Fino al 5 novembre è in corso all’ar/ge kunst di Bolzano una collettiva a cura di Emanuele Guidi. Alexandra Anikina, Riccardo Benassi, Monia Ben Hamouda, Dorota Gawęda and Eglė Kulbokaité, Walter Niedermayr: sei gli artisti invitati, assieme all’antropologa Elizabeth A. Povinelli, a riflettere su grandi questioni che riguardano il ruolo dei musei e delle istituzioni culturali come luoghi di conservazione e trasmissione della storia, come spazi di finzione e costruzione di narrazioni, come soglie tra la vita e non vita.
Emanuele Guidi ci racconta da dove è partita l’idea della mostra: dall’adattamento che Pier Paolo Pasolini fece nel 1971 de Il Decamerone di Boccaccio.
Seguono le domande al curatore —
Elena Bordignon: “The Lying Body: Only the Futures Revisit the Past, la mostra che curi all’ar/ge kunst, si apre con una suggestiva citazione di Ocean Vuong, scrittore e poeta vietnamita che ci ha affascinati con l’intenso libro Brevemente risplendiamo sulla terra. Questo romanzo, da cui hai tratto la citazione, è strutturato come una lungo lettera alla madre dove lo scrittore racconta le sue esperienze, ma anche, più in generale, tocca vari argomenti come l’immigrazione, l’integrazione e, non ultima, la capacità di accettarsi. Alla tua citazione, aggiungerei “Ogni storia ha più di una diramazione, ogni diramazione è la storia di una divisione”.
Mi racconti quale atmosfera hai voluto suggerire con questa breve e densa citazione?
EG:La citazione da Vuong è stato un modo per aggiungere un ulteriore livello di lettura al lavoro degli artisti in mostra che spesso tornano sulle proprie storie familiari per definire un posizionamento rispetto a più ampie questioni contemporanee. La mostra mette in campo un approccio al passato che è generativo e non conservativo, dove le storie “personali” aprono a tante possibili traiettorie o diramazioni, come suggerisci tu, e non a una singola narrazione. Al contempo, è una frase che parla di un tempo ciclico, di fine e inizi, di continuità tra saperi futuri e “ancestrali”, di una possibilità di pensare attraverso le generazioni aldilà della propria soggettività e aldilà di forme di parentela strettamente biologiche in favore di un agire/sentire collettivo.
La frase nel titolo della mostra “only the futures revisit the past” è una variazione rispetto all’originale che parlava di un futuro singolare: l’idea di parlare di più futuri possibili è emersa dalla discussione con gli artisti, così da far emergere il passato anche come luogo di conflitto e di interpretazioni possibili fra varie ‘forze ideologiche’, come Pasolini stesso diceva, e che oggi in Italia torna ad essere un tema di discussione con le sue derive identitarie.
Ovviamente la citazione è anche un riferimento al “gesto curatoriale” stesso, di voler raccontare l’episodio de Il Decameron che Pier Paolo Pasolini girò a Bolzano, che necessariamente è anche un gesto di “appropriazione” e autorialità. Con l’intenzione però che questa storia potesse essere un’occasione e un mezzo per far sì che altre storie potessero essere raccontante, per parafrasare Donna Haraway, e quindi allontanarsi dalla “mia” narrazione.
EB: La mostra collettiva apre anche ad altre riflessioni. Citi l’adattamento cinematografico firmato da Pier Paolo Pasolini de Il Decamerone di Boccaccio. Mi contestualizzi questo riferimento in relazione alle opere degli artisti?
EG: La scena girata da Pasolini all’interno di una tipica stanza in legno (Stube) ancora conservata nel Museo Civico di Bolzano, è stato esattamente il punto di partenza della mostra. Il titolo The Lying Body deve essere letto nella sua doppia interpretazione della scena di Ser Ciappelletto, interpretato da Franco Citti, che giace sul letto di morte e al contempo mente al suo frate confessore, guadagnandosi la santità attraverso la menzogna, e trasformandosi da soggetto a reliquia, oggetto di venerazione, luogo di proiezione di valori e di una narrazione esterna. Ho trovato questa immagine estremamente evocativa e funzionale a riflettere sul museo come luogo di finzione e scrittura. Così come il fatto che Pasolini stesso abbia usato il museo come luogo di finzione stesso è stato centrale. Allo stesso tempo, la sua precisa interpretazione del Museo Civico, che celebrò per la sua capacità di “conservare” tradizioni e folklore sudtirolese contro la forza livellatrice del capitalismo e consumismo. Tante diramazioni appunto che hanno aperto a molte altre domande attraverso gli artisti ed il loro approccio al passato e alla storia come lenti per guardare in modo critico al presente. L’episodio di Pasolini è stato usato come dispositivo curatoriale per invitarli ad una conversazione, che è quello che considero questa mostra.
EB: Una delle vocazioni di ar/ge kunst è quella di fare ricerca nel territorio, in particolare quello altoatesino. Anche questa mostra ha un legame con la città di Bolzano, in particolare con il Museo Civico. Mi racconti la nascita di questa relazione e la sua importanza?
EG: Ho saputo che Pasolini girò questa scena al Museo Civico di Bolzano nel 2014, quando stavo facendo ricerca con l’artista Gareth Kennedy sul rapporto tra folklore e finzione (e questa mostra è anche un piccolo tributo al lavoro fatto con Gareth che ha sicuramente influenzato il mio percorso ad ar/ge kunst).
Da quel momento ho pensato che questa storia, che pochi conoscono in città, potesse essere un punto di partenza per attivare una serie di riflessioni sui musei in generale come istituzioni e le loro responsabilità di conservazione e trasmissione della storia e soprattutto della sua “costruzione”.
Pasolini arrivò in Alto Adige con uno sguardo preciso, a tratti problematico nella sua ricerca di modus vivendi “anti-moderni” calati in un paesaggio rurale e naturale che amplificavano questa idea. E nella sua visione, il museo era uno strumento di mantenimento di questo “stato naturale” e per questo di resistenza; la mia proposta è stata esattamente di slegare questa correlazione per chiedersi in che modo questa sua visione possa essere riformulata oggi in un paesaggio contemporaneo radicalmente cambiato.
Allo stesso tempo, questa mostra è stata anche un’occasione per rendere accessibile, almeno in parte, questa stube che è chiusa al pubblico da circa venti anni.
EB: Le opere in mostra sembrano raccontare un diverso e insolito modo di relazionarsi con il passato: o partendo da storie personali o toccando vicende condivisibili dalla collettività. Ci racconti alcuni di queste opere e il loro dialogare con il concetto di ‘storia’?
EG: Le opere seguono veramente le traiettorie più diverse, mettendo in relazione temporalità e geografie altre rispetto al “locale” Alto Adige, ma soprattutto producono genealogie di critica e resistenza attraversando varie epoche storiche. Dorota Gawęda e Eglė Kulbokaitė lavorano da sempre sulle leggende rurali dell’Est Europa e attraverso esse raccontano la storia dello sguardo umano sulla natura, così come il rapporto tra sfruttamento delle risorse naturali, tecnologia e lavoro. Oltre alle opere in mostra, le artiste hanno connesso ar/ge kunst con la Stube al Museo Civico attraverso una performance. Riccardo Benassi riflette sulla sua formazione personale, sul passato e sul futuro dei rituali collettivi nel paesaggio urbano e rurale, piuttosto che sul rapporto tra modello economico attuale e diritto alla città. Elizabeth Povinelli nella sua mappa/diagramma intreccia la sua storia famigliare con radici in Trentino – Alto Adige, con la storia eurocentrica, coloniale e capitalista e le sue conseguenze sul resto del pianeta. Da un’altra prospettiva Alexandra Anikina affronta come storia, tradizioni e natura siano state “armi” nella costruzione identitaria dell’Unione Sovietica, e come i musei rurali e antropologici abbiano giocato un ruolo in questo. Monia Ben Hamouda si confronta e ribalta il suo rapporto con la storia culturale, tradizionale e religiosa della sua famiglia e dei suoi antenati così come con l’arte calligrafa del padre, disegnando letteralmente una nuova geografia, più aderente alla sua soggettività. Infine, nella sua carta da parati Walter Niedermayr ha fotografato tutte le Stube conservate al Museo Civico e ha creato un pattern unendole insieme ad altre cinque dello stesso periodo e ancora in uso in Alto Adige; ri-situando così la “Stube di Pasolini” all’interno del paesaggio contemporaneo sudtirolese, dove il folklore è centrale nella retorica dell’industria turistica che è la principale forza economica della regione.
EB: Parlare di passato significa inevitabilmente toccare vicende e persone che non esistono più. In particolare, quali artisti trattano ed “esorcizzano l’ossessionante presenza della morte che permea l’attuale Capitalocene”?
EG: Non volevo parlare di passato o al passato, ma attraverso di esso. Un pensiero storico per rivolgersi al presente/futuro. Gli artisti invitati si interrogano su questa forma di continuità e circolarità temporale. Storie personali e famigliari sono una metodologia per interrogarsi su questioni collettive; così come i diversi contesti geo-politici, le tradizioni, i rituali, le leggende sono lenti attraverso cui osservare ed agire nel presente, trasformandole e contraddicendole se necessario, invece che ‘conservandole’ e perpetuandole alla ricerca di una narrazione identitaria, come ho già detto. Ogni opera presente, in modi diversi, è permeata da questa co-esistenza di vita e morte in un rapporto generativo.
Se vuoi una sorta di esorcismo in un momento storico come questo dove dobbiamo confrontarci quotidianamente con l’ansia del ‘collasso ecologico’ – per usare un termine di Elizabeth Povinelli; ma che dobbiamo affrontare parlando di lavoro, del rapporto tra tecnologia e ambiente, religione, sfruttamento del paesaggio e diritto alla città. O altrimenti per citare nuovamente Povinelli dal suo wall painting “The ancenstral is not in the past. It is the present way we are situated in a world that cares for some by taking advantage of others. It is the decisions we make to keep in place or undo the sedimentations of force and power … as we make our way home, how are we making the homes of other?”