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Trame: Realtà, Arte, Cinema, Invenzione | Intervista con i curatori

[nemus_slider id=”61980″] — English text below E’ stata inaugurata pochi giorni fa Trame: Realtà, Arte, Cinema, Invenzione, prima mostra del nascente polo per l’arte e la cultura contemporanea ospitato allo Spazio Marat a Bari. Curata da Francesca Girelli e Davide Quadrio,  Trame sarà visibile fino al 5 Febbraio e ospita le opere di John Akomfrah, The […]

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E’ stata inaugurata pochi giorni fa Trame: Realtà, Arte, Cinema, Invenzione, prima mostra del nascente polo per l’arte e la cultura contemporanea ospitato allo Spazio Marat a Bari. Curata da Francesca Girelli e Davide Quadrio,  Trame sarà visibile fino al 5 Febbraio e ospita le opere di John Akomfrah, The Atlas Group, Yto Barrada, Rossella Biscotti, Ho Tzu Nyen, João Penalva, Thomas Sauvin e Wu Tsang. Il progetto intende esplorare, attraverso installazioni e proiezioni il modo in cui l’arte e gli artisti rispondono alla sfida dei media, di internet, della tv, dei documentari e della fiction, e per esplorare i territori di confine, formali e morali, tra verità e finzione.

Segue l’intervista con i curatori

ATP: Il titolo di questa mostra può essere interpretato in due modi: positivo, in quanto insieme di tante storie intrecciate, negativo, se letto come un intrigo fatto di macchinazioni e maneggi.  Probabile che, se vogliamo trovare una “verità”, questa stia in mezzo… Con quali motivazioni avete pensato a questo titolo?

Francesca Girelli e Davide Quadrio: Abbiamo scelto Trame appunto per questa sua duplicità di significato. Il titolo dell’edizione precedente della mostra, che presentammo a Shanghai nel 2015 presso OCAT, era Crossovers, a indicare appunto narrazioni che si sovrappongono, che mutano e si rimescolano. La verità non sempre sta nel mezzo però. Le opere di questi artisti ci dimostrano come talvolta le storiografie ufficiali siano quanto di più artificiale ci si possa immaginare, e come storie assolutamente veridiche si siano semplicemente perse con il tempo perché scomode o comunque non funzionali a determinate finalità politiche. Non è sempre una negoziazione tra vero e falso, positivo o negativo. Rubando una battuta a uno dei film di Ho Tzu Nyen in mostra, Utama, “chi cerca la verità trova solo miraggi”, e quello che più ci può avvicinare alla verità è la consapevolezza che le narrazioni sono soggette a continui mutamenti.

ATP: Nel testo di presentazione della mostra, si specifica che, per riportare a galla vicende escluse dalle storiografie ufficiali, gli artisti si avvalgono di percezioni sensoriali, empatia, ritratto psicologico e seduzione estetica. In merito a questo ultimo “strumento”, quale opera in mostra seduce (ingannando) lo spettatore?

FG / DQ: Un’opera in particolare che inganna lo spettatore è Kitsune di Joao Penalva. Negli ultimi anni l’artista ha prodotto una serie di film in cui dimostra le strategie con cui sono presentate, e in molti casi stereotipizzate, le culture che non ci appartengono. In questi lavori i copioni, scritti in inglese da Penalva, sono tradotti e poi recitati in una lingua per lo più estranea allo spettatore –nel caso di Kitsune il giapponese. Il testo inglese appare poi nei film come sottotitolato, facendoci credere quindi che la lingua originale del copione sia quella che sentiamo nel parlato. La camera è sempre fissa, e la rigidità dell’inquadratura fa subito pensare alle telecamere di sicurezza che riconduciamo, inconsciamente, alla registrazione della realtà più che alla ricostruzione e invenzione filmica. Senza rendercene conto associamo la voce fuori campo all’immagine sullo schermo, collegandola a una determinata provenienza geografica. Le montagne nebbiose che appaiono in Kitsune ingannano lo spettatore richiamando immediatamente l’estetica di certi paesaggi nei film di Kurosawa, e in generale immagini legate al Giappone che sono entrate nell’immaginario collettivo globale. Mentre due voci fuori campo conversano per un’ora in giapponese, lo spettatore che ascolta, e segue al contempo i movimenti della nebbia che avvolge le montagne, è totalmente proiettato nella familiarità dello stereotipo di una cultura estranea. Penalva rivela solo alla fine del film che le immagini sono state in realtà girate in Portogallo.
Oltre a Kitsune ci sono altre opere in mostra che impiegano una seduzione estetica lasciando poi il campo a un capovolgimento di senso, come per esempio Pharmaceutical Dreams di Rossella Biscotti. Le immagini presentate sono derivate da cartoline che i laboratori di una casa farmaceutica americana spedivano a ospedali e medici come materiale promozionale del Penthotal, un potente barbiturico. Il farmaco, conosciuto anche come siero della verità, viene ancora oggi adoperato nella preparazione delle iniezioni letali come anche per estrarre informazioni da soggetti che non possono o non vogliono parlare. Le immagini delle cartoline richiamano paesaggi esotici come a indicare la capacità del farmaco di trasportare in un mondo paradisiaco, e la loro presenza estetica è in netto contrasto con la parte più cinica e spietata del prodotto che vanno a promuovere.

Trame. Reality Art Cinema Invention,   installation view. Curated by Davide Quadrio and Francesca Girelli,   9 December,   2016 – 5 February 2017,   Comune di Bari - Spazio Murat
Trame. Reality Art Cinema Invention, installation view. Curated by Davide Quadrio and Francesca Girelli, 9 December, 2016 – 5 February 2017, Comune di Bari – Spazio Murat

ATP: Il sottotitolo della mostra “Realtà Arte Cinema Invenzione”, abbraccia tanti aspetti dell’esistere legati alla finzione: la realtà è da sempre un topos inafferrabile; l’arte, nel suo senso originario è possesso della tecnica, ma anche la capacità di interpretare; Il Cinema è.. invenzione della realtà.. Insomma un sottotitolo che per certi aspetti apre l’intero progetto all’abissale regno dell’ambiguità. Mi date raccontate il bisogno di specificare questi ambiti?

FG / DQ: Molto semplicemente il sottotitolo introduce in quattro parole il denominatore comune di tutte le opere in mostra. Sono lavori che considerano fatti storici concreti e vi conferiscono una nuova identità visuale attraverso la ricostruzione cinematografica, o che utilizzano materiali d’archivio per raccontare storie inventate attraverso immagini “reali”, appartenute a un determinato contesto socio-politico.
Il cinema è un concetto chiave della mostra e della presentazione delle opere. Circa metà dello spazio espositivo è concepito come una sala cinematografica, dove i lavori degli artisti sono presentati ad orari determinati, come appunto in un cinema. Il film è lo strumento principale di comunicazione per quasi tutti gli artisti in mostra e, nel contesto delle narrazioni e memorie collettive, volevamo ricreare l’atmosfera di condivisione della proiezione cinematica per contrastare la tendenza al “consumo personale” e alla relazione uno-a-uno che abbiamo con i dispositivi mobili quali il laptop, il cellulare e il tablet.

ATP: Con quale criterio avete scelto gli artisti?

FG / DQ: Più che sugli artisti ci siamo concentrati sulla scelta di determinati lavori; sono tutte opere che parlano tra di loro, che riecheggiano mutualmente creando percorsi inaspettati all’interno della mostra. Naturalmente le opere riflettono poi gli interessi e la pratica degli artisti che le hanno concepite, e tutti –anche se con scelte formali diverse, così come varie provenienze geografiche e culturali– hanno un interesse per le strategie di sopravvivenza e resistenza nei confronti della manipolazione storiografica, e la volontà di capire e smascherare le motivazioni che si nascondono dietro determinate scelte narrative.

ATP: “La mostra diventa un’occasione per riflettere sulle problematiche che ci portano ad avvicinarci sempre di più alla narrazione visuale rispetto a quella logocentrica”. Mi fate degli esempi su come gli artisti riescano in questa ardua sfida?

FG / DQ: Questa in realtà più che una sfida che l’artista deve vincere sembra essere una reazione che risponde a una situazione esistente, e che trascende il campo artistico. Le narrazioni visuali sono una parte fondamentale dei meccanismi di comunicazione che popolano la nostra vita quotidiana, sempre più centrati sulle immagini. I social media prediligono la rappresentazione visuale rispetto alle parole, e le narrazioni biografiche nei nostri account si sviluppano in tempo reale attraverso una serie di immagini, le cui didascalie hanno spesso un numero limitato di caratteri. Allo stesso tempo la quantità d’informazioni che processiamo ogni giorno fa sì che la nostra attenzione sia sempre più volatile. Nei blockbuster che popolano i cinema i dialoghi si stanno mano a mano riducendo per lasciare spazio a scene d’azione. Per questo il lavoro degli artisti sulla storia e sulla formazione della storiografia è particolarmente rilevante: lavorando con le immagini e con le emozioni che queste suscitano, l’artista entra in una dimensione dialettica che allo spettatore risulta in qualche modo familiare e diretta.

John Akomfrah,   The Nine Muses ,   Video HD,   colore,   suono,   92’,   2010 - Courtesy the artist and Lisson Gallery,   London
John Akomfrah, The Nine Muses , Video HD, colore, suono, 92’, 2010 – Courtesy the artist and Lisson Gallery, London
Ho Tzu Nyen,   The Name,   Single Channel HD projection,   surround sound,   23’,   2003
Ho Tzu Nyen, The Name, Single Channel HD projection, surround sound, 23’, 2003

TRAME

Curated by Francesca Girelli and Davide Quadrio
Spazio Marat, Bari

“The future is known. It’s the past that keeps changing.” This saying, widely popular in the former Soviet Union, encloses a simple as inevitable truth: the one which rules the relationship that power tends to establish between past and future. It refers to the compulsive manipulation of history books during Stalin’s purges, hinting ironically to the process by which one who owns the past, is granted a certain degree of appropriation of the future.
The artists who take part in this exhibition unmask the strategies used by power to reshape historical narratives in order to impose factious readings. In this context, by means of tools such as sensorial perception, empathy, psychological portraiture and aesthetic suggestions, the artists embrace revisionist practices which unearth – willingly or unconsciously – events previously left out of official historiographies.
The narratives at the core of their works are threads, pulled cautiously out of the complex fabrics of which collective memories are made of. The Trame to which the exhibition is entitled are tales enacted from the top of society to its basis, here deconstructed and analysed so to unveil the relativity of their veracity.

The exhibition’s study of the construction and power of narration, and of its short and long-term effects, is today of particular relevance. In the current international debate observing the tight relationship between technology and information, we are witnessing the rise of new generations of plot weavers, such as the algorithms that pull the threads of social media. With a vast knowledge of our tastes and interests, they provide tailor-made narratives, flattering our ideologies and beliefs, and limiting the information we can access to what would be, according to them, more convenient for us to see and hear.
The featured works do not address historical facts per se, but their collateral damages, the strategies of survival, and in some cases of resistance of those who, despite their will, gravitated around their epicentre. The recurrence of certain formal choices in the production of the selected artworks waves more leading threads, exemplifying and replicating the mechanisms of construction of history and myths. Firstly, the use or assemblage of historical archives, at the core of Akomfrah, Barrada, and Sauvin’s practices, but also the psychological analysis of landscape and environment, which is present in the works of The Atlas Group, Biscotti, and Penalva.
Along these elements, the process of manipulation of memory echoes strongly that of film editing, another main character of the exhibition, which relies on narrative strategies such as the voiceover, audible in most of the videos, or the combination of visual experimentations and biographical reconstructions of historical-mythological characters, like in Wu Tsang and Ho Tzu Nyen’s cases.
The exhibition becomes an occasion to reflect on those issues that are increasingly leading us towards visual narratives as opposed to logocentric ones and, in parallel, on the role of the moving image in the context of contemporary art. Albeit the centrality of the video in today’s practices has been a widely discussed topic at a global level, museums and galleries often present filmic artworks in uncomfortable and precarious situations, which do not encourage the full-length vision of the piece. For this reason, Trame offers the public a traditional experience, a therapy of surrender and abandonment to the time the big screen claims in order to counterpoint the progressive atrophy of our attention span, an effect of the bombing of information we are exposed to on a daily basis. The exhibition creates an immersive situation in which to relive the collective dimension of the projection, an experience which is inversely proportional to the propagation of the obsessive one-to-one relationship with the small screen – from television to laptops, tablets and smartphones.

Artists’ videos contribute to what is defined as time-based art, in which the work itself dictates the timing of the spectator’s fruition and perception. Watching the integral version of a filmic artwork allows us to accept the artist’s conditions, which suggest to respect the expected duration for the efficient communication and comprehension of a theme, an idea, a feeling, a message. Trame is a conceptual and sensorial reflection on time and its multiple forms and declinations. With their works, the artists pave the way for a world where the past is always transforming, and the future is a conglomerate of conjectures in the process of becoming. The present, where these two dimensions meet, exists live in the spectator’s perception, which synchronises to the timelines created by the film editing. The present coincides with the narration flowing before our eyes, instant after instant.

Francesca Girelli and Davide Quadrio

Thomas Sauvin,   Beijing Silvermine - La miniera d’argento di Pechino,   2009–2016 -  Image courtesy of Thomas Sauvin
Thomas Sauvin, Beijing Silvermine – La miniera d’argento di Pechino, 2009–2016 – Image courtesy of Thomas Sauvin