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“Abbiamo intrecciato un po’ le varie collezioni delle quattro istituzioni, facendo vedere opere che di solito non vengono mostrate con frequenza”, ci ha raccontato Francesco Bonami introducendo la mostra, che si svolge nella Manica Lunga del Castello di Rivoli, alla GAM, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e alla Fondazione Merz.
“L’idea di tutttovero è venuta pensando a due cose: la prima è l’idea di che cosa sia vero oggi nella nostra società, in cui tutto quello che viene comunicato, mandato in onda, twittato e postato su Instagram diventa vero. Non importa se sia qualcosa che abbiamo costruito artificialmente, o se abbiamo inventato una notizia: diventa vero, concreto. Poi abbiamo riflettuto anche sul fatto che in questi giorni a Torino viene mostrata la Sindone, che è forse la metafora più forte di questa idea di ‘vero’. La Sindone di fatto è vera, perchè è lì, è presente, e poi sta allo spettatore, al fedele o all’ateo, decidere se è vera come immagine, come storia o come informazione. Sta di fatto che è lì, non importa se come testimonianza, come opera d’arte o come documentazione”.
Scarica il PDF ? #tutttovero | Intervista con Lucrezia Calabrò Visconti | ATP DIARY
Matteo Mottin in conversazione con Lucrezia Calabrò Visconti, assistente curatoriale di Francesco Bonami.
Matteo Mottin: I temi principali della sezione di Tutttovero alla GAM sembrano essere la morte e la rappresentazione che l’artista fa di se stesso. In che modo questi temi si legano al titolo della mostra?
Lucrezia Calabrò Visconti: Molto di questo legame si può intuire dal preludio della mostra, il video di John Baldessari “I’m making art”: l’abbiamo pensato come colonna sonora di tutto il percorso espositivo perché sintetizza l’atto di fede che il visitatore deve fare verso l’artista, per credere che John stia davvero facendo arte e che tutto quello che vede qui sia davvero arte. In realtà già si sdoppia criticamente l’idea di quello che l’artista sta facendo e la sua rappresentazione nell’ambito artistico, come lascia bene ad intendere la schietta ironia di Baldessari.
Troviamo temi simili, poco dopo, nelle 99 tavole di Luigi Mainolfi, che descrivono il procedimento di realizzazione di un calco del corpo dell’artista (per realizzare il quale si è fatto aiutare anche da altri grandi, tra cui Zorio e Penone): i disegni ricordano un gesto effettivamente avvenuto, in cui Mainolfi cercava di riappropriarsi del senso della pratica scultorea per poi distruggere la scultura stessa, lasciandone come traccia solamente la descrizione del processo. A rispondergli, dall’altro lato della mostra, c’è una stanza dedicata ai disegni progettuali della Mole Antonelliana, omaggio all’utopica storia di Alessandro Antonelli, che inizia con il progettare, su commissione, un tempio israelitico alto 47 metri, e progressivamente lo trasforma nella Mole, una struttura di quasi 200 metri, realizzata poi davvero, contro ogni probabilità. Ci interessava indagare il rapporto tra ciò che era stato progettato, ciò che utopicamente Antonelli ha pensato poi di fare e quello che effettivamente è riuscito a realizzare in una città come Torino, e così muoverci in quello spazio che sta tra la realtà dell’oggetto artistico e la sua documentazione, la proiezione mentale che ne abbiamo, le storie che ci raccontiamo sopra e che restano al posto dell’oggetto stesso (capisci quanto è importante questo, quando si ragiona sull’identità di una collezione). Ad esempio nella serie di fotografie storiche provenienti dalla Collezione Sandretto Re Rebaudengo si mescola un po’ la mitologia di quello che uno pensa sia la visione corretta del mondo, l’immagine da “cartolina” delle città italiane, e quello che effettivamente erano all’epoca, ovvero le documentazioni più scientifiche e realistiche che si potevano ottenere. E’ un po’ come la prospettiva di Brunelleschi: ancora oggi ci sembra uno dei metodi più realistici di rappresentare la realtà, e invece è totalmente illusoria rispetto a, ad esempio, un disegno in pianta. Una cosa che Francesco Bonami tiene sempre a sottolineare è che per quanto l’arte possa essere un’illusione, quindi un atto di fede, una metafora, alla fine è necessariamente vera, per il suo semplice esistere ontologicamente. “Torsione” di Giovanni Anselmo ne è un esempio chiaro: è lì, e hai tutto il procedimento davanti agli occhi.
Come accennavi, c’è anche un filone mortifero che si lega a questo discorso. Le tavole di Mainolfi prendono il loro titolo (MDLXIV) dall’anno di morte di Michelangelo: il fatto che l’artista abbia fatto questo calco di se stesso per poi distruggerlo ragiona sull’annuncio della morte di un certo tipo di arte, guardando però con disincanto alle sperimentazioni performative e concettuali degli anni Sessanta/Settanta – tanto quanto fa Baldessari nel video.
Nel grande dipinto di Enrico Gamba, “I funerali di Tiziano”, che richiama molto, dal punto di vista formale, il sarcofago di Mainolfi, vediamo invece la descrizione naturalistica di una storia che non si sa se sia vera, perché all’epoca in cui ci furono i funerali di Tiziano a Venezia c’era la peste, quindi era vietato realizzare una manifestazione come quella che vediamo nel quadro. Si narra di questi funerali, ma è un episodio assolutamente infondato dal punto di vista storico. Un altro elemento divertente che si aggiunge a questa storia è che nel dipinto di Gamba vediamo il pittore rappresentato e celebrato come un eroe; e di fianco a questo troviamo il ritratto di Petrolini, un semplice funzionario del Regno d’Italia. Il ritratto è stato fatto realizzare post-mortem dalla moglie, per esporlo (a pagamento) in un ospedale di Milano insieme ai ritratti di benefattori, presentandolo come uno di loro e celebrando così la storia del marito. L’uomo comune e l’eroe vengono in pratica parificati dalla morte e dall’uso dell’arte come celebrazione. Un’ultima cosa su questo: la mostra idealmente si conclude con il video di Mario Carbone, “Firenze, novembre 1966”, un documentario, che all’epoca vinse il Leone d’Argento, sullo straripamento dell’Arno del 1966 e sul salvataggio del patrimonio artistico e culturale di Firenze. Il filone del discorso sull’arte e il filone mortifero si uniscono nel salvataggio finale dell’arte…
MM: Sia l’elemento mortifero che l’atto di fede di cui parlavi prima possono collegarsi anche alla presenza della Sindone in città in questo periodo. Che peso ha avuto nella concezione della mostra?
LCV: La Sindone è stato più che altro uno spunto, però ci è sembrato assolutamente fantastico che nello stesso periodo di apertura di Tutttovero avvenisse anche l’ostensione della Sindone, la metafora più alta di qualcosa che viene creduto vero, ma ha la sua unica verità dimostrabile nel fatto di essere fisicamente presente davanti a noi. Nonostante la Chiesa abbia accettato che si tratti di un falso medievale, che quindi sia verosimile ma non reale, migliaia di pellegrini hanno invaso la città per vederla… È interessante poi che sia comunque un documento storico, anche se di un altro periodo e forse più per l’antropologia che per la Storia con la S maiuscola – un po’ come il Borgo Medievale di Torino, che in realtà è stato fatto nel Settecento. In un’epoca in cui i mockumentary sono praticamente un filone artistico a sé ci sembrava divertente ritrovare questo gioco della riproduzione e della riappropriazione culturale anche nell’arte moderna e contemporanea, e quindi riportarlo un po’ alle sue origini. Il discorso della rappresentazione si lega poi a quello dell’arte su se stessa, come nelle foto di Ontani che finge di essere Raffaello e Leonardo: ci interessava lo sguardo dell’artista su se stesso, come si relaziona alla storia dell’arte, e come decide di conseguenza anche di porsi rispetto al futuro della storia dell’arte.
MM: Di fronte al dipinto dei funerali di Tiziano avete installato una serie di sculture.
LCV: Sono sculture molto decorative, legate ad un tipo di arte in voga verso la fine dell’Ottocento, quasi tutte realizzate da Pierre Jules Mène, un semi-sconosciuto scultore francese. Come ti accennavo un aspetto su cui abbiamo lavorato molto è il modo in cui viene storicizzata la storia dell’arte, ci interessava come queste sculture potevano relazionarsi alle opere di artisti celebri come Fontana o Linck.
Una curiosità: tra le sculture ce n’è una di Sandro Cherchi, un artista anche lui poco noto di Torino che insegnava all’Accademia e che all’epoca era stato insegnante di Zorio. Nella mostra a Rivoli, alla fine della Manica Lunga abbiamo inserito due sculture di pugili, che si fronteggiano una di fronte all’altra. Quella di destra, scolpita da Messina nel 1927, è proprio un ritratto di Cherchi. L’abbiamo scoperto che l’allestimento della mostra era già a buon punto. Una coincidenza pazzesca.
MM: E proprio tra queste due sculture avete installato la Colonna di Zorio.
LCV: Si, infatti Zorio sembrava felice di essere vicino al suo maestro!
MM: Di fronte al gruppo di sculture di Mène c’è una serie di ritratti di grandi artisti del Novecento, come Casorati, Sironi, Savinio.
LCV: Sì, abbiamo pescato nell’incredibile patrimonio della GAM alla ricerca di testimoni per il funerale di Tiziano e Petrolini. Una curiosità: tra i ritratti ci sono quelli di tre vecchie, leggermente separati dagli altri, come se fossero le tre Parche della Mitologia Greca.
MM: E in mezzo queste sculture fanno da psicopompi.
LCV: Esattamente! Nel loro posizionamento, che sembra totalmente casuale, ci sono in realtà tutta una serie di rebus che ci siamo divertiti a confezionare per il visitatore attento…
MM: Per concludere, vorrei chiederti dell’allestimento “a stanze” delle opere nella Manica Lunga del Castello di Rivoli. I lavori sono disposti in gruppi che sembrano quasi formare i vari movimenti di un concerto.
LCV: Sì, hai colto un aspetto molto importante della mostra! Un elemento utile per capire l’allestimento della Manica Lunga è la stampa di Moholy-Nagy che c’è all’ingresso, “The Shooting Gallery”, che contiene molti dei ragionamenti che abbiamo fatto nello spazio. Di solito nella Manica ti trovi questo spazio architettonicamente meraviglioso, ma che non ha sorprese: entri e hai già davanti tutto quello che la mostra ti può dare. Francesco Bonami non voleva assolutamente fare divisioni fisiche o costruire pareti nello spazio, quindi abbiamo pensato a questo escamotage, di costruire degli spazi che si compongono man mano che lo spettatore si muove: non servono pareti perché sono le opere stesse a nascondere le varie stanze della mostra, addensandosi sempre di più le une sulle altre, ed è lo sguardo dello spettatore a trovare nuove prospettive sulle opere, guidato dalle opere in movimento che si susseguono a intervalli regolari lungo il percorso (Calzolari all’inizio, poi la canoa di Zorio, i lavori di Mario Airò e Rebecca Horn…) La foto di Moholy-Nagy richiama, in modo ironico e dissacrante, all’obbligata azione diretta dello spettatore nella galleria. Poi ovviamente il riferimento agli episodi recenti all’interno dei musei, alla distruzione di un patrimonio culturale, ISIS e quant’altro, è abbastanza immediato, anche se sotterraneo.
Per chi conosce un po’ la storia delle mostre c’è anche tutto un riferimento a El Lissitzky: Moholy-Nagy, nella stampa originale del ’27, si riferiva e anche scimmiottava un po’ le sperimentazioni che stava facendo El Lissitzky negli stessi anni. Lissitzky stava teorizzando infatti il cabinet, un piccolo spazio espositivo all’interno del quale, con delle strutture modulari, era il visitatore stesso a spostare le pareti e decidere come visualizzare le opere. Moholy-Nagy mette insieme questo collage da un lato replicando quello che diceva El Lissitzky, perché sta suggerendo allo spettatore di prendere in mano la situazione e di agire all’interno dello spazio, ma dall’altro lato lo sta anche prendendo un po’ in giro, ipotizzando una situazione estrema in cui lo spettatore spara alle opere (come faranno poi i situazionisti qualche anno dopo). Moholy-Nagy racconta che gli interessava molto anche il gioco di parole tra shooting come sparare e come scattare una fotografia, che ci sembrava un altro elemento fondamentale di come un visitatore vive oggi la visita ad una mostra (come qualsiasi altra cosa). Il catalogo finale di Tutttovero sarà infatti una selezione di installation shots fatte dai visitatori e spediteci o postate sui social col tag #tutttovero.
MM: Sia la mostra al Castello che quella alla GAM iniziano con un artista che si riferisce in modo critico ad un altro artista.
LCV: Esatto. Diciamo che sia Moholy-Nagy che Baldessari, anche se in modi molto diversi, stanno falsificando delle esperienze che si facevano in quel periodo. Baldessari sta facendo una performance, ma allo stesso tempo è come se stesse dicendo “davvero tutto quello che Bruce Nauman fa nello studio è arte?”
MM: Nello mostre alla Fondazione Sandretto e alla Fondazione Merz avete seguito delle impostazioni diverse?
LCV: GAM e Rivoli le abbiamo pensate, curate e realizzate dall’inizio alla fine, invece per Sandretto e Merz è stato più un dialogo con le fondazioni stesse, che poi si è rivelato molto coerente anche con gli altri due progetti. Irene Calderoni per La Fondazione Sandretto ha lavorato sul concetto di falso, partendo da una fantastica installazione di Kusmirowski in cui viene riprodotto al millimetro uno studio di registrazione in Polonia, e tutta la mostra ragiona sul verosimile e su fino a dove può arrivare la falsificazione di qualcosa per renderla quasi reale. Beatrice Merz per La Fondazione Merz ha lavorato invece sul rapporto tra Mario e Marisa Merz con tutti quelli con cui hanno lavorato, quindi su come un discorso di verità si crei nelle relazioni e nei rapporti personali degli artisti, in questo caso nel rapporto diretto di Mario e Marisa con artisti come De Maria e Kounellis, e in quelli più “astratti” con altri artisti che hanno lavorato in Fondazione in questi 10 anni, come Matthew Barney o Marzia Migliora.
Le mostre alla GAM e al Castello di Rivoli rimarranno aperte fino all’8 Novembre 2015.
Le mostre alla Fondazione Sandretto e alla Fondazione Merz rimarranno aperte fino all’11 Novembre 2015.