluppo postcoloniale, Kueh si occupa da tempo di questioni relative all’identità e alla percezione della Malesia, sia attraverso le rappresentazioni coloniali nei musei che attraverso le narrazioni stilizzate nella pubblicità turistica. Il suo lavoro cerca di conciliare queste rappresentazioni con la sua esperienza di vita: cresciuto nel Borneo, affrontando le pressioni della modernità e della globalizzazione. Utilizza la tessitura per codificare le leggende contemporanee della vita quotidiana, proprio come facevano gli antenati del Borneo con i loro sogni e le loro storie prima dell’arrivo degli alfabeti scritti dall’Occidente.

Giulia Crispiani e Golrokh Nafisi, The city we imagine, performance | foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies

Giulia Crispiani e Golrokh Nafisi ripropongono una versione aggiornata di The City We Imagine, prodotta a Centrale Fies tra il 2020 e il 2021. Nel 2020, in un’edizione segnata dalle limitazioni imposte dalla pandemia, Giulia Crispiani e Golrokh Nafisi sono tra le artiste selezionate per Live Works. Il loro progetto nasce da un lungo percorso di collaborazione a distanza, iniziato nel 2016 tra Roma e Teheran, e si sviluppa nel dialogo continuo tra luoghi, visioni e vissuti condivisi. La performance avrebbe dovuto debuttare a Centrale Fies, ma le restrizioni sanitarie ne impedirono la realizzazione in presenza. L’opera prende così una forma inattesa: Crispiani è in scena, mentre Nafisi interviene in diretta dall’Iran, impossibilitata a viaggiare. Ne scaturisce un momento di intensa partecipazione collettiva, in cui il pubblico, a performance finita, sceglie di restare. La distanza si trasforma in connessione, e l’assenza in presenza poetica. Come raccontavano allora le artiste: “La città che immaginiamo non è utopica, ma concreta. È l’insieme dei luoghi attraversati, reali o mentali, un territorio dove lo scambio tra persone può avvenire senza mediazioni, in modo autentico.” Nel 2021, con la riapertura delle frontiere, The City We Imagine trova finalmente compiutezza: un’enorme mappa tessile di 9×9 metri, disegnata e realizzata dalle artiste, viene mostrata al pubblico come corpo visivo e simbolico del loro percorso. Oggi quell’opera viene esposta nuovamente, come traccia viva di un processo artistico costruito nel tempo e nello spazio. Tuttavia, ancora una volta, la situazione geopolitica mette a repentaglio la presenza congiunta delle due artiste: l’attuale stato di guerra e repressione in Iran ha infragilito il progetto di re-enactment dell’opera. Una condizione che interroga profondamente il ruolo dell’arte in tempi di crisi, ma anche la tenacia delle relazioni artistiche e umane che resistono, nonostante tutto. Il giovanissimo artista francese Théophile Peris registra i suoi incontri con paesaggi, persone e animali, alimentando la sua pratica artistica che trova espressione nella scultura, nel textile painting e nel disegno. Le forme che ne risultano sono il frutto di un dialogo tra le materie prime che raccoglie nei luoghi in cui opera e le abilità manuali ispirate dal know-how locale. Emergendo dai suoi quaderni di schizzi e prendendo forma in materiali come lana, rame, legno e pietra, un intero bestiario popolato da strane creature sembra emergere dalle profondità dei luoghi visitati dall’artista, chimere in collisione tra creature umane e animali: un vasto patchwork in cui forme ibride emergono dal materiale di produzione grezzo e si intrecciano liberamente, sfuggendo a ogni scala convenzionale. Théophile Peris ha scoperto i segreti della feltratura e le diverse qualità della lana mentre aiutava un pastore durante la stagione estiva, nella fattoria durante la tosatura delle pecore, ma anche nel laboratorio di un produttore di feltro anatolico. La lana, che è diventata un tema ricorrente nella pratica dell’artista, è utilizzata in misura molto limitata nell’industria laniera e Théophile Peris si appropria di questi “scarti” per renderli il fulcro del suo lavoro artistico. La sua pratica si basa su queste diverse esperienze, si nutre di aiuto reciproco e difende una forma di economia circolare. Il cuore dell’installazione per Fies è il feltro: tessuto nomade, privo di orientamento – come osservato da Gilles Deleuze e Félix Guattari in Capitalisme et Schizophénie, Mille Plateaux, “né rovescio, né diritto, né centro; non distingue fisso e mobile, ma distribuisce una variazione continua” – e dunque al di fuori di vincoli tradizionali di trama. Nelle sue opere, Adam Christensen intreccia aneddoti biografici con momenti teatrali e sogni con traumi. Ne derivano performance, film, racconti brevi o lavori tessili toccanti e umoristici, impregnati di amore, desiderio, malinconia e perdita. Le opere di Adam Christensen prendono avvio da esperienze personali, che vengono ampliate con elementi di finzione. I personaggi presenti in queste storie spaziano da adolescenti tormentati e ossessionati dal sesso ad anti-eroine del cinema noir, fino a grandi dive di Hollywood che recitano in maniera esaltata i tratti del proprio ruolo archetipico. Nei suoi video, performance e installazioni, Christensen mette in scena il domestico e il quotidiano come se fossero uno spettacolo.

Undomesticated Ground. Elizabeth Povinelli, The Inheritance | foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies
Adam Christensen con Tom Wheatley e David Aird | foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies

FA: In linea con gli indirizzi di ricerca di Centrale Fies, che pongono al centro la sfera delle arti performative, le vostre mostre, lungi dall’essere dispositivi statici di presentazione di una narrazione sedimentata, hanno sempre assunto la connotazione di “organismi” fluidi in grado di attivarsi per un tempo limitato, in virtù di una certa attitudine relazionale nei confronti del pubblico e del contesto. Per definire questo basso continuo animato da picchi di vitalità forse è necessaria, ma non sufficiente, l’etichetta “mostra con attivazioni performative”. Cosa pensate in merito a questa modalità operativa? Cosa vi permette di ottenere sul piano dell’espressività e dell’efficacia comunicativa, che invece un progetto espositivo tradizionale non riuscirebbe a cogliere e trasmettere?

BB & SF: Abbiamo l’impressione che nella storia dell’arte contemporanea e delle arti performative occidentali i formati siano stati già tutti ampiamente esplorati, decostruiti e ibridati. Non pensiamo che le modalità compositive che applichiamo ai progetti espositivi durante Live Works e le altre aperture estive si contrappongano a delle idee di mostrazioni tradizionali. Quello che ci interessa è trovare piuttosto una coerenza tra i progetti esposti e il contesto di Centrale Fies durante la programmazione live, che trasforma il centro di produzione e di ricerca in una piattaforma per una comunità più ampia di quella degli artisti e degli operatori che la vivono durante l’anno. Il coefficiente performativo che cerchiamo si situa non solo nelle attivazioni delle opere ma anche nella scoperta della performatività dei processi che portano alla formalizzazione delle opere in un certo modo. La mostra si compone e si scompone tramite azioni più staged, chiusure di processualità con il pubblico o tramite workshop che ripercorrono a ritroso i meccanismi creativi e teorico-politici che portano alla forma delle opere. Ci interessa innestarci in una comprensione delle esposizioni che sta prendendo lentamente piede nella scena contemporanea, che le vede dunque come zone aperte di ricerca in atto piuttosto che come il congelamento definitivo di posizioni artistiche complementari. 

FA: Le mostre interagiscono con lo spazio connotato dell’ex centrale idroelettrica (in particolare con l’ambiente che ospitava i trasformatori), esondando talvolta dai limiti circoscritti e convenzionali del contesto espositivo. E l’ambiente, naturale e antropizzato, intrinsecamente politico, è centrale nelle riflessioni di Stacy Alaimo a cui vi richiamate. Sul duplice piano teorico e curatoriale, in che modo avete lavorato sull’attivazione dei lavori in rapporto allo spazio, in questa e nelle scorse occasioni? 

BB & SF: La Centrale detta delle regole molto precise in termini allestitivi ma non solo. Ci orienta in senso concettuale, contestuale ma anche politico poiché incarna un percorso di labour, di creazione comunitaria, di antropizzazione estremamente preciso. In qualità di centrale idroelettrica, appare chiaramente il frutto della svolta “idrologica” e del tentativo di allargare il dominio della produzione energetica ad altre falde dell’ambiente ancora non interamente accalappiate dalla mano umana. Pensare “con” Alaimo in questo luogo ci aiuta a rileggere criticamente una storia globale che la Centrale massicciamente ricorda, con l’idea che ciò che accade in una località ristretta ha plurime riverberazioni su scala planetaria, come ricorda Povinelli per esempio tracciando una linea di giunzione tra lo scioglimento dei ghiacciai trentini e l’aumento del livello dell’oceano nel Northen Territory in Australia dove risiede il suo collettivo Karrabing. Coscienti di questa possibilità di “fare eco” non solo dal punto di vista geografico ma anche storico, l’esondazione di cui parli forse ha anche a che fare con la volontà di entrare in contatto con tutti i valori che Centrale Fies propugna da più di 45 anni. Valori che si riassumono in scelte di solidarietà precise con comunità non conformi a dettami di genere o etnici, popolazioni sopraffatte da organizzazioni coloniali o strutture genocidarie, forme di vita non umane decimate dall’arroganza antropocentrica. La mostra di quest’anno assorbe anche tutto questo e lo riformula per poter continuare ad alzare la voce in maniera insistente su ciò che ci sta a cuore.

Adam Christensen con Tom Wheatley e David Aird | foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies
Adam Christensen con Tom Wheatley e David Aird | foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies

FA: Giunti alla fine di questa trilogia di mostre, si può tentare un bilancio dell’esperienza e del lavoro svolto. Quali pensate che siano i fili conduttori più forti nella linea che avete deciso di seguire in questi anni? Questo lavoro in tre tappe, che ha inteso l’arte come uno strumento interpretativo ibrido dell’impianto teorico di una grande pensatrice contemporanea, ha permesso di evidenziarne inedite chiavi di lettura?

BB & SF: Guardando retrospettivamente al nostro percorso espositivo – sia a quello svolto nella trilogia dedicata ad Alaimo che in quella che la precede, “Trilogia anti-moderna” – sembra rendersi evidente un interesse per quelle pratiche che hanno saputo fare una sintesi tra l’impegno concettuale-politico forte e una materializzazione sensibile molto elaborata ed efficace, che fa spesso appello a competenze artigianali, manuali o corporee obliterate, talvolta ancestrali o, il più delle volte, estromesse dai centri d’attenzione produttiva. Al di là di un interesse spiccato per i materiali di lavoro e le loro storie biologiche e sociali, in queste due trilogie abbiamo cercato di sostenere un ritorno alla figurazione e alla narrazione, cercando di comprendere come possano essere utili – più utili forse – alla conscientizzazione rispetto alla situazione di crisi complessa e intersezionale in cui la scena globale versa. Se le pratiche artistiche devono funzionare da vettore per la comprensione di presente che rigurgita millenni di aggressione alla terra e alle sue popolazioni più fragilizzate, allora devono essere in grado di assicurare accessibilità e intellegibilità, dentro e fuori il circuito stretto del professionalismo.  

FA: E adesso, cosa ci riserva il futuro? 

BB & SF: Il futuro ci riserva senza dubbio un’altra trilogia: pensare per cicli è una forma di impegno nei confronti di questioni che non possono essere liquidate con la semplice “aboutness” di un singolo progetto espositivo. La triennalità ci permette anche di evolvere e di aggiornare le nostre strategie curatoriali, ragionare con finezza e non con letteralità su ciò che stiamo articolando in quanto istituzione, permettendo alle situazioni espositive di assorbire anche influenze da parte di tutti in transiti che la Centrale ospita e in particolare quelle delle e dei fellows di Live Works che essendo affiliati a noi per un intero anno, diventano degli importanti poli di confronto critico  sulla fisionomia del contemporaneo. La dimensione collegiale delle dinamiche produttive e di ricerca di Centrale Fies richiede un formato plastico ed elastico, che possa aggiustarsi in base all’imprevisto e che sia capace di intercettare anche le nuovissime emersioni.

Cover: Undomesticated Ground. Exhibition view Théophile Peris | foto di Alessandro Sala. Courtesy Centrale Fies

Centrale Fies, Giulia Crispiani e Golrokh Nafisi, workshop Green, red and black | photo credits Alessandro Sala and Cesura Lab
Centrale Fies, Theofile Peris, workshop Wool Waulking | photo credits Alessandro Sala