A Theatre of Gestures. Intervista con Jaan Toomik

"Mi sembra che la nostra intera comprensione del mondo venga incanalata attraverso il corpo. Potremmo dire che non pensiamo utilizzando soltanto la mente, ma uniamo quest’ultima al corpo."
23 Ottobre 2018
Jaan Toomik, Dancing with Dad, video installazione, 2003

Jaan Toomik, Dancing with Dad, video installazione, 2003

Intervista di Lisa Barbieri

Nel 1989, appena prima della Rivoluzione di Velluto ceca, Jaan Toomik camminava sul Ponte Carlo a Praga con appeso al collo un cartello recante la scritta “Mini Munn on Puhas”, che tradotta dall’estone significa “Il mio cazzo è pulito”. All’epoca studente estone in residenza all’Accademia d’Arte Cecoslovacca, Toomik era costretto a usare il russo per poter comunicare con i cechi e ciò lo portava a essere regolarmente etichettato come nemico.

Questa azione, costruita sull’iconografia di dimostrazioni e manifestazioni, ma caratterizzata da un contenuto enigmatico e apolitico, introduce un approccio puramente gestuale all’espressione linguistica. E sarà proprio l’attitudine a incarnare la narrazione in prima persona a gettare le basi per l’eterogenea, ma estremamente coerente produzione artistica di Toomik. Pittura, performance, video installazioni e cinema: è la volontà di personificare la storia il fil rouge che collega ogni opera alla successiva.

Come sottolinea Andris Brinkmanis, curatore di una sua recente personale al Mūkusala Art Salon di Riga, intitolata A Theatre of Gestures, per leggere il lavoro di Toomik «bisogna attraversare il sentiero non dalle parole ai fatti, ma viceversa: dagli atti, le azioni e i movimenti, dal corpo, dalle sue manovre, sentimenti e passioni, alla coscienza e al linguaggio, mostrando come gli enunciati vengano spesso “inflitti”, senza essere precedentemente pronunciati, imparati o compresi».

Jaan Toomik, Minu Munn on Puhas, 1989

Jaan Toomik, Minu Munn on Puhas, 1989

Jaan Toomik, Minu Munn on Puhas, 1989

Jaan Toomik, Minu Munn on Puhas, 1989

Lisa Barbieri: Che significato assume la comunicazione non verbale all’interno del tuo lavoro?

Jaan Toomik: Parlando in termini generici, penso che in Europa e nel mondo Occidentale si stia vivendo in un sistema culturale eccessivamente incentrato sulla parola. Attraverso la mia arte voglio riparare questo squilibrio, dando voce a modalità di esprimere il nostro pensiero più irrazionali, fisiche o intuitive.

LB: Paragonando i tuoi primi lavori radicali e politicamente espliciti a quelli più recenti, risalta una certa coerenza nell’utilizzo del corpo come strumento di espressione, a prescindere dal supporto utilizzato, sia esso azione performativa, pittura o video. Consideri ancora il corpo un veicolo di protesta? Cosa è cambiato nel corso degli anni?

JT: Mi sembra che la nostra intera comprensione del mondo venga incanalata attraverso il corpo. Potremmo dire che non pensiamo utilizzando soltanto la mente, ma uniamo quest’ultima al corpo. È quindi naturale per me utilizzare il mio corpo nel mio processo artistico, indipendentemente dai media. Il corpo è sempre stato un veicolo di protesta ed espressione, ma a cambiare nel tempo è stato il contesto.

LB: Una cascata scrosciante, ma muta, alle spalle di uomo la cui bocca, spalancandosi, dà letteralmente voce al flusso dell’acqua. Cosa ha ispirato la realizzazione di Waterfall (2005)?

JT: L’opera Waterfall è nata in parte come reazione allo tsunami di Sumatra, una riflessione su come le persone rispondano con i propri corpi all’enormità e alla potenza della natura. Paura e frustrazione sono ovviamente parte di quella risposta fisica, scaturite dall’impossibilità di comprendere questi fenomeni. L’archetipo dell’urlo esemplificato da Edward Munch.

Jaan Toomik, Waterfall, video installazione, 2005

Jaan Toomik, Waterfall, video installazione, 2005

LB: Potremmo anche leggere quest’opera come metafora dell ruolo dell’artista, le cui azioni sono in grado di rendere comprensibile il contesto. Quale pensi debba essere il dovere di chi si occupa di arte oggi?

JT: Uno dei doveri dell’artista è sicuramente quello di preservare una sorta di sensibilità e di spazio spirituale che spesso, specialmente in un ambiente e in una società come la nostra oggi, viene trascurato.

LB: Passiamo a lavori più autobiografici. In Untitled 2002 (2002), dedicato a tuo fratello defunto, ti lanci da un albero e lasci che il tuo corpo venga inghiottito dalla terra, mentre in Dancing with Dad (2003), danzi sulla tomba di tuo padre per compensare il fatto che non abbiate mai avuto occasione di ballare insieme quand’era in vita. Pensando a questi lavori, vedo le tue azioni come gesti liberatori dal carattere esorcizzante. Consideri l’arte uno strumento di guarigione?

JT: Direi che l’arte può essere piuttosto un processo verso la guarigione. Nel momento della produzione, è un’esperienza catartica per l’artista. E successivamente lo diventa anche per lo spettatore, che può trovare uno sfogo o una sorta di liberazione dal dolore e dai problemi personali attraverso un processo di identificazione.

Jaan Toomik, Untitled 2002, video installazione, 2002

Jaan Toomik, Untitled 2002, video installazione, 2002

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