“Scavare, spostare, prendere, occupare, curare, impastare, rimuovere, sbagliare, sporcarsi le mani, resistere al mattone!”. Un manifesto concreto in uno spazio pubblico.
Mercoledi 26 ottobre alle 22.00 Xing presenta a Raum una nuova tappa di Un CCN en terre et en paille, percorso di studio della performer, coreografa e artista visiva Claudia Triozzi, nell’ambito di La Francia in scena, che rappresenta l’avvio del 5° capitolo di Pour Une Thèse Vivante, riflessione sulla scrittura d’artista partita nel 2011. La performance chiude la residenza di ricerca, effettuata in ottobre a Bologna, negli spazi di Raum.
Questo nuovo ciclo rafforza una prospettiva antropologica e bio-politica: dalle oasi del Marocco, al Brasile rurale, ai centri dell’amministrazione del potere e del sapere, in dialogo con chi lavora con le proprie mani (carpentieri, bio-architetti, abitanti di villaggi alternativi in Francia e all’estero), Triozzi (si) pone domande sincere e sfacciate, instaurando una pratica della critica e di interazione con altri processi viventi, tra vulnerabilità e resistenza. Per ogni tappa (ad oggi Casablanca, Parigi, Bologna) Triozzi propone al pubblico un solo con ospiti in cui espone il proprio modo di lavorare, condivide le sue ricerche, gli incontri e le investigazioni in forma di frammento, prima di passare all’atto scenico (che sarà attuato nel 2018). Partendo dall’interesse per la fabbricazione di ripari di fortuna in casi di calamità naturali, Claudia Triozzi costruisce una metafora della sperimentazione intesa come sopravvivenza, e dell’agire artistico come condivisione dell’esperienza.
Con questo Habiter pour créer si parte da zero, con il desiderio di immaginare un luogo semplice che risponda a una necessità ultima e primaria.
Il punto d’arrivo sarà il provocatorio CCN (Centre Chorégraphique National) creato da Triozzi: un luogo dove si instaura un’attività posta tra esperienza artigianale e sperimentazione artistica in cui attuare una drammaturgia in cui i corpi vengono messi alla prova dalle difficoltà e dai limiti della preparazione dei materiali di costruzione, un “fare quello che si può”. Un manifesto concreto in uno spazio pubblico.
Qui l’estratto di un’intervista di Smaranda Olcese e Silvia Fanti, che approfondisce la questione.
Hai creato Pour une thèse vivante nel 2011 in risposta all’obbligo per gli studenti delle scuole d’arte di scrivere una tesi per convalidare il loro diploma. Che tipo di rapporto con la scrittura ti permette di esplorare Pour une thèse vivante?
Claudia Triozzi: mi sono addentrata in questa vicenda della scrittura sia come insegnante di una scuola d’arte, che come una persona che crea. È essenziale per me mantenere un approccio di ricerca. Pour une thèse vivante ha senso solo se continu o a fabbricare in parallelo pezzi ‘di repertorio’. Il frammento ha certamente a che fare con la logica interna di Pour une thèse vivante. La realizzazione di ogni episodio implica qualcosa di passionale: tempi frammentati e più corti, materiali sviluppati parzialmente e quindi più aperti. La pedagogia, l’apertura all’altro, ma anche l’aspetto psichico – il modo in cui mi lancio nel processo creativo – sono ugualmente molto importanti. Mi piacerebbe laurearmi realmente con la Tesi Vivente in ambito universitario, ma dovrei trovare chi mi segue. In ogni caso, credo che a un certo punto bisognerà mettere in scena una discussione della tesi – con un diploma vero o falso. Ma per ora è ancora presto, ci sono altre esperienze che vorrei fare prima di poter dir e: ecco, questa è la mia tesi!
Parliamo delle dinamiche di fondo che passano attraverso i vari episodi.
La messa in tensione di tutta la dinamica tra i video, i vari materiali e gli ospiti, richiede distensione e disponibilità assoluta; presuppone un’accoglienza e l’accettazione degli incidenti che possono accadere in scena. Il lavoro si costruisce anche a partire da questi incidenti. Pour une thèse vivante è uno sviluppo di rimbalzo di ciò che succede nell’istante in cui accade. Quello che mi appassiona, in questo processo, è anche dare un senso alle cose più disparate, osservarne lo spessore, e vedere come queste cose si intrecciano, che tipo di pensie ro ne viene fuori.
Figure disparate strutturano ciascuno degli episodi di Pour une thèse vivante. Lo psicoanalista, gli artisti, il macellaio, lo scalpellino, il modello e l’asino costituiscono la trama mobile del primo episodio, creato a Parigi alla Me ? nagerie de Verre nel 2011. Un secondo episodio italiano si svolge a Raum nel 2013 con una filosofa, un marinaio di pianura, un’attrice in pensione, un adolescente. Avanti Tutta (Pour une thèse vivante) che è il terzo episodio (Me ? nagerie de Verre, 2014), ruota intorno a una vecchia starlet di Hollywood, un esperto di nodi, una mannequin, una cantante. Infine Comparses ( Pour une thèse vivante), quarto episodio creato al Louvre nel 2015, mobilita storici dell’arte e restauratori. Quali sono i principali temi che ritornano, e in base a quali declinazioni?
La questione della rappresentazione si pone sia rispetto al mondo del lavoro che alla storia dell’arte.
Le mie ricerche legate alla rappresentazione nel mondo del lavoro e ai diversi saperi e competenze sono partite già nel 1999 con Dolled Up. Ho sempre considerato il gesto in relazione a un modo di rappresentarsi, all’essere in comunicazione e in rapporto con il proprio ambiente. Di qui l’importanza della parola nei miei progetti. Si tratta di un insieme in cui il gesto è collegato ad un pen siero sul sé, a volte intenzionalmente tenuto all’interno di un modello. Cerco un pensiero in atto che consiste di tutti questi elementi. Il mio approccio rivendica anche un tentativo di abolire le gerarchie, senza però voler sostenere che siamo tutti simili, né ricercare un’omogeneizzazione. I diversi episodi di Pour une thèse vivante hanno marcato uno scivolamento dall’incarnazione su di me – in solo – dei diversi mestieri, verso gli inviti in scena di persone che praticano veramente questi mestieri, in un’ottica di passaggio dei ruoli. Ogni saper-fare apre ad un’espressività, testimonia una certa creatività. Sono anche intimamente convinta che la storia dell’arte ci attraversi, la portiamo in noi in maniera inconscia. Ci sono poi dei punti oscuri che basculano tra impulsività e fastidio. In qualche modo io stessa mi riconosco in questi stati: sulla scena attraverso momenti di disagio e di vulnerabilità. E condivido questa dinamica con i miei ospiti: facciamo quello che non sappiamo fare. Si tratta di una vera e propria metodologia: andare oltre se stessi, spostarsi, superare le proprie competenze; questi sono i luoghi in cui spesso il pensiero diventa fertile.
Parallelamente a Habiter pour créer stai immaginando il suo corollario: Un CCN en terre et paille . Come si colloca questa nuova creazione nella continuità di Pour une thèse vivante ?
Un CCN (Centre Choréographique National) en terre et en paille è un manifesto, proprio come Pour une thèse vivante, in cui la materia si arricchisce progressivamente. L’insegnamento, la riflessione, la ricerca, ora vorrei condividerle, metterle in gioco in modo pratico, estremamente concreto, nella costruzione di questo luogo. Questo nuovo episodio sarà alla fine un manifesto concreto.
Nei precedenti episodi di Pour une thèse vivante sono stati fatti inviti sulla scena. Nella versione finale del 2018, Un CCN en terre et en paille collocherà l’incontro all’esterno, nella città. Possiamo evocare la materialità di questo nuovo gesto artistico?
L’invito sarà a partecipare concretamente, letteralmente, a questa costruzione. Immagino questo Centro Coreografico in terra e paglia negli interstizi del tessuto urbano, an che se si trattasse di costruire uno spazio di soli 20 metri quadri. Potrà essere un luogo per sperimentare, per lanciare inviti a giovani danzatori e artisti.
Il Giappone, Brasile, Marocco , l’Italia rurale e certi saperi specifici di questi paesi sono fonti di ispirazione per la conduzione di questo progetto.
Del Giappone, mi piace il rapporto del corpo con spazi molto piccoli, mi piacciono i materiali, il trattamento dello spazio vuoto, la luce. Il mio desiderio è quello di andare in campagna, in luoghi dove si pratica la costruzione in terra e paglia con una lunga storia, e cercare di capire come ci vivono le persone. C’è tutta una questione attorno al corpo, all’habitat e al paesaggio.
E il Marocco?
Tutto è partito da una residenza per artisti a Casablanca. Sono stata invitata ad andare verso il sud del paese in un’oasi. Il rapporto col clima e gli elementi è molto diretto, il corpo è esposto ad essi. Mi sono appassionata a questa organizzazione della vita domestica, al posto degli animali nella vita quotidiana. Sono stata toccata soprattutto dall’intelligenza e la semplicità di questo habitat, e dall’accoglienza. Mi sono posta delle domande sui diversi modi di abitare uno spazio. Per Un CCN en terre et en paille sto cercando questo tipo di energia. Ci deve essere, prima di tutto, un accordo e l’accordo deve essere forte. Ad un certo punto si deve essere onesti con l’atto artistico. Forse alla base dell’intuizione di Un CCN en terre et en paille non c’è solo l’arte o la necessità di trasmettere, ma un desiderio intimo del mio corpo. Come per il primo episodio di Pour une thèse vivante, quando ho avuto bisogno di condividere il palco con un asino. L’ho portato in scena! La sua energia è stata molto importante per me artisticamente, ha incarnato questa persistenza che u rla “È così che me la cavo!”. Alle origini della dinamica di Pour une thèse vivante, c’è questo corpo che si fa posto, dopo diversi cicli. C erco una distanza. Ho bisogno di spostamenti.
Questi scarti che aperture permettono di prendere in considerazione?
Si tratta prima di tutto d i far crescere questa dialettica esterno/interno, qui/altrove, facendo a meno dei musei, dei centri d’arte, dei teatri. Resistere! Adesso ho bisogno che questa presa di distanza non sia mostrata solo all’interno dei miei spettacoli, ma che diventi anche un’esperienza di vita e di azione artistica. Il CCN in terra e paglia sarà un posto dove organizz are i miei cambiamenti di rotta!
Parliamo di questo altro tipo di creatività. Il termine assemblaggio è tornato spesso per specificare una delle modalità dei diversi episodi di Pour une thèse vivante.
In Marocco, ho incontrato persone che eccellono nell’arte popolare di assemblare oggetti. Si potrebbe anche sprigionare attraverso le loro azioni un pensiero filosofico, una visione del mondo. È soprattutto questa prossimità tra il pensare e il fare che mi appassiona. È un atto artistico; questo implica un processo e rimarca uno scarto dalle abitudini consumistiche. C’è molta invenzione, c’è poesia in opera nella costruzione di un oggetto quotidiano. Son o commossa da questa capacità particolare di connettersi con l’oggetto.
Per la tappa a Bologna che piste hai seguito?
Si potrebbe parlare di sensi e logiche verbali. Ho frugato in diversi archivi, incontrato un collezionista d’arte, mi sono imbattuta in disegni che ho rintracciato in ambito psichiatrico, ho indagato la cultura locale dei capanni romagnoli del delta del Po, incontrato contadini e donne al lavoro, un fabbro che fa battenti per porte… Il sapere del gesto è sempre presente, è una forma di pensiero. Ho voluto esplorare anche nuove forme di artigianato dove il corpo ha un altro ruolo, tempo e visibilità, come ad esempio dialogando con un progettista di stampanti 3D di strutture macroscopiche: hanno appena stampato la prima casa in terra, e mi domando cos’è questo artigianato senza mani… C’è anche Judith Butler che si chiede a chi spetta una buona vita, e un face à face sur la théorie de la vie.