ATP DIARY

Un report da Paris Photo 2025

La ventottesima edizione della fiera internazionale di fotografia, tornata dallo scorso anno nel Grand Palais fresco di restauro, concilia le proposte di 179 gallerie con svariati percorsi curatoriali mirati.
Sophie Ristelhueber, Paris Photo © Marc Domage

Testo di Emma Canali

A quasi due secoli dall’invenzione della fotografia nel 1826, un’anteprima delle celebrazioni per la ricorrenza si è già svolta dal 13 al 16 novembre a Paris Photo, la fiera che da ventott’anni si attesta come il momento cardine in cui fare il punto su storia e prospettive del mezzo fotografico. La pluralità di approcci che esso incita a adottare si è dispiegata tra le 179 gallerie, i 43 espositori, e il florilegio di percorsi curatoriali che articolano la fiera, finalmente rimpatriata nel 2024 sotto le vetrate del Grand Palais, a seguito del recentissimo restauro.              
Introdotto nel 2023, il settore Digital conta quest’anno 13 espositori (tra gallerie, piattaforme e progetti curatoriali) e indaga la diluizione dell’immagine e dei dispositivi fotografici nella presente ecologia digitale, annoverando proposte che ancorano le vertigini della Generative AI a tematiche a sfondo etico, spesso tradotte in un immaginario naturale di impatto immediato. Sulla balconata salta all’occhio, in anteprima mondiale, la grande installazione cubica A Garden dell’americano Cole Sternberg (1979). L’ambizioso progetto, in collaborazione con UNICEF e Giga (l’Unione internazionale delle Telecomunicazioni), intende trasfigurare in un variopinto giardino virtuale la lettura in continuo aggiornamento di un database che traccia l’effettiva o mancata connessione a Internet di un milione di comunità scolastiche, ciascuna associata a un dipinto digitale raffigurante specie floreali autoctone, i cui colori, qualora vividi, attestano la vitalità dell’interconnessione.

In maniera complementare, nel settore principale non mancano gallerie che danno lustro all’attualità della fotografia analogica, anche con soluzioni inedite. Il magistero della tecnica della stampa diventa performance da Bigaignon, che per la prima volta nella storia di Paris Photo predispone una apposita camera oscura. Il veneziano Renato d’Agostin (1983), adepto della pellicola e della tiratura, benché avviatosi alla fotografia negli anni del Digital Turn, vi confeziona live stampe alla gelatina d’argento di alcuni dei suoi contrastati scatti in bianco e nero. Una selezione retrospettiva di questi è visibile nello stand, che nel complesso soprassiede all’inflazione di declinazioni superficiali della fotografia come ‘scrittura di luce’, per dare risalto alle sue applicazioni più feconde. Tra tutte, spicca la serie Portraits (2025) del giapponese Hideyuki Ishibashi (1986): stampe alla gomma bicromata a partire da cianotipi, ottenuti per esposizione a diverse ore del giorno di 240 esemplari di granate di terracotta, rinvenuti come relitti in una cassa e provenienti dalla storica impresa primonovecentesca Fujihira Togei, presso la quale nel 1944 il sapere ancestrale dei ceramisti era stato devoluto alla produzione di armi.              
Da Parrotta, la tedesca Susa Templin (1965) offre un saggio sulle possibilità inesauribili della fotografia analogica a colori e della terna elementare di spazio-luce-colore. Con découpage di diaframmi colorati e traslucidi, oggetti di atelier o dettagli architettonici, Templin studia epurate quanto immanenti mise en scène dai giochi di riflessi e dalle stratificazioni di trasparenze, che danno vita a una spazialità astratta in procinto di travalicare la terza dimensione. Senza soluzione di continuità, la fotografa è approdata di recente a installazioni di pellicole ingrandite, fissate su supporti di alluminio, che sembrano le emulsioni di una vera e propria expanded photography.     
Di tutt’altro impatto formale è il solo show proposto da Flower, dove il canadese Edward Burtynsky (1955) prolunga il suo quarantennale engagement nel registrare le ripercussioni dell’industria sull’ambiente con la serie Western Australia, Recent Works (2025). Dopo una ventina d’anni, il fotografo torna a puntare l’obiettivo sulle miniere di alluminio, bauxite e argento nell’Australia occidentale. Gli effetti dell’azione estrattiva intensiva e dell’accumulo di scarti, colti da vaste vedute a volo d’uccello, svelano una sontuosa eleganza, quasi sovrumana, tanto involontaria quanto perturbante.          

Yıldız Moran, Untitled Kayseri, Turkey, 1956, archival pigment print 80×80 cm, Galeri NEV © Galeri Nev

Nella selezione di OSMOS si distingue l’americana Catherine DeLattre (1949), con due serie di fine anni Settanta, ma stampate solo di recente dalla fotografa. Componendo una sorta di dittico, Interiors Monongahela Pennsylvenia (1977-1978) e Shoppers, Broadway, Upper West Side, NYC (1979-1980) sono sufficienti per restituire l’indole di DeLattre, una colorista senza manierismi che sa prendere la misura del ‘giusto’ distacco, per compilare schiette istantanee ravvicinate di soggetti anti-gloriosi mai privati della loro individuazione. Sia che si tratti degli interni del suo appartamento d’infanzia, dal pittoricismo al limite della saturazione vignettistica, che pure lascia trapelare memorie; o dell’oltre centinaio di anziane e sgargianti passanti newyorkesi, ultime rappresentanti di una “passing generation”, come la definisce la fotografa, da lei immortalate con una TLR Mamiya per un anno all’angolo del Fairway Market.        
Da Miyako Yoshinaga si apre una parentesi di intimità con le sperimentazioni ritrattistiche dell’americana Melissa Shook (1939-2020) e del giapponese Ken Ohara (1942). Nella serie Family Portraits (1984), la prima riesce a coniugare la qualità confidenziale e domestica della Polaroid con la dignità monumentale del ritratto a figura intera, a grandezza pressoché naturale, disponendo su una cassa da trasporti amiche e familiari, che giganteggiano con tenero impaccio nelle coppie verticali di istantanee di grande formato (una per la parte superiore e una per la parte inferiore del corpo). Il secondo è noto per i primissimi piani di anonimi newyorkesi del suo progetto ONE (1970), di cui è presentata una coda con i ravvicinatissimi ritratti di registi ‘stanati’ al New York Film Festival per la rubrica Not to be missed su Harper’s Bazaar (Portraits-Film Directors, 1970). Con la serie with nel 1998 a Los Angeles, si lascia invece trasportare da una processualità contemplativa, e dilata il tempo di esposizione fino a un’ora per ritrarre i suoi vicini, allora sconosciuti, nelle loro abitazioni, e carpire l’assestarsi di un’intimità dai confronti inevitabilmente sfocati.     
Inaugurato nel 2018 e votato alla valorizzazione di artiste e fotografe, il percorso Elle x Paris Photo è soprattutto un’occasione per rimettere in luce figure storiche. Quest’anno lo cura Devrim Bayar, che dirigerà il futuro Kanal Museum-Centre Pompidou. Nev, alla sua prima presenza in fiera, dà risalto agli albori del lavoro di Yildiz Moran (1932-1995), la prima fotografa professionista turca, formatasi al Bloomsbury Technical College di Londra a inizio anni Cinquanta e attiva fino 1962, quando il matrimonio con il poeta Özdemir Asaf segna una battuta d’arresto per la sua carriera. Tra gli scatti accumulati con l’inseparabile Rolleiflex tra il 1954 e il 1958 per un reportage sulla civiltà anatolica occidentale, sono esposte le divagazioni delicate del suo sguardo poetico, scevro da didascalismi, su paesaggi e abitanti della regione.

Alicia D’Amico, From the Series Ensayo sobre la locura, Untitled, 1966, gelatin silver print, 30 x 60 cm, Rold Art © Sara Facio & Alicia D’Amico

Nello show collettivo di Rolf Art, è possibile cogliere la portata del sodalizio umano e fotografico delle argentine Sara Facio (1932-2024) e Alicia D’Amico (1933-2001) e il fluido montaggio dei rispettivi sguardi nei progetti collaborativi, spesso nati a latere di commissioni. Compagne di scuola e poi di viaggio, come borsiste a Parigi nel 1955, le due aprono lo studio fotografico DAFA nel 1960, e nel 1973, con la collega guatemalteca María Cristina Orive, fondano La Azotea, la prima casa editoriale fotografica latino-americana, che dà alle stampe i tre fotolibri di cui sono presentati svariati scatti. Corredati da una prefazione di Julio Cortázar, sono da annoverare tra le pietre miliari del genere in Sud America. Il primo, Buenos Aires Buenos Aires (1968) immortala con affezione e senza sconti i contrasti sociali e urbani insiti nella quotidianità e nelle sfaccettature meno visibili della capitale argentina, in pieno subbuglio sessantottino. Senza artifici luministici e sfruttando la prossimità offerta dalle Leica M3 e M4-Leitz Wetzlar, Retratos y autorretratos (1974), esposto al Centre Pompidou nel 1992, affronta la sfida di far affiorare l’io profondo dai volti ormai iconici dei grandi autori del Boom editoriale latino-americano degli anni Sessanta (ai quali le fotografe aggiungono l’unica autrice, outsider, Silvana Ocampo), accompagnati da confidenze in prima persona degli effigiati. Il terzo, Humanario (1976), inizialmente nato da una commissione del dipartimento di ricerca dell’Instituto Nacional de Salud Mental sulle condizioni di vita dei pazienti dei sanatori psichiatrici, compie il salto dal particolare all’universale, e divelle l’alienazione dai preconcetti, mettendo in luce gli anfratti reconditi della fragilità umana, tra le mura di architetture che sembrano fungere al contempo da gabbia e da protezione.     
Tra le tappe di Elles x Paris Photo c’è anche Isabel Hurley, con un solo show della spagnola Marisa González (1943), incentrato su due serie che indagano gli effetti della violenza, appartenenti al progetto giovanile Violencia Mujer (1975), condotto negli anni di studio presso la Corcoran School for the Arts and Design a Washington (1973-1976). Per l’artista, il soggiorno in questo contesto effervescente determina la convergenza tra la presa di coscienza femminista e l’interessamento a tecniche meccaniche di riproduzione, con annessa enfasi sulla ricerca di anomalie visive o idiosincrasie nel funzionamento dei macchinari, e sperimentazione di sostanze chimiche industriali. Con un’impaginazione seriale che non lascia scampo all’osservatore, González imprime tramite la stampa termografica primi piani contrastati e corrosi dei volti di sue sodali, artiste e docenti. Convertendo sedute di posa in sessioni di autocoscienza e azioni performative, le donne introiettano e drammatizzano testimonianze di violenza (ad esempio dalla lettura di un report su torture subite da prigioniere politiche in Cile e Iran, ne La descarga), o esprimono violenze personali (come nella serie-ritratto Lizz Williams y sus mascaras, dove una studentessa, martoriata dalla pressione sociale nei confronti della sua identità birazziale, manipola fino alla consunzione una maschera da lei realizzata).

Il settore Voices, inaugurato la scorsa edizione e ormai integrato a quello principale, è sintomatico dell’interesse di Paris Photo a incrementare l’impegno curatoriale, allargando i confini della presentazione fieristica tradizionale per introdurre soluzioni prettamente espositive. Si tratta di una vera e propria mostra nella kermesse, che raffronta due selezioni affidate a Devika Singh (Courtauld Institute) e Nadine Wietlisbach (Fotomuseum Winterthur), rispettivamente incentrate l’una sul paesaggio e l’altra sul gioco di forza e vulnerabilità nelle relazioni interpersonali (Là où nous rencontrons. Parenté ambiguë). Che la fotografia sia ormai storicamente ascrivibile all’arte contemporanea è d’altronde ribadito, all’ingresso, dal fregio di oltre quaranta metri composto da una sessantina di scatti in grande formato della quarantennale produzione della francese Sophie Ristelhueber (1949), photographe plasticienne per eccellenza, presentata da Poggi.
Sulla balconata, assieme agli editori, si susseguono i venti solo show del settore Emergence, attento a mappare la giovane creazione internazionale. Tra le proposte francesi, da HANGAR, Sylvie Bonnot (1982), membro del collettivo Tendance Floue, espone in anteprima l’ampio progetto in corso Le Royaume de Moustiques incentrato sulle trasformazioni dell’habitat amazzonico in Guyana. Bonnot ne smonta l’immaginario di ‘foresta vergine’ per mettere in immagine la realtà di stretta coabitazione tra presenze animali, vegetali e delle comunità Hmongs e Cotticas. Con approccio plasticien, tale riflessione si traduce in particolare nella serie Soulèvements, composta da fragili dittici dal bianco e nero brulicante, che sembrano cristallizzare in pezzi unici e per fragmenta una pelle ibrida nell’atto di fare la muta.

Dal settore Editors, va menzionato il premio Photobook of the Year, assegnato a Hicham Benohoud (1969) per The Classroom (Loose Joints), un progetto corale realizzato tra il 1994 e il 2002 dal fotografo e insegnante d’arte marocchino in stretta collaborazione con i suoi giovanissimi allievi, installando in classe una camera oscura improvvisata. Gioco, alienazione e inquietudine si gemellano per indagare gli slittamenti tra creatività e oppressione, affrontando in filigrana l’identità del Marocco post-coloniale.

Al termine di un’edizione che è valsa da fervente prova generale, non resta che attendere i festeggiamenti ufficiali nel 2026.

Cover: Marisa González, S/T. Violencia mujer. La descarga, 1975-1977, 40 x 52 cm, Isabel Hurley © Marisa González

Sylvie Bonnot, Soulèvements (Île Portal), Saint-Jean – Guyane, 2025, Diptych, BW photographs, silver gelatin transferred onto Fabriano paper – Unique work, 36 x 51 cm, HANGAR © Hangar Gallery, Brussels
Catherine DeLattre, From the Series: Shoppers, Broadway, Upper West Side, NYC, 1979-1980, printed by the artist in 2025, edition of 5, 15×15 ich, archival digital inkjet print on Hahnemuhle Baryta, OSMOS © OSMOS
Edward Burtynsky, Worsley Alumina Tailings #1, Western Australia, 2025, archival Pigment Print, 148.6 x 198.1 cm, edition of 3, Flowers Gallery © Edward Burtynsky, Courtesy of Flowers Gallery, London and Hong Kong