

Testo di Carolina Traini —
Varcare la soglia della galleria Building è come entrare in una cavità del tempo. Il calore materico delle opere di Fabrizio Cotognini cattura l’attenzione, sembrano sottratte a un archivio fantastico, un bestiario eretico, un atlante impossibile. L’aria che si respira e che si percepisce all’interno sembra contenere misteri, così come le opere esposte: i disegni minuziosi, gli ex voto gotici, i dettagli calligrafici. E poi l’oro, che vibra silenzioso ovunque, come un mormorio antico. E’ come attraversare un tempo stratificato, denso, dove la materia stessa sembra carica di storia, mito e malinconia. Le opere non si offrono mai in modo diretto, ma sussurrano, vanno guardate con attenzione, quasi in silenzio, come si fa con i libri antichi o le carte dimenticate in una biblioteca.
“TransitUM”, curata da Marina Dacci, è molto più di una mostra personale: è un rituale di passaggio. Non solo per l’artista – sempre più consapevole della natura processuale e transitoria del suo lavoro – ma per chi guarda. È il visitatore stesso a essere chiamato al “passaggio”: dall’immagine alla visione, dalla materia al mito, dal documento all’allucinazione.
Cotognini lavora come uno studioso-mago: recupera immagini, documenti, incisioni del passato e le altera con gesti chirurgici, a volte minimi, a volte violenti. Ma mai didascalici. Il suo è un linguaggio che attraversa i secoli, e che pur affondando nel barocco, nel Rinascimento, nell’alchimia medievale, parla esattamente a questo presente incerto, frammentato, ansioso di senso.
I disegni – quasi sempre in bianco e nero, spesso su supporti arcaici del XVIII secolo – sono accompagnati da reliquie, tracce, reperti che mischiano vero e falso, memoria e finzione. In mostra si alternano opere su carta, installazioni di libri, oggetti devozionali e frammenti architettonici che sembrano sopravvissuti a un naufragio barocco. Il risultato è un linguaggio visivo sofisticato, ma mai freddo: ogni opera è come una soglia, un invito a oltrepassare la superficie per sondare lo spazio interiore in ognuno di noi.
I concetti di trasformazione, memoria, identità e conoscenza, infatti, sono alla base dell’intero progetto di Cotognini, modulati su più livelli: la trasformazione intesa come dimensione evolutiva si Sé, ma anche come processo alchemico di mutazione della materia, in particolare dei metalli; ancora più profondamente la trasformazione intesa come metafora del proprio percorso verso l’autorealizzazione.



Ma anche l’unione tra il cielo e la terra, tra il mondo divino e quello umano, simboleggiato dai micro calchi in bronzo di uccelli – Hybridatio Mundi (2024-2025) – che si depongono negli spazi della galleria, sparsi nel percorso espositivo dei tre piani interni; i volatili incarnano per eccellenza la rinascita e il mutamento che l’artista vuole veicolare.
Al cuore della mostra c’è un’operazione concettuale potente – il sacro, il politico, il personale: Cotognini non propone semplicemente immagini, ma icone instabili, segni che rifiutano la fissità del significato. Ogni elemento è potenzialmente molteplice, ogni narrazione si spezza e si riformula. Eppure, tutto è profondamente coerente: l’oro non è solo ornamento, ma soglia simbolica; i frammenti di testo non sono decorazione, ma atti poetico-politici; i corpi raffigurati sono spesso mutilati, incatenati, o in atto di metamorfosi.
C’è una tensione sottile tra il desiderio di trattenere il passato e la consapevolezza che ogni gesto, ogni tratto, è destinato a sparire. Da qui, forse, il titolo della mostra: TransitUM – participio passato perfetto latino che suggerisce passaggio, ma anche un possesso ambiguo del transito. Di chi? Per chi?
Nelle opere si avverte la nota personale, viscerale, le forme si fanno più astratte, la composizione si tende. Sembra che Cotognini stia cercando un nuovo lessico, una scrittura che sfugga alla calligrafia e diventi respiro, ritmo, eco.
L’allestimento, misurato e mai invadente, scandito con sensibilità da Marina Dacci, accompagna lo spettatore: quattro sale, ognuna come una piccola camera della memoria, dove ciascuna opera sembra chiedere tempo e silenzio per essere compresa. Alcuni lavori appaiono emergere dalle pareti, come se lo spazio stesso della galleria fosse stato costruito attorno a loro, come se fossero stati pensati esattamente lì.
Non c’è didascalia che imponga interpretazioni: il testo è minimo, quasi afono. A parlare è il linguaggio lento dell’oro, della carta, delle cuciture. In questo silenzio controllato, la mostra si rivela pienamente. Non serve conoscere ogni riferimento erudito o ogni fonte d’ispirazione per farsi colpire. È sufficiente lasciarsi attraversare.
“TransitUM” non è una mostra da vedere. È una mostra da attraversare, da lasciar sedimentare. Fabrizio Cotognini da prova di essere un artista-filosofo, un archeologo del possibile, capace di trasformare ogni opera in un’esperienza sensoriale-intima di riflessione.
Non c’è nostalgia nel suo sguardo sul passato: c’è lotta, c’è reinvenzione, c’è politica. E c’è bellezza – una bellezza imperfetta, ferita, ma per questo ancora più urgente.






