Entro nell’appartamento in Via della Spiga 48 con la luce di una candela. Entro in un modo insolito, direi quasi romantico, attraverso il racconto di Fabio Cherstich, il regista e scenografo invitato dalla curatrice Cloe Piccoli a intervenire in modo autobiografico e “romanzato” alla mostra There’s No Place Like Home: una collettiva di artisti invitati a dare una personalissima visione del concetto di ‘casa’, visitabile fino al 23 maggio 2025.
Per introdurre la mostra Cherstich parte dal racconto del proprietario dell’appartamento che la ospita, il collezionista Matteo Bay, situato in un palazzo ottocentesco nel centro di Milano, tracciando così un personalissimo percorso espositivo.
La mostra è ospitata negli spazi di CIRCOLO il project space dedicato all’arte contemporanea e al design della Saikalis Bay Foundation ETS, nata dai collezionisti Nicole Saikalis Bay e dallo stesso Matteo Bay.
Entriamo dunque con le parole nella mostra, prima che con la visione delle opere, per afferrare quello che è l’intento curatoriale della Piccoli: dare una visione a tutto tondo del concetto di dimora “intrigante e disfunzionale, classica, accogliente, seducente ma anche scomoda e politica.” Ecco allora che la scelta di raccontare la mostra, prima che vederla e attraversarla risulta una scelta non solo azzeccata, ma anche coerente con l’intenzione di dare al concetto di casa e domesticità una nuova identità, un nuovo significato e lo fa, per certi versi, partendo dalla decostruzione dei suoi valori e significati: luogo che protegge, essenza di valori patriarcali, etero-normative che gli hanno sempre dato un verso e una sostanza. Smantellando le classiche dinamiche di significazione, scegliendo un racconto estemporaneo ed emozionante, le narrazioni raccolte da Cherstich sono il risultato di relazioni amicali, dialoghi estemporanei, scambi di email, telefonate a tratti surreali, facendo diventare la mostra non solo un dispositivo da guardare ma da vivere, ascoltare, un campo di forze dove empatia e immedesimazione diventano gli strumenti più adatti per comprendere le opere, capirne la gestazione e condividerne gli intenti.
Cloe Piccoli, coerente con l’idea di dare una nuova visione di ‘casa’ a tutto tondo, ha invitato tre generazioni di artisti italiani che gravitano tra Milano, Berlino, Zurigo e Ginevra; diversi per sensibilità e formazione, eterogenei nell’esprimere gli artisti hanno restituito un’idea di casa a volte decisamente avulsa dalle nostre aspettative, chi focalizzandone i paradossi, chi rifuggendo l’idea di ‘nido’, altri, invece, dandone un’interpretazione quasi intima e sentimentale. Gli artisti che si sono confrontati in questo ambizioso progetto sono: Alessandro Agudio, Antonio Allevi, Fabio Cherstich, Caterina De Nicola, Elisabetta Laszlo, Beatrice Marchi, Emanuele Marcuccio, NM3, Gianni Pettena, Markus Schinwald, Davide Stucchi e Sabrina Zanolini.
“Il frutto di questa mostra non parte dall’intenzione di rappresentare, ma è ispirazione, istigazione, visione e invenzione. L’arte è processo e partecipazione. There’s No Place Like Home è un modo di dire che suona famigliare, rassicurante ma anche ambiguo, ironico e minaccioso. Sono cresciuta in una casa d’artisti, con madre e padre artisti, dove questo senso di scoperta, intrigante e sorprendente, si respirava con l’aria!” Con queste parole di Cloe Piccoli, lette da Cherstich, entriamo in mostra con un’idea tutt’altro che definita, con una propensione più di scoperta e rivelazione che una canonica visione passiva.
Fin dalla prima sala, praticamente al semi buio, inizia il racconta del regista che, inventandosi il gioco di puntare dei fari di luce sulle opere, ne da così una visione parziale ma anche più intima, raccolta. Tra i tanti racconti nati con e attorno alla mostra, alcuni si sono rivelati particolarmente coinvolgenti.



Tra questi, quello che apre idealmente l’esposizione di Alessandro Agudio che presenta la serie di installazione ‘Fioriera’ del 2023. Cherstich, parlando di relazioni ‘magiche o casuali’ avvenute nei suoi scambi con gli artisti, rivela la coincidenza tra il suo voler illuminare la mostra con delle torce elettriche e la presenze di torce nei cassetti che compongono le totemiche fioriere di Agudio.
“Ho da pochi tempo terminato di produrre la serie di astronavi di legno su una spiaggia brasiliana. Quella che doveva essere l’ultima, l’ho chiamata ‘La più famosa astronave di legno’. Le immagino tutte insieme in quella ‘salamoia di luce e cicale’ che Gadda descrive ne La cognizione del dolore, di una Brianza pseudo-sudamericana…quella che frequentavo quando andavo all’Istituto d’Arte. Gadda, quella Brianza, come me, l’ha odiata. A me ha dato il primo lavoro in un club di fitness; tenevo dei corsi di acquagym a Vedano al Lambro. Il mio lavoro mima forme resistenti, utilizza quelle forme di design che si è poi spalmato sul panorama creativo nazionale. Mi sono messo nei panni di un collezionista con ansia da prestazione, ho immaginato una living room suadente ed è venuto fuori una cosa più simile ad un dressage di certi sanitari. Ho cercato di padroneggiare i prodotti e i progetti con la sicurezza di un architetto da aperitivo perchè le forme che creo sono collage fatti di incastri e dettagli da dilettante. Hanno una sofisticatezza di facciata come gli abbellimenti musicali che sono sempre il giusto compromesso tra efficenza e frivolezza.” Racconta così la genesi di queste opere Agudio, che spiega che i legni utilizzati per Fioriera I (La Giocosa), Fioriera II (La Borsani) e Fioriera III (La Sciatta) sono quelli dei mobili della stanza da letto che lui condivideva con la sorella, la stanza dei genitori e la sala, “sono parti dello scenario che ho chiamato Residence Acquario che poi è il nome del complesso residenziale dove si è trasferita la mia famiglia nel 1985. Avevo tre anni e quei mobili erano parte delle mie meraviglie ed ora non volevo staccarmene, anzi per me costruire questi vasi-fioriere o, prima ancora, separare, gettare via o archiviare per poi rimodellarne la forma, mi ha permesso di lasciarli andare e a prenderne la dovuta distanza.”
Cherstich presenta la prossima ‘storia’ premettendo che l’artista è un suo carissimo amico, artista di cui segue il lavoro da parecchi anni. L’artista Davide Stucchi ha inviato un messaggio vocale, ignoro che l’avremmo ascoltato in mostra. La sua presenza è indiziale, fatta di piccoli e mimetici interventi come delle mascherine per le prese elettriche a specchio o il prelevamento di un vero e proprio citofono installato in una parete dello spazio. “In mostra da CIRCOLO ci sono tanti lavori perché sono piccoli e si sono nascosti tutti come sempre. Sono un po’ più difficili da trovare, rispetto agli altri, ci vuole un po’ più di arguzia, di logica!” Davide Stucchi, non senza ironia, racconta le sue opere From The Other Side, 2024, Light Swirch 2025 – “interruttori disseminati un po’ ovunque, che hanno il potere di riflettere gambe, mani, la luce intorno. Sono dei dispositivi per assorbire ma anche rigettare tutto ciò che è dentro alla casa. Sono dei motivatori, così come il citofono…” – soffermandosi soprattutto su Jules et Jim (Jim), 2025, Jules et Jim (Jules), 2025: due sedie girevoli IKIEA per cavi aggrovigliati con due lampade che (“per puro culo!”) sono state inserite nei fori. Le sedie, non più in produzione, si chiamano Jule e da qui l’idea di fare riferimento al film del 1962 di François Truffaut omonimo, anche se l’artista non lo ha visto! “Una situazione amorosa complessa”. Sciocco, conturbante, naïf, l’intervento di Stucchi sembra ‘posarsi’ lieve tra gli interstizi della mostra.



Tra i giovanissimi, anche due presenze di un’altra generazione: Gianni Pettena e Markus Schinwald. L’artista austriaco presente per la sua determinata e sistematica pratica di decostruzione dello spazio architettonico e dei mobili che lo abitano, mentre Pettena è stato scelto da Piccoli in quanto ideatore del significativo progetto The Ice House (Salt Lake City, 1972), con cui sfida l’idea di casa mono famigliare rassicurante per riflettere su un’idea architettura in sintonia con la natura.
“Pettena, più radicale degli architetti radicali, negli anni ’70 scrive il libro ‘L’Anarchitetto’, dove racconta come la natura sia molto più architettonica, costruttiva e creativa di qualsiasi altro architetto. Come dire? L’architettura non ci serve. Come simbolo di questo suo pensiero, a Minneapolis realizza l’opera The Ice House in cui sceglie una casetta anonima di un altrettanto anonimo quartiere di Minneapolis per costruire e dare indicazioni su come costruire una casa di ghiaccio; la natura si riappropria dell’architettura”, spiega la curatrice Piccoli.
Tra artisti e architetti anche lo studio NM3, design agency fondata a Milano nel 2020 da Nicolò Ornaghi, Delfino Sisto Legnani e Francesco Zorzi, instilla identità contemporanee nell’acciaio inox. In mostra presenti con due sedute e il lungo mobile in acciaio NM25 custom, 2025 che ospita l’opera di Sabrina Zanolini Notes on excellence 2024, opera introdotta dall’artista con il brano musicale di Miley Cyrus, The Climb. Notes on excellence consiste in un libro di interviste che l’artista ha fatto a persone che ha incontrato e che lei ha voluto premiare per la tenacia con cui hanno perseguito degli obbiettivi. Il giorno dell’opening, negli spazi dell’appartamento in Via della Spiga, si è svolta la performance sempre ideata dalla Zanolini Roommates, 2025: delle presenze inquietanti di ragazzi, per lo più fermi in una posizione rilassata – chi per terra, chi appoggiato ad un muro, altri in piedi – che, incuranti della densa folla di visitatori, non facevano altro che fissare un punto indistinto dello spazio con uno sguardo corrucciato, scapricciato, sicuramente non empatico. L’artista, ha compiuto un intervento di make up o mascheratura, sulle espressioni mimiche dei volti, immobilizzando un’espressione tra l’adirato e l’aggressivo: i giovani visi dei performer manifestavano una rabbia congelata, un’ostilità artefatta e immotivata. Ponevano domande sull’adolescenza, sul rapporto genitoriale, sull’aggressività più o meno repressa della società contemporanea? Domande aperte e insolute. Decisamente uno delle opere tra le più intriganti della mostra.
Emanuele Marcuccio è presente con quattro opere su acciaio inox verniciato a polvere. Le opere sono il frutto si un processo ‘freddo’, nel senso che sono state progettate e pensate dall’artista, ma per l’effettiva realizzazione, spiega Piccoli, “ha lasciato che la produzione (industriale) prenda il sopravvento; chi produce determina la forma e la definizione dell’opera. L’artista fa un passo indietro, la sua autorialità è messa in discussione”.
Proseguendo il racconto, Cherstich chiama in diretta da Berlino Beatrice Marchi, invitandola a presentare uno dei tre quadri in mostra, Keine Schufa keine Anmeldung, keine Anmel – dung keine Schufa, 2024 oil on cavas (2024). L’idea del dipinto nasce da una fantasia dell’artista di vivere in una grotta in Sardegna. Le rocce dipinte simulano delle vere rocce in Sardegna sovrapposte in 3D a rocce di dipinti rinascimentali. La scena mostra una tavola appena apparecchiata per una cena. Il titolo, ha spiegato l’artista, fa riferimento alla prassi per affidare una casa che, come un circolo vizioso e paradossale, impedisce alle persone di prendere in affitto un appartamento in relazione a punteggi su pagamenti di bollette, lavoro continuativo ecc. Scrive la curatrice nel testo della mostra: “La prospettiva di Keine Schufa keine Anmeldung, keine Anmedung keine Schufa (2024), una delle più recenti opere pittoriche di Beatrice Marchi in cui si staglia il suo immaginario, che frantuma la storia dell’arte e della pittura in uno storytelling personale ironico e perturbante. L’impossibile processo burocratico per affittare casa a Berlino è una storia talmente reale da sembrare surreale, come straniante è anche il ritornello del sonoro della video animazione in mostra Your reflection is my possession of your projection in my direction che procede al ritmo di una melodia ossessiva e ripetitiva composta e interpretata dall’artista stessa.”



Antonio Allevi (Caravaggio, 2002), debutta in questa mostra, esplorando il concetto di costruzione attraverso una pratica che ricompone un universo mediante il disegno. Sono esposti tre disegni selezionati da una serie di circa 1500: “Questa ricerca parla dei miei vestiti, sopratutto del dispositivo che li muove, una serie di regole che seguo: il percorso che compiono e come vengono organizzati. Il nome della serie, per ora è ‘Amministrazione degli abiti’. In particolare, i disegni esposti sono dei lavori di insiemistica, due diagrammi dove ho deciso a quale categoria appartengono determinati vestiti. A seconda della categoria con cui vengono classificati, fanno parte di categorie diverse. Dei vestiti possono appartenere a più categorie, ad esempio i pantaloni della bicicletta appartengono sia alla categoria delle mutande che a quella dei pantaloni. La categoria influisce sulla combinazione dei vestiti. In mostra anche un disegno su un’architettura immaginaria, oggetto metaforico – in particolare una calcolatrice – .. ho rappresentato quello spazio, tra le virgole, dove sono conservate in memoria tutta una serie di informazioni dove possiamo immaginare il flusso dei vestiti che nella realtà arriva dalla cesta dei vestiti da lavare fino all’armadio e poi prosegue fino alla scelta dei vestiti da indossare e come si combinano tra di loro. Esistono 1500 disegni che sintetizzano questo mio ragionamento. Il numero è consistente, ma devo dire che non tutto ciò che penso lo realizzo, dunque i ‘disegni’ restano nella mia mente. Il disegno per me è, prima di tutto, un elemento per pensare.” L’artista nella sua surreale spiegazione cita il diagramma di Deleuze. In cosa consiste questo diagramma? Si tratta dell’articolazione grafica di un meccanismo visivo in grado di produrre, come una macchina, continue trasformazioni di senso. La scelta dei vestiti “assolutamente autobiografica e intima”, non è importante di per sé, spiega Allevi, bensì è una scelta molto personale che non cerca empatia con altri vissuti, ma si circoscrive strettamente alla vita dell’artista. “Questa ricerca non rispecchia e non vuole rispecchiare il vissuto delle altre persone, le loro gioie o dolori, sento di non avere il diritto di farlo.”
La mostra si chiude idealmente con le nature morte di Caterina De Nicola, che interpreta un genere classico della storia dell’arte alla luce della crisi climatica. Things you can’t buy: new hours and services (leaves), (2025) è un’idea di tempo e natura scandita da elementi naturali e artificiali che diamo per scontati e che, invece, non sono sostituibili.
Nel video di Elisabetta Laszlo, Goodboy, (2023) l’artista scandisce la meraviglia e l’impossibilità di addomesticare la natura: protagonista un pappagallo.
“Non posso considerare libero un essere che dentro di sé non nutra di sciogliere i legami del linguaggio (frase di Georges Bataille) Bravo Grisù, bravo… Bravo Grisù, bravo, Bravo Grisù, bravo… Bravo Grisù, bravo.. Testare la resistenza di una tensione, stare all’interno della compressione di una molla, investigare uno spazio intermedio che forse non ha nulla di corretto. Il posto che preferisco è il margine, stesso motivo per cui condivido fermamente il desiderio di fuga di Grisù che mi avrebbe condotto a produrre un testo fatto di totale assenza. Ho una profonda ostilità per le parole, pertanto saranno sconnesso. Va rivendicata una non linearità delle cose o forse le immagini saranno in grado di creare un gioco comunicativo a tratti più interessante. Il dietro le quinte è il caos, un piacevole scivolamento conturbante come la sensazione di camminare su delle scale mobili ferme. Sgrammaticare le immagini. Vivo il video come un atto performativo, uno scivolamento in cui ambisco alla necessità di perdermi dentro al tentativo di restituire una porzione. Mi interessava un addomesticamento che avesse a che fare con il mantenimento di una postura, ciò che a questi pappagalli veniva insegnato. Pappagalli pubblicitari, questo era il loro ruolo: mantenere una postura davanti alla telecamera. Essere soggetto. Che vuol dire essere soggetto? Quando la videocamera merita uno sguardo. Grisù esiste nella tensione di opporsi al mantenimento di una postura, vive nel tentativo di fuga, primordiale atto distruttivo; divorare ciò che ha intorno, divorare la possibilità di una lettura. E’ un atto di ribellione, sotterraneo, mascherato da delicate movenze. Bravo Grisù, bravo… Le uniche parole ricevibile sono una dichiarazione di autocompiacimento per una lettura dall’esito volutamente fallimentare”.
Grazie a tutte e a tutti!
La lunga, imprevedibile, ironica, profonda e divertente raccolta di storie che Cloe Piccoli e Fabio Cherstich hanno raccolto, per rivelare ciò che si annida attorno al concetto di casa, ma anche per alludere alle tante esistente che danno sostanza ai lavori in mostra, finisce con un lungo scroscio di mani e con i tanti interrogativi che inevitabilmente rendono le opere d’arte meccanismi di significazione e incanto.
Cover: Alessandro Agudio Skyline, 2020 Digital print on blueback paper Courtesy the artist and FANTA-MLN Davide Stucchi From The Other Side, 2024 Acrylic mirror, intercom found Courtesy the artist and Martina Simeti Ph. Agnese Bedini – DSL studio


