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English text below
Testo di Valeria Montebello
Phersu, un personaggio dall’identità incerta dipinto su alcune tombe di Tarquinia. È davvero esistito o faceva parte dell’immaginario etrusco, era un attore o un demone infernale? È di questa maschera e di una delle sue rappresentazioni funebri in particolare, che mi parla Alessandro Scarabello: Phersu tiene una corda in mano che fa giri complessi, è legata a un cane nero che azzanna la gamba di un uomo con il corpo ferito, nonostante abbia una mazza in mano per difendersi. Ed è proprio questo il nome che compare nel titolo della personale di Scarabello alla The Gallery Apart, “The Garden of Phersu” (visitabile fino alla fine di luglio).
Il nome deriva dalla parola maschera che poi significa persona, come la maschera di cera dell’antenato che le famiglie patrizie custodivano nell’atrio e che designava la loro stirpe, il loro nome e ruolo politico, sociale. Ma la maschera Phersu ha il potere di mettere in discussione questa identità. La mostra è piena di elementi che richiamano gli scorci e la teatralità scenica della città natale dell’artista, Roma, e dei suoi abitanti: pezzi di colonne, gesti concitati, tende, palazzi antichi, drappeggi. Una rielaborazione a distanza, da Bruxelles, della memoria che sfoca i confini delle cose e le astrae, rendendole personali, quasi irreali. Questi elementi classici, infatti, si mischiano a vegetazione esotica e ad una serie di spaventapasseri. Il quadro che si vede appena entrati, The Womb, sembra essere lontano dagli altri, o meglio, sembra costituire la loro origine. Un albero, in mezzo alla giungla nera, tropicale, nasce da un tavolo coperto con un panno dai colori del mare in tempesta, bucandolo. Sul fondo continua ad esserci una figura che è stata cancellata ma che s’intravede ancora: una donna in bikini.
In quasi tutti gli altri dipinti il protagonista è uno spaventapasseri, oggetto-simulacro che consente la deformazione corporea e la spersonalizzazione, immerso in una natura calda, straniante. Prelude è dominato da colori apocalittici, un misto fra il cielo al tramonto e quello prima del temporale, piante fluorescenti. Un fantoccio scomposto è buttato in un cespuglio, a peso morto. La natura è stereotipata, legata al mito del nuovo mondo, mi dice l’artista, alla difficoltà dei conquistadores di capire l’identità altrui e al cliché dell’evasione, della fuga, del divertimento forzato che deriva da questo retaggio storico. Oggi liberarsi dal peso morale, sociale e politico della persona nasconde un desiderio di felicità: la moltiplicazione infinita delle maschere e i vari dispositivi che non conoscono la differenza tra sonno e veglia, tra vita e morte. “Questi Gentleman rubano l’identità appropriandosene, ne fanno quello che vogliono, riproducono le storture, i difetti degli individui”, racconta Scarabello. La cultura maschilista, ad esempio, è messa in ridicolo da The Minotaur: un fantoccio-centauro in motocicletta esce dalla vegetazione con un grosso fiore finto all’occhiello. È aggressivo, ha il bacino spinto in avanti, le braccia allargate. Poi c’è The Pendulum, uno spaventapasseri appeso per i piedi fra le piante con una tuta bianca da giardiniere nucleare e la faccia ormai violacea, come le ortensie rigogliose vicino, sformato. Tutte le tele sono sviluppate verticalmente e se ci si avvicina bene si può notare una sorta di reticolato a matita sotto, sopra e fuori dalla pittura. Da vicino non si riconosce niente, tutto è astratto, confuso, mentre da lontano si vede chiaramente, si può ricomporre il dato figurativo e tirare un sospiro di sollievo.
Nel piano di sotto c’è un quadro in cui la flora cambia registro: dai Tropici al Nord America, o qualche foresta canadese. Lo spaventapasseri-farmer -altro stereotipo- con la birra nel taschino ha il volto nero, o meglio, è un senza volto. Porta un cappello spiovente, da vicino fa paura -è anche lui spostato in avanti-, da lontano è ridicolo, tanto sembra goffo. Appoggiato ad una ruota di trattore, la mano sposta una stecca di legno pixelata, “ho lasciato i pixel perché sono più minacciosi”, dice Scarabello. In effetti la stecca sembra laminata, un coltello, ma la mano che la regge è inoffensiva, è come se mimasse un’ombra cinese. Più avanti un altro spaventapasseri-giardiniere in tuta bianca è piegato su se stesso come se avesse i crampi alla pancia, in un orto pieno di calle lilla e luminescenze. “Più sfuma la parola più il corpo deve compensare, si blocca e si atrofizza per compensazione”, commenta l’artista, i movimenti sono talmente estremi, slogati, le pose così innaturali che le figure sembrano davvero immobili, bloccate nella contrazione del tempo. L’ultimo quadro si pone in opposizione al primo, dove la natura era protagonista. Qui non c’è verde. Lo spaventapasseri scompare dietro a un altro sipario -toni di grigio e di giallo-, sembra sgonfiarsi pian piano, non avere più la testa, il cappello poggiato direttamente sul collo, e sciogliendosi porta il bacino in avanti, verso la tenda. Ha per titolo The gentleman (After Rogier Van Der Weyden) ed è un tributo involontario al pittore belga del ‘400, alle sue crocifissioni e ai suoi veli. La figura è sfondata, sembra spalmato sulla croce, rattrappito. Queste presenze, nonostante le pose, gli scioglimenti, la morte, restano lì, a vegliare sulla natura. In fondo, gli spaventapasseri sono i buoni, proteggono il raccolto quando il contadino non c’è, vegliano in attesa delle gemme.