Testo di Elisa Caggiula —
“Perché rifiutare il vecchio se lo si può modernizzare con qualche colpo di pennello? Questo porta novità sulla vostra vecchia cultura. Siate aggiornati e distinti allo stesso tempo. La pittura è finita. Tanto vale darle il colpo finale. Détournez (Deviare). Viva la pittura!”. Così esordiva in un piccolo manifesto parigino Asger Jorn, pittore danese e figura di spicco del movimento situazionista, nonché uno dei principali animatori della ricerca nel campo della ceramica. Era il 1954, e Asger Jorn, su invito dell’amico artista Enrico Baj, accettò di trasferirsi ad Albissola, un piccolo borgo della riviera ligure dove ebbe la possibilità di muovere verso nuove direzioni l’arte del fuoco e dell’argilla.
Così una sperimentazione, un tempo svolta su suolo albissolese – in quella che Marinetti definì come “la capitale ceramica d’Italia” – sembra ritrovare casa, a distanza di quasi settant’anni, negli spazi di Fondazione Officine Saffi. Un’unica grande sala, dall’allestimento firmato Fosbury Architecture con il sostegno di Iris Ceramica Group, mette in mostra fino al 18 gennaio, Supponiamo un amore, collettiva di quattro artisti chiamati ad esplorare per la prima volta le possibilità di un medium dalla storia antica: la ceramica.
Mattoni, mattoni e ancora mattoni, quello che all’apparenza sembra un labirinto si rivela in realtà un processo della mente; una mente comune a Jacopo Belloni (Ancona, 1992), Giuditta Branconi (Sant’Omero, 1998), Isabella Costabile (New York, 1991) e Rebecca Moccia (Napoli, 1992) che hanno immaginato, pensato, creato queste opere, tra prove, sperimentazioni e piccole epifanie, in una tensione tra realtà e immaginazione che si fa chiara sin dal titolo. “Supponiamo noi due; un amore nulla più; supponiamo un amore, che non voglio che vuoi tu?”: così il brano di Rino Gaetano sembra risuonare come un ritornello nella testa tra gli spazi di Officine Saffi. Nel brano un amore immaginato, supposto, forse non corrisposto, scatena un misto di sofferenza e desiderio. Questo atto di supposizione diventa qui metafora, un esercizio di immaginazione che, per ogni “prima volta” – in questo caso l’approccio alla ceramica – crea una tensione nelle aspettative, di cui soltanto il tempo sarà rivelatore.
Nel frattempo, i quattro artisti, invitati come ospiti in residenza da Officine Saffi Lab, hanno avuto l’opportunità di questo “esercizio” con la produzione di un’opera ciascuno, la cui realizzazione ha attinto liberamente tra strumenti, tecniche, materiali e conoscenze tanto care alla Fondazione. Pur appartenendo a una stessa generazione di artisti cresciuti in Italia tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, Belloni, Branconi, Costabile e Moccia si contraddistinguono per ricerca artistica, con differenti percorsi, linguaggi e tematiche trattate.
Tra i numerosi mattoni disposti con rigore e simmetria, come a creare delle piccole “stanze”, si va incontro a Piatto misto di Isabella Costabile. L’opera si configura come un’architettura organica dove stabilità e proporzioni si creano a partire da un elemento centrale: uno scola piatti di plastica recuperato e dipinto. Diventato forma geometrica, unisce gli elementi della scultura (levaolio, mattarello, cucchiaio, rete di metallo, legno), raccolti o prodotti dalla stessa Costabile. Non solo piatti o tazzine: la ceramica è anche sostengo, elemento strutturale, una gamba del tavolo a tutti gli effetti, e questo ne stravolge il significato più tradizionale. Proseguendo lungo il percorso espositivo è la volta di Jacopo Belloni con Falò chiacchierone, un progetto scultoreo che, come un cammino inverso, cerca di indagare la relazione tra uomo, tecnologia e narrazione. Proprio il focolare – per questo Falò – può considerarsi la prima tecnologia padroneggiata dall’uomo; allo stesso tempo, ha rappresentato per millenni il fulcro della parola condivisa, tra favole e miti – per questo Chiacchierone. Belloni ricrea non solo metaforicamente ma anche fisicamente un vero e proprio focolare con un risultato sicuramente ben diverso da quanto ci si potrebbe aspettare, dato l’uso che l’artista fa solitamente della seta. Su alcuni mattoni messi in fila, quasi come un piedistallo, alle spalle di Belloni, si trova Broke’n’broken di Giuditta Branconi. Un’opera spezzata e basta – così sostiene l’artista – creando una sorta di dittico, dove a voler essere “spezzata” è la figura maschile posta al centro, vuoi per fortuna o sfortuna. Fiorellini, fiocchetti e uccellini adornano insieme a silhouette femminili questa composizione vivace, fatta di più livelli e con varie tecniche, trasformando l’opera in qualcosa di rumoroso, quasi urlante. Un urlo che grida “mi manchi, ma siamo lontani”. Infine, è la volta di Rebecca Moccia, che chiude il percorso espositivo con The Loners, cinque sculture nate da un lavoro di ricerca, iniziato nel 2021, che vede al centro la cabina elettorale. Non solo simbolo di voto, ma anche un’architettura su cui riflettere; la cabina elettorale, grazie al materiale ceramico, assume qui un carattere monumentale. Tra dentro e fuori, levigato e non levigato, Moccia parla di presenza umana e politica, una presenza solitaria, tanto cara all’artista, che si fa più forte in una delle sculture, dove è applicata un’immagine scattata con una camera termica a un gruppo di manifestanti.
Ettore Sottsass affermava: “Le ceramiche sono vecchie come i denti di mammut, come le costole degli orsi, come le corna delle renne.” Ma anche qualcosa di antico come la ceramica può subire – detta in gergo situazionista – un détournement. Un détournement del medium, questo accade da Officine Saffi. Non più anfore o vasi, ma struttura, fuoco, urla e solitudine. Supponiamo un amore è solo uno dei tanti modi: il primo appuntamento di un ciclo espositivo volto a esplorare il potenziale della ceramica all’interno della pratica di artisti emergenti. Non resta che attendere e scoprire le prossime proposte.
Cober: Jacopo Belloni, work in progress at Fondazione Officine Saffi – ph Alessandra Vinci