Testo di Ilaria Dal Lago —
Fare esperienza di una contraddizione significa abbracciare un’incoerenza, una mancanza di chiarezza; allo stesso tempo significa cogliere la possibilità di leggere contrasti, vedere sfumature e direzioni diverse e inaspettate.
La GAM di Torino presenta i lavori di cinque artisti – Francesco Barocco, Riccardo Baruzzi, Luca Bertolo, Flavio Favelli e Diego Perrone – nella mostra curata da Elena Volpato Sul principio di contraddizione, un racconto della capacità di ognuno di loro di riuscire a racchiudere dentro le opere opposti e ambiguità, svelando la capacità delle immagini di non esaurirsi al primo sguardo.
Diego Perrone (Asti, 1970) utilizza per le sue sculture il vetro, materiale particolarmente anti- scultoreo, attraverso cui la luce penetra mostrando cosa c’è al suo interno, facendo emergere dal vetro la leggerezza degli intrecci di colore, che creano un effetto fumoso e vaporoso, enfatizzato dall’immagine pavimentale che raffigura un drago.
Le forme dei lavori di Perrone ricordano delle teste antropomorfe al cui interno lo spettatore può scorgere dei ricordi e delle immagini non più chiare e perfettamente visibili, ma fragili nella loro ambiguità.
Come le sculture di Perrone, le teste e i busti in gesso di Francesco Barocco (Susa, 1972) portano con sé segni di memorie date dal tratto dell’artista; è difficile capire se il disegno scuro stia cercando di liberarsi dalla materia o se, al contrario, venga accolto dal bianco del gesso. Disegno e scultura si sovrappongono, mettendo in luce il momento in cui l’immagine è in divenire, senza che si riesca davvero a mettere a fuoco.
L’immagine si cela agli occhi di chi guarda in Veronica 17#05 (2018) di Luca Bertolo (Milano, 1968), che rimanda al velo contenente l’impronta del volto di Gesù; l’artista utilizza il trompe l’oeil per dipingere un telo teso ai quattro angoli su cui non si riesce a scorgere nessuna effigie, forse perché catturata dal colore del quadro, forse perché mai davvero impressa. Bertolo fa nascere le sue opere dalla contraddizione, inventando copertine di libri, eliminando la presenza dei soggetti da vecchie fotografie.
Arlecchino Pescatore (After Birolli) (2019) di Riccardo Baruzzi (Lugo, 1976) è un dipinto che ha in sé forme e figure sovrapposte senza una precisa definizione, e che dialoga con la struttura in legno posta davanti a esso; avvicinandosi all’architettura si scorge un apparecchio da cui proviene il suono di due richiami da caccia e su cui è segnato l’ indirizzo dello studio di Baruzzi, Via Saragozza 93, che dà il nome all’opera. L’artista cerca di far convivere la realtà del suo studio con quella del luogo della mostra, donando e contemporaneamente togliendo una collocazione spazio-temporale al suo Arlecchino.
Flavio Favelli (Firenze, 1967) trattiene ciò che sta fuori attraverso il materiale: l’artista utilizza specchi graffiati in Estate 1978 (2021), creando delle superfici che più che riflettere sembrano inglobare le figure, perdendo la propria funzione originaria e riuscendo a congelare qualunque cosa si avvicini a esse.
Con Spalti (2021) Favelli fa convivere due dimensioni in una stessa; l’architettura che si fa spazio nella stanza sembra un teatro, luogo in cui lo spettatore e l’attore vivono l’ambiguità attraverso lo spettacolo messo in scena. Le gradinate dell’opera sono vuote e a occupare la parte centrale è il visitatore della mostra; un invito, forse, ad abitare liberamente lo spazio della contraddizione, vivendolo come occasione di consapevolezza.