27 tasselli che compongono una percorso pittorico fatto di macchie, pennellate, sbavature, spessori cromatici, tele e fogli di carta. Immersi in un mondo che appartiene al cromatico, alle sfumature, ai cambiamenti di luci, scoprire le forme di rappresentazioni di Suzanne Jackson è un’esperienza quasi primordiale. La bella mostra ospitata fino al 17 dicembre 2023 alla GAM – Galleria d’Arte Moderna di Milano – a cura di Bruna Roccasalva – ci accompagna alla scoperta delle evoluzioni pittoriche dell’artista americana nata nel Missouri nel 1944.
Dobbiamo sapere che la formazionie di questa artista è stata a dir poco poliedrica: ha attraversato studi d’arte, di danza; ha condiviso importanti momenti nella sua formazioni con artisti di Los Angeles come David Hammons, Alonso Davis Senza Nengudi, Betye Saar ed Emory Douglas; ha compiuto esperienze come gallerista – la Gallery 32 – diventata in poco tempo un punto di riferimento per la scena artistica underground nella LA della fine degli anni ’60. Compie studi di scenografie e affronta l’esperienza dell’insegnamento verso la metà degli anni ’90.
Danza, teatro, poesia si intrecciano nel suo mondo pittorico per dar vita ad un cammino artistico che è, principalmente, un percorso di scoperta e analisi della materia pittorica: dalle prime opere figurative dove la Jackson popola carte e tele con personaggi, animali, simboli ancestrali, negli anni la sua pittura si evolve verso l’astrazione. Dal reale e conoscibile, l’artista inizia a creare un mondo ignoto dove la pittura da elemento ‘funzionale’ per la rappresentazione diventa essa stessa realtà. La pittura assume una dimensione scultorea e ambientale.
Ecco alla che il titolo ci svela le intenzioni dell’artista: Somethings in the World può indicare allo stesso tempo un’esperienza ‘nel’ mondo ma anche ‘del’ mondo. La mostra alla GAM ripercorre, mediante una serie selezionata di opere tutta la produzione dell’artista, per fasi significative in cui le sue vicende biografiche si rispecchiano nelle sue evoluzioni pittoriche.
Nella prima sala ci accolgono opere di periodi diversi come Ma-Yaa (1994-98), 9, Billie, Mingus, Monk’s (2003), entrambe mai esposte prima d’ora, e Singin’, in Sweetcake’s Storm (2017) mettono in luce la stratificazione come aspetto centrale, non solo dal punto di vista tecnico e materiale, ma anche da quello contenutistico. Se Ma-Yaa – opera omaggio a Yemaya, dea madre della tradizione africana Yoruba – l’artista è ancora ancorata ad una figurazione espressionista, gestuale, nel più recente Billie, Mingus, Monk’s il reale lascia spazio ad una figurazione astratta dominata da una caotica esigenza di stratificazione e sovrapposizione di carte di diversa provenienza: carta da imballaggio, carta velina e carte giapponesi fatto a mano. L’esito è un pannello stratificato formato da piani e consistenze differenti. Con Sweetcake’s Storm (2017), la Jackson libera il piano pittorico dal legame con la tela per dar vita ad una composizione formata da densi strati di materia acrilica in cui incorporare i più svariati oggetti come frammenti di granato, reti, tessuti, gusci di pistacchio. Rasentando la scultura l’artista, soprattuto negli ultimi anni, resta in bilico tra la bi- e la tridimensionalità: non sceglie mai una dimensione rispetto ad un altra, ma crea un terra di mezzo dove non conta più il supporto che contiene, ma è la materia pittorica che diventa essa stesse contenuto e contenitore.
Ma prima di giungere agli ultimi esiti pittorici della Jackson, in mostra c’è un’ampia sezione ad un tema a lei molto caro : la natura con le sue forme ambigue, con la sua mutevolezza e, al tempo steso resistenza. In una parete allestita come una quadreria, è racconta una polifonica serie di studi che hanno come protagoniste delle foglie, realizzati nel periodo in cui l’artista torna a vivere lontano dalla città, a Idyllwild, sulle montagne di San Jacinto in California, e si dedica a opere di piccolo formato ispirate all’ambiente che la circonda, iniziando a dipingere fiori, cieli, e singole foglie.
Nella sala successiva, domina per dimensioni, il trittico In A Black Man’s Garden del 1973 che esemplifica la produzione degli anni Settanta in cui Jackson, utilizzando una tecnica di pittura ad acrilico simile all’acquerello, restituisce in modo poetico la bellezza della natura attraverso tutti gli elementi che la compongono. In un’atmosfera lattiginosa, si muovono tre figure nere, una maschile e due femminili sovrapposte e un cigno giallo: attorno a loro un ambiente natura appena accennato, delle piante con radici articolate, un sole e una luna accennati, delle ombre, delle velature. Ogni figura umana sembra liquefarsi sotto le varie stesure di colore.
Questa opera monumentale dialoga con altre due opere, lontane per stile e cronologia: Joan’s Wind (1997) e The ‘white-eyes’ shift (2022). Nell’opera degli anni ’90 sono evidenti gli sviluppi pittorici della Jackson, nelle pastosità delle pennellate, nei densi strati di colore e nella gestualità veloce e informale dei tratti a matita. L’approdo è The ‘white-eyes’ shift del 2022. Spiega Bruna Roccasalva nel testo critico in merito a quest’ultimo quadro “La materia pittorica si trasforma e diventa una trama fatta esclusivamente di strati acrilico che non hanno più bisogno di nessuna forma di supporto, sia esso tela o carta. In The ‘white-eyes’ shift la pittura acrilica dimostra le proprie potenzialità materiche e strutturali diventando infatti supporto di sé stessa e acquisendo anche una sorta di traslucenza e luminosità che si ricollega alle ricerche sulla luce del primo periodo.”
Queste caratteristiche si ritrovano anche nella sala seguente, nelle opere Red Top (2021), Quick Jack Slide (2021) e l’inedita future forest (2023), realizzata in occasione della mostra.
Chiude il percorso una selezione di opere recenti, tra cui la grande opera deepest ocean, what we do not know, we might see? del 2021. Allestita come fosse una stoffa, questa opera si lascia attraversare dalla luce grazie alla trasparenza della materia pittorica. Gli strati e la sovrabbondanza di vernici e acrilici, induriti e depositati gli uni sugli altri, creano un crogiolo di crome cangianti, un’apoteosi di materia colorate che sembra disfarsi alla vista. Spiega la curatrice che, assieme all’altra opere presente in sala, Rag-to-Wobble (2020): “Queste opere sono state recentemente definite anche ‘environmental abstractions’ (astrazioni ambientali), un’accezione, quest’ultima, che Jackson ama particolarmente perché sottolinea come il suo approccio, che recupera e riutilizza materiali di scarto e avanzi di pittura per dare integrità strutturale al dipinto, sia innanzitutto il riflesso di un senso di responsabilità sociale nei confronti di tutto quello che la circonda, dell’attenzione alle dinamiche relazionali tra uomo e natura, e dell’etica ambientalista che contraddistingue tutto il suo percorso, artistico e non solo.”
Eccola allora che alla vivacità delle crome, alla caoticità della materia stratificata, corrisponde metaforicamente, l’accettazione delle diversità, della mutabilità e delle relazioni tra le persone. La convivenza tra materiali diversi, l’incastro e le sovrapposizioni rispecchiano idealmente il pensiero dell’artista che concependo queste ‘“anti-canvas”, è come se ogni opera fosse un manifesto che dichiara come la pittura sia sinonimo di libertà espressiva ed esistenziale.