A distanza di due anni dalla presentazione del solo BSTRD come progetto speciale di Xing per ART CITY Bologna 2023, Katerina Andreou torna con una nuova performance ad alto tasso energetico sul terrazzo del Nuovo Parcheggio Stazione in Via Fioravanti 4 con Bless This Mess, un nuovo lavoro collettivo, tra coreografia e suono. Sabato 14 giugno 2025 Xing ripropone così uno dei suoi Hole, format che ha iniziato a sperimentare dal 2022, occupando e attivando luoghi non istituzionali come ridefinizione temporanea di uno spazio pubblico.
In questo caso la torre-parcheggio dietro la stazione centrale diventa lo scenario in cui i giovanissimi performer in scena guidati dalla coreografa greca trasformano la confusione in strategia creativa.
“Bless This Mess – spiega Andreou – scaturisce da quello che l’artista definisce ‘rumore costante’, uno stato mentale e sensitivo che nasce dalla precarietà, instabilità e dubbio che informano la vita contemporanea.”
Ecco cosa ci ha raccontato —
BLESS THIS MESS. Vuoi raccontarci di questa performance a partire dal titolo?
BLESS THIS MESS è il mio primo lavoro di gruppo. È nato da una necessità: un bisogno viscerale di abitare la confusione e la disperazione non come fallimenti, ma come terreno fertile. Volevo trasformare questi stati in degli strumenti, per rivelarne il potenziale creativo e rivendicarne la forza.
Il subbuglio o la confusione (‘mess’) sono visti spesso come disordine, come qualcosa da sistemare o da cui rifuggire. Io ho scelto di accoglierli. Per me, sono diventati uno spazio di liberazione: libertà dai vincoli interiori, dalla pressione di conoscere, controllare o definire. Mi ha offerto un modo per entrare nel processo fisicamente, istintivamente, senza spiegazioni.
Sono anche affascinata dalla tensione tra disordine e anarchia, non tanto come dichiarazioni politiche, quanto soprattutto come paesaggi personali. Cosa succede quando il disordine non viene più contrastato, ma plasmato in un sua forma di ordine? La confusione potrebbe diventare un metodo o una strategia?
È così che BLESS THIS MESS ha preso forma: una coreografia di contraddizioni: gioia e rabbia, combattività e tenerezza, impulsi solitari e forze collettive, struttura e improvvisazione, precisione e arresa. La frase stessa è diventata più di un titolo: è stata un mantra che ci ha accompagnato per tutto il tempo, ancorando delicatamente il caos e guidando il lavoro.
In studio ha generato un mondo in cui noi – quattro performer – potevamo perderci insieme. Un disorientamento condiviso, che è diventato il nostro terreno comune. E al suo interno, abbiamo trovato una sorprendente forma di solidarietà. Una solidarietà che riecheggia l’urgenza che tutti portiamo dentro. Una solidarietà che pulsa attraverso i corpi sul palco: agitati, vigili e vivi.
In questa performance segnali un’urgenza. Come stanno secondo te le cose nella società e nell’arte in questa fase?
Con questo lavoro non pretendo di trasmettere un messaggio chiaro o di fornire risposte al senso di urgenza: sono più interessata ad esprimerla, a farla sentire attraverso i corpi, attraverso la coreografia e il movimento. L’urgenza che percepisco è diffusa, stratificata: è sociale, ecologica, politica e profondamente personale. Attraversa la nostra vita quotidiana, spesso senza una forma definita, ma con un’intensità che grava sia sulla mente che sul corpo.
Nella società, sento che molti punti di riferimento stanno crollando o cambiando rapidamente. C’è una perdita di senso, una sorta di esaurimento collettivo, ma allo stesso tempo vedo anche potenti ondate di reinvenzione, solidarietà e resistenza. Quello che mi colpisce di più è che il disordine non è più solo esterno, ma interno. Molti di noi vivono in una confusione persistente, una sorta di ansia a bassa intensità. Come se fossimo troppo vicini al fuoco per percepire cosa sta veramente bruciando… Eppure continuiamo ad andare avanti. Ricerchiamo. Inventiamo. È questa tensione che mi interessa.
Nell’arte, avverto sia la pressione a produrre opere leggibili, politiche, efficaci, sia la necessità simultanea di esplorare forme più fluide, porose e instabili. BLESS THIS MESS si inserisce in questo paradosso. Non cerca di illustrare direttamente l’urgenza, ma di lasciarne emergere le sensazioni, le contraddizioni e le energie grezze. È uno spazio in cui perdersi insieme, attraversare il disagio, trasformare il disordine in una forza creativa.
Credo profondamente che l’arte possa contenere questa complessità, questa opacità, senza bisogno di risolverla. E forse è proprio qui che risiede per me una forma di resistenza: rifiutare di semplificare, rifiutare di rassicurare, e invece fare dell’incertezza uno spazio di creazione e connessione. Anche attraverso un percorso che sceglie di diventare letterali con il corpo e il suono.

‘Corpo selvaggio’ e ‘corpo preparato’. Come si preparano i corpi tuo e dei performer che sono con te?
Sono affascinata dalla coesistenza del corpo selvaggio e del corpo preparato. In BLESS THIS MESS, questa tensione è centrale: come possiamo permettere a un corpo istintivo e indisciplinato di emergere, pur continuando a impegnarci in un processo coreografico collettivo rigoroso,?
I nostri corpi sono, ovviamente, preparati, ma non attraverso la ripetizione in senso convenzionale. Ciò che pratichiamo è l’insistenza. Non si tratta di esercitare il movimento o affinare la forma, ma di tornare – ripetutamente – con urgenza e attenzione – a certi stati, a certe soglie. L’insistenza apre lo spazio. Permette a ciò che è fragile o sepolto di emergere. Crea un ritmo di cura, di persistenza, di ascolto.
Uno dei nostri punti di ancoraggio più forti in questo processo è il suono. La capacità di immergerci nel suono – nel ritmo, nella vibrazione, persino nel rumore – diventa un modo per orientarci. Non per trovare certezze, ma per trovare intensità di presenza. Il suono agisce come un ‘repère’ [riferimento – N.d.T.], una guida che non detta il movimento, ma lo invita. Ci permette di situarci nel tempo e nello spazio in relazione agli altri. A volte ci radica, a volte ci destabilizza. Ma parla sempre al corpo.
Questa preparazione non riguarda il controllo. Si tratta di coltivare uno stato di disponibilità – muscolare, emozionale, sensoriale. Si tratta di costruire una fiducia condivisa, in cui imprevedibilità e ‘overflow’ [straripamento – N.d.T.] non sono solo accettati, ma desiderati. Ci alleniamo ad affrontare tremori, resistenze, intensità – senza bisogno di risolverli.
Gli artisti che lavorano con me provengono da percorsi diversi, ma tutti condividono questa capacità di immergersi completamente in diversi stati – farsi spostare dagli altri, correre rischi, rimanere radicati nella sensazione. Insieme abbiamo plasmato dei corpi che non si limitano a mostrare, ma che ascoltano. Corpi che si lasciano influenzare. Che seguono impulsi interiori, reciproci e provenienti dal paesaggio sonoro che ci circonda.
Per me un ‘corpo selvaggio’ non è caotico o primitivo, ma un corpo che abbraccia il non-sapere. Che resiste alla piena padronanza. È in costante dialogo con il ‘corpo preparato’ – non come un opposto, ma come un compagno. In questa tensione risiede la vera forza del movimento – la sua verità, la sua urgenza, la sua bellezza.
Infatti, sembra ci sia un fattore emozionale ed espressivo legato al free style, ma anche a dei saperi corporei molto precisi. Inoltre, è rimasta in te qualche reminiscenza del ballo nella cultura popolare greca?
Sì, l’emozione ha un ruolo importante in questo pezzo, ma non in modo narrativo o dimostrativo. Emerge da un impegno fisico totale, da un’intensità vissuta – spesso allo stato grezzo – che attraversa il corpo prima ancora di diventare linguaggio. C’è una sorta di free style, ma è radicato in una conoscenza intima del corpo molto precisa. Non nel senso di una tecnica chiusa, ma piuttosto nell’ascolto profondo del peso, della tensione, dell’impulso, della dissonanza. Cerco di creare uno spazio in cui ci si possa muovere con rigore e libertà. Per me, queste due cose non sono contraddittorie.
Per quanto riguarda la danza popolare greca, sì, ci sono echi, assolutamente. Non attraverso citazioni dirette o riferimenti estetici visibili, ma più come una sorta di memoria sepolta. Sono cresciuta con quelle danze comunitarie, spesso circolari, fortemente radicate, ripetitive – dove la gioia può coesistere con una certa gravità. Sono danze di resistenza, di resistenza, di connessione. Credo che mi abbiano dato un senso del ritmo, del peso, e dell’unitarietà che vive ancora nel mio corpo.
E da qualche parte, ancora più in profondità, c’è il ricordo dello zeibekiko, una danza solitaria e improvvisata che porta con sé dolore, dignità e necessità emotiva. Non è una danza pensata in funzione di un’esecuzione, ma viene vissuta profondamente. Crea uno spazio in cui la vulnerabilità è ammessa, persino onorata. Quell’intensità, quel modo di danzare come se nessuno mi stesse guardando – anche di fronte ad altri – ha lasciato un’impronta silenziosa dentro di me. Credo che plasmi il mio approccio alla scena, vista non come un luogo in cui mostrare, ma come luogo in cui essere.
In BLESS THIS MESS, queste influenze non sono consapevoli, ma si muovono attraverso di noi. C’è una sorta di pulsazione condivisa, un modo di stare insieme mentre ogni danzatore attraversa stati d’animo molto personali. Come in molte danze tradizionali, c’è questa tensione tra il gruppo e l’individuo, tra struttura condivisa e intensità interiore. Forse anche questa è una forma di folklore: intima, reinventata, in movimento.

Come ti sei trovata ad estendere il tuo linguaggio da solista a formazioni più ampie (in questo caso siete in quattro in scena, e recentemente hai lavorato con grossi ensemble)?
Per molto tempo ho lavorato principalmente in solo, non necessariamente per scelta, ma perché avevo bisogno di quello spazio intimo per esplorare il mio linguaggio, per correre rischi senza compromessi. Il formato in solo mi ha permesso di approfondire certi stati d’animo, di sviluppare un modo di muovermi che sembrava istintivo e urgente, non decorativo.
Ma a un certo punto ho iniziato a sentire i limiti dell’essere sempre io l’interprete diretta in scena delle mie argomentazioni. Quel loop – in cui generavo il materiale e lo incarnavo – rischiava di diventare un cortocircuito. Era diventato più difficile sorprendere me stessa. Ho capito che se volevo scoprire nuove metodologie, nuove strutture di pensiero e del sentire attraverso la coreografia, dovevo cambiare la mia posizione – non solo come performer, ma anche come coreografa. Ciò significava fare un passo indietro, in qualche modo abbandonare il controllo, e invitare nello spazio altri corpi, altre logiche.
Estendere il mio linguaggio al lavoro di gruppo non ha significato abbandonare ciò che ho sviluppato come solista, ma tradurlo in uno spazio condiviso. Non ho cercato di imporre uno stile o di creare un unisono, ma di esplorare cosa accade quando più corpi ‘insistono’ insieme. Cosa succede quando ogni danzatore segue la propria traiettoria, pur rimanendo profondamente connesso al gruppo? Questo è il tipo di coreografia che mi interessa: non una coreografia del controllo, ma dell’ascolto, fatta anche di negoziazioni e attriti.
In BLESS THIS MESS, siamo in quattro sul palco e ogni performer porta un’energia molto personale. La sfida – e la bellezza – era creare un pezzo in cui quella diversità non fosse cancellata, ma tenuta insieme da un’urgenza condivisa, da una pulsazione collettiva. Ho lavorato di recente con ensemble più grandi, ed è stata un’occasione per approfondito questo interesse: come possiamo rimanere selvatici, porosi e vivi in una struttura di gruppo? Come possiamo costruire una forma che non appiattisca l’individuo, ma amplifichi ciò che ogni persona apporta? Queste sono le domande che continuano a guidare il mio lavoro.
Sei tu che realizzi il suono dei tuoi lavori, spesso mixando e alterando materiali già esistenti: perché è così importante per te?
Il suono è una parte cruciale del mio lavoro, non solo come atmosfera o sfondo, ma come elemento strutturale e drammaturgico. Spesso creo il suono da sola, mixando e rimodellando materiale esistente. Per me è un modo di collegare l’astrazione con riferimenti più riconoscibili o popolari, e di giocare con il cambiamento di significato a seconda di come li ascoltiamo. Campionando e trasformando diverse fonti – a volte classiche, a volte elettroniche, a volte pop o noise – mi interessa far loro perdere la loro identità originale, fissata. Questo processo di decostruzione diventa una sorta di poetica del sampling.
Tratto il suono come un materiale su cui si può zoomare, come con il movimento. Si tratta di focalizzare l’ascolto, proprio come focalizziamo lo sguardo – portando l’attenzione sulle textures, le fratture, le distorsioni. Il suono condivide la scena con il corpo, porta con sé la propria presenza e tensione. In questo senso, comporre suoni diventa un modo per costruire una drammaturgia: non attraverso riferimenti narrativi o letterali, ma attraverso l’evocazione, la rottura e la stratificazione.
In BLESS THIS MESS, ad esempio, volevo combinare l’energia grezza, quasi punk, del corpo con la texture anacronistica del clavicembalo della scena iniziale. Mi chiedevo: come posso far sì che Vertigo – un brano barocco di Pancrace Royer – abbia un suono più metal? Cosa succede quando ricontestualizzi un suono – quando lo sposti – per modificarne o addirittura sovvertirne il significato? È qui che il suono diventa drammaturgia per me: ha un senso senza narrare una storia. Apre risonanze emotive e culturali senza affidarsi a una citazione diretta. È come una coreografia parallela, che si muove attraverso le orecchie anziché attraverso gli arti.
Quali sono i luoghi ideali per mostrare il tuo lavoro?
Non credo esista un tipo di spazio ideale per presentare il mio lavoro, ma piuttosto determinate condizioni o energie che abbiano senso per il tipo di performance che creo. Finora ho lavorato principalmente in teatri e black box, ma spesso osservo quanto la potenza del corpo – soprattutto quando la coreografia è costruita attorno all’intensità fisica e agli stati di presenza – possa essere sminuita o contenuta da questi spazi neutri e astratti. Ci vuole un certo sforzo e intenzione per superare questa riduzione.
Questo mi ha portato a diventare sempre più curiosa di altri contesti. La sfida di aprire l’immaginazione in spazi meno astratti – meno codificati della black box – sta diventando sempre più interessante per me.
Grazie a curatrici come Silvia Fanti di Xing, che mostrano una vera sensibilità nel rapporto tra gli spazi e la natura di una performance, ho avuto l’opportunità di mettere alla prova questi limiti. Quando il contesto della presentazione viene considerato come parte della drammaturgia, si apre un nuovo campo di possibilità.
Detto questo, sono ancora attratta da spazi in cui possano emergere la vicinanza, le intensità e i dettagli, che si tratti di un teatro, di uno studio o di un luogo non convenzionale. Ciò che conta di più non è solo l’architettura fisica, ma l’architettura dell’attenzione che uno spazio consente. Cerco ambienti che supportino complessità, rischio e intimità, dove sia gli artisti che il pubblico possano essere pienamente presenti e dove l’opera possa respirare in relazione allo spazio in cui si inserisce.
Cover: Katerina Andreou – BLESS THIS MESS – copyright Hélène Robert
