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Testo di Stefano Mudu
Per scrivere di Time Is Out Of Joint ad oltre sei mesi dalla sua inaugurazione, ci si rassicura con le parole di Cristiana Collu. Riparata sotto l’intraducibilità del verso shakesperiano – secondo cui il tempo è sconnesso, disarticolato, fuori squadra – anche la direttrice si permette una disobbedienza che è sperimentazione: quella di manipolare il tempo sovvertendone il consueto andamento cronologico-lineare.
Non per tutti l’operazione è una novità. Ma lo è invece (ed è estrema) quando avviene in Galleria Nazionale, dopo tanto tempo stimolata da un progetto meno didascalico che diventa stravaganza, polemica, dibattito. Lasciamoci rassicurare invece; garantiamo spazio alla novità in una continuità che merita di essere, come sta dimostrando, produttiva. Un merito, per Time, non solo concettuale ma allestitivo: finalmente l’accostamento è leggibile, vero, spesso ironico e mai guidato (solamente) da raffinati giochi estetici.
Piuttosto: Time è uno splendido lavoro di montaggio che procede per immagini e suggestioni; che corre il rischio
di accostare alle opere dei grandi, storicizzati maestri dell’arte, quelle dei più contemporanei italiani e stranieri. È l’esuberante utilizzo della memoria come strumento che genera citazioni, assonanze e rimandi.
E nel suo dispiegarsi per anacronismi, il tempo si racconta confrontandosi con ciò che ha prodotto, dichiara apertamente il suo essere intreccio piuttosto che linea, racconta che ogni produzione è lo specchio del tempo di cui è stata contemporanea.
A guidare i rimandi più fuoriposto sono le statue neoclassiche della collezione. Non solo sono distribuite senza essere segregate nel solito, inflazionato ingresso di un percorso espositivo cronologico, ma hanno anche la sfacciataggine di darci le spalle, intente a contemplare le opere dei maestri che saranno loro futuri. Così la Cerere (1839) di Antonio Solè osserva attentamente uno dei Concetti spaziali (1954) su fondo nero di Fontana, o la Psiche Svenuta (1869) di Tenerani potrebbe aggravare il proprio malore alla vista de La Poupée (1934) di Bellmer che ha di fronte, o un Giove (1838) senza tridente di Pietro Galli sembra giudicare la geopolitica colorata della Mappa di Boetti. È invece uno stesso (paradossale) tempo a dettare la forza espressiva delle assonanze: prima quello del mondo, poi quello dell’uomo e infine quello della storia politica, inesorabile prodotto dei primi due.
Strappa un sorriso la stasi degli oggetti animati di Luca Rento, proposta in provocante dialogo con la natura, altrettanto placida, delle vacche Alla Stanga (1884) di Segantini o delle Ninfee rosa (1897) di Monet. Così una copiosa pipì di bovino intitolata Mattina (2012) e un dittico apparentemente immobile con le famose – ma vive – Ninfee, eternizzano una porzione di tempo di cinque e quattordici minuti, rispettivamente.
Rassicura meno la quantità di tempo (e di spazio dedicato nella Galleria) che l’uomo dedica alla guerra. Ce lo ricorda uno slow-motion in costume ad opera di Cristine Lucas: dove il mito della guerra, lo stereotipo della Liberté raisonnée (2009) si confronta con le gigantesche cronache di Michele Cammarano, ricordando come la guerra risulti più una piece teatrale, nell’immaginario di chi non la fa. Piuttosto vera è invece l’immagine di chi l’ha combattuta, nelle foto di Gohar Dashti, di chi è scappato, in un trittico video-fotografico eloquente ad opera di Adrian Paci, o di chi si è imposto, nei cartoni preparatori per il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza.
Ma sono Liliana Moro e Berlinde de Bruyckere a ricongiungerci alla natura, smascherando gli impulsi della guerra come quelli più triviali, in linea diretta ereditati dall’istintività animale. I cinque pitbull di Underdog (2005) raccontano del cane come metafora della macchina da guerra, di un conflitto primitivo e di una sopraffazione che porte alla morte. La stessa che ha coinvolto i cavalli di We are all flesh (2011-12), risultato di una violenza cruda e perentoria, comune destino per l’uomo e l’animale sia nell’opera di Bruyckere sia nella materialità dei lavori di Burri con cui si confronta.
Di un nuovo respiro allestitivo, è informata anche la grande sala canoviana. Qui il tempo in potenza di Ettore e Lica (1795) si riflette letteralmente nei 32 mq di mare circa (1967) di Pascali, perdendo di classicità così sottoposto ai cambiamenti di una riflessione incontrollabile. Costruito sulla griglia, lo specchio di acqua e anilina sembra sfidare i pannelli infilzati della Spoglia d’oro su spine d’acacia (2002) di Penone che, quinta scenica del lancio del povero Lica, supera di quattro unità di misura le infinite possibilità di mare.
Time Is out of Joint punta poco sull’aggiunta di opere nuove, piuttosto padroneggia sapientemente una densità di materiali che cessa di essere eredità da conservare diventando identità da costruire. Forse l’anacronismo è l’unico filtro per rendere possibile una disamina del passato, ma la memoria l’unico aiuto che ci viene dato per riordinarlo e dunque, perdonarne gli azzardi.
Time is out of Joint
11.10.2016 — 15.04.2018
La Galleria Nazionale Roma