Testo di C. Sidonie Pellegrino —
Quali sono i caratteri costitutivi dell’identità di un popolo? Qual è l’immagine del potere di uno Stato crocevia di culture? Queste sono le domande che pare porsi Theodoulos Polyviou in Un Palazzo in esilio, in mostra fino al 7 luglio presso la Fondazione Elpis di Milano.
L’esposizione è parte del progetto tuttora in corso Transmundane Economies, una rassegna di mostre personali dell’artista che finora hanno avuto luogo a Berlino, rispettivamente alla Kunstlerhaus Bethanien, con Bellapais Abbey, e al Bode Museum col secondo capitolo, intitolato SCREEN. L’intero progetto, che vedrà la sua prosecuzione ancora una volta nella capitale tedesca, ci restituisce la stratificazione socioculturale di Cipro attraverso la ricerca di Polyviou. L’artista, infatti, utilizza i codici del linguaggio architettonico e strumenti digitali, quali la realtà virtuale, per ricostruire la complessità perduta del suo paese d’origine.
Senza scadere in discorsi nazionalistici o restaurativi, né tantomeno nell’idealizzazione nazional popolare della propria patria, Polyviou riconosce nelle architetture non solo la simbolizzazione del potere, ma anche la possibilità di reinvenzione del patrimonio culturale dell’isola. L’intero progetto Transmundane Economies tesse quindi l’intreccio fra le archeologie, le architetture e la condizione di subalternità a cui è stata storicamente sottoposta Cipro.
Il capitolo di Un Palazzo in esilio prende spunto da uno degli eventi che ha segnato la svolta verso l’autonomia del paese: il rientro in patria dall’esilio dell’arcivescovo Makarios III e il conseguente concorso per la costruzione di un edificio arcivescovile. L’acceso dibattito scaturito dal concorso portò alla luce l’importanza dell’architettura nel costituirsi dell’immaginario popolare della Cipro ancora colonizzata dall’Inghilterra. Nell’esposizione, infatti, è possibile percepire quanto la stampa, sia locale che inglese, turca e greca, abbia avuto un ruolo cruciale nella storia cipriota: gli articoli dell’epoca, l’elemento del quotidiano e le pubblicità del cemento Portland, importato dai coloni inglesi, fanno da leit motiv fra le installazioni.
Appena entrati negli spazi della Fondazione, osserviamo il risultato dell’appropriazione da parte dell’artista delle matrici utilizzate per la costruzione del Palazzo di Nicosia come elementi scultorei. Tali installazioni prendono il nome di Dogmatic negatives: oltre ad indicarne la natura di calchi, l’espressione “negativo dogmatico” si potrebbe rileggere alla luce della definizione nichilista per cui non esiste verità assoluta. Secondo questa chiave di lettura l’artista potrebbe star tentando di sottolineare ancor di più la molteplicità culturale dell’isola mediterranea in quanto realtà non monolitica ma poliedrica.
Facendo scanso ad equivoci, è al primo piano dell’esposizione che comprendiamo immediatamente le intenzioni di Polyviou: con dei progetti architettonici, la sezione di un plastico e soprattutto la videoinstallazione che dà il titolo alla mostra, l’artista attua finemente un falso storico. Difatti ci presenta un progetto fittizio per il concorso dell’edificio: il video, realizzato in collaborazione con l’architetto Lokis Menelaou, attraverso la lettura degli articoli dell’epoca si interpone fra la storia reale e i render proposti dall’artista, creando lo scarto di un’archeologia contemporanea. Nella narrazione, Polyviou sembra personificarsi nell’elemento ricorrente del gatto: la sua onnipresenza è in realtà un riferimento all’importanza del felino nella tradizione cipriota.
Giungendo infine al piano interrato – la cui soluzione installativa non regge il confronto coi piani superiori – ritroviamo altri oggetti ricorrenti nelle opere in mostra. Qui l’attenzione dell’artista all’architettura si fa più sottile: le impalcature, architetture temporanee per eccellenza, diventano elementi strutturali per la costruzione di candelabri pasquali. In quest’ultima sezione, emerge la sensibilità inedita dell’artista all’apotropaico, tratto tipicamente mediterraneo: sembra esserci costantemente il rimando ad un fantasma coloniale che attanaglia l’immaginario di Cipro. Sia l’opera intitolata Scopa che la fotografia della frase “One day this nightmare will become”, affiancati ai ceri pasquali, adempiono alla funzione della cacciata del male dall’isola: che questo male sia tuttora l’impronta coloniale?
L’intera ricerca dell’artista sembra rispondere a questo interrogativo, proponendo delle soluzioni alla problematica dell’essere stranieri nella propria lingua¹.
¹ C. Bene e G. Deleuze, Sovrapposizioni, 1978