ATP DIARY

Le visioni viscerali di Talia Chetrit da 10 Corso Como, Milano

E’ in corso fino al 11 novembre da 10 Corso Como la mostra ‘sfrontata e coraggiosa’ dell’artista Talia Chetrit a cura di Alessandro Rabottini e Anna Castelli

In tempi di imperante narcisismo e cattivo gusto, subissati da performance digitali senza né limiti né decoro, l’unica certezza che abbiamo è quella che la rete e i gusti globali cambieranno frequentemente e in modo imprevedibile, usando format che forse sembrano non avere senso nel presente, ma che probabile, lo avranno in futuro. “Il selfie”, scrive Nicholas Mirzoeff – considerato tra gli esperti di cultura visuale più inventivi e poliedri nel suo libro “Come vedere il mondo” (2017, Edito da Johan & Levi) – “da un certo punto di vista, è una nuova forma di conversazione digitale prevalentemente visiva. Sotto un altro aspetto, è il primo format della nuova maggioranza globale, ed è questo a determinarne l’importanza”. 

Questa “nuova forma di conversazione digitale” è ciò che più mi indirizza nella lettura della bellissima mostra di Talia Chetrit, Gut, ospitata alla galleria 10 Corso Como a Milano, a cura di Alessandro Rabottini e Anna Castelli. Nata nel 1983 a Washington DC, Chetrit può essere considerata un’artista che è riuscita a traghettare  la sua consapevolezza fotografica tra un mondo nostalgicamente analogico, a quello ingenuamente digitale. E’ cresciuta con l’esplosione e diffusione dei cellulari, con l’avvio delle piattaforme social, insomma con lo smarrimento di poter plasmare a piacimento la nostra immagine. Cosa rende originali le sue visioni? Cosa fa sì che il suo sguardo sia così incisivo?

Dalla prima immagine in mostra, Face #1 del 1994/2017, dove l’artista ritrae una sua amica d’infanzia, all’autoritratto Untitled (Body) del 2018 che mostra la stessa artista completamente nuda con tanto di genitali in primo piano, a fotografie più recenti Untitled (Family #2), 2021 e Mam (Ball), 2022, ciò che si perpetua in ogni scatto è la consapevolezza del guardare l’obbiettivo e sorridere, ammiccare o semplicemente ‘essere’ in fotografia. 

In anni in cui siamo sommersi dagli autoscatti – solo nel 2014 Google dichiarava che, in tutto il mondo, si postavano 93 milioni di selfie al giorno -, in una tale burrasca di narcisismo digitale, Chetrit “costruire” un autoritratto come Self-portrait (Mesh Layer), 2019: un misto di messa in scena, esibizionismo e auto-parodia. E’ come se l’artista manifestasse in modo silente – e decisamente intimo, visto la sua totale nudità/fragilità – contro una società dell’autoscatto genuino ma vanitoso, spontaneo ma esibizionista, schietto ma famelico di visibilità. 

Talia Chetrit’s Gut exhibition at 10 Corso Como Gallery – Ph credit Jacopo Menzani

Lei ‘torna a casa’, si sottrae dal mondo, non sembra invischiarsi e produce, attraverso ciò che conosce meglio – il suo corpo – lo spazio per sfidare le forme tradizionali di rappresentazione della femminilità, resistendo alla vana tentazione di cercare ‘le belle immagini’. 

Forse sta proprio qui la bellezza delle immagini in mostra: essere lontane dalle visioni patinate, studiate e perfette. Ogni scatto diventa una versione imprevedibile del quotidiano: il ritratto di 3/4 di un’adolescente dalle chiome bionde, viene disordinato dalla luce del flash che riverbera negli occhi azzurri (Red Eyes, 1994 – 2017; uno scatto dell’artista con il marito, stesi uno sull’altro, nudi e con lei che mostra un bel pancione gravido, diventa l’antitesi del bel ritratto di coniugi che la storia dell’arte ci ha tramandato; i genitori di Chetrit, in due fotografie, sono rappresentati lui come una attempato uomo in sovrappeso con canotta a rete, lei come uno spaventapasseri sorridente all’aria aperta. Non manca né di ironia né di sensibilità quando, a nudità e scene intime, a luoghi vuoti riempiti di una coreografia luminosa che ricorda tanta parte di pittura seicentesca (Studio Chair, 2018) e scene casalinghe riprese dall’alto (Future Goals, 2022; Bathroom, 2021), ci mostra scene urbane realizzate con l’uso di un obbiettivo telescopico. Il genere umano in questi scatti appare anonimo e insignificante, l’artista non si cura né di immortalato con un criterio, né di dargli un significato particolare. I soggetti finiscono nell’inquadratura per caso: è un po’ come rivelare il flusso della vita che scorre, indifferente, fuori dalle nostre stanze e dalle nostre percezioni. 

L’antologia di visioni indisciplinate di Talia Chetrit sono il frutto di un’attenta e consapevole riflessione sull’atto del guardare e del mostrarsi, sulla ricerca dei significati della visione e sulla costruzione della rappresentazione. Questa ricerca è tanto coinvolgente quanto convincente perchè frutto di una forte intensità emotiva. E’ come se l’artista ci volesse far partecipi di una rivelazione che è tanto artistica quanto esistenziale, un non detto che si insinua tra un riverbero di luce, tra le pieghe della pelle, nell’incontro casuale di sacchi di spazzatura (Shoe/Trash, 2022) o nell’imbattersi in una farfalla che si posa, accidentalmente, su una bocca di vetro (Butterfly, 1995/2021).

Ecco allora che la su bravura è stata quella di confondersi nell’evoluzione del linguaggio fotografico: lei è riuscita a incarnare la “nuova forma di conversazione digitale”, restando fedele al linguaggio analogico, alla pellicola  di novecentesca memoria. Fondendo una sensibilità tutta digitale, restituisce il (suo) mondo con la lentezza e l’opacità degli scatti analogici.

Talia Chetrit’s Gut exhibition at 10 Corso Como Gallery – Ph credit Jacopo Menzani
Talia Chetrit’s Gut exhibition at 10 Corso Como Gallery – Ph credit Jacopo Menzani
Talia Chetrit’s Gut exhibition at 10 Corso Como Gallery – Ph credit Jacopo Menzani