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Ultimi giorni – 3 giugno – per visitare il secondo episodio di Stupido come un pittore #2: un progetto sviluppato in tre tappe. Dedicato alla giovane pittura italia, questo percorso espositivo è stato strutturato da Simona Squadrito e Rossella Farinotti come momento di dialogo e di confronto tra esperienze e visini differenti. Partendo dal curioso incipit – «In Francia c’è un vecchio detto: “stupido come un pittore”» Marcel Duchamp – “la mostra intende stimolare una riflessione sulla necessità insita nella pittura italiana di trovare il giusto bilancio tra i modelli della tradizione pittorica e la necessaria evoluzione di questo linguaggio, facendo emergere quelle ricerche che riescono a mettere in discussione, appropriandosene, i modelli tradizionali attraverso una rilettura della storia dell’arte: linguaggi ed esiti che si pongono in una continuità storica attraverso il superamento di forme di pensiero ed estetiche, dove la storia non viene letta come un processo verticale, ma orizzontale, e i concetti di “vecchio” e di “nuovo” vengono sostituiti da quelli di ‘vicino’ e ‘distante’.”
In Stupido come un pittore #2 gli artisti selezionati sono messi in dialogo con Mimmo Germanà, l’outsider della Transavanguardia italiana, scelto per l’iconicità del suo stile pittorico, che risulta emblematico rispetto alla pittura italiana degli anni Ottanta. In mostra saranno esposti una serie di disegni su carta della collezione di Carlo Lioce, della Room Galleria e un dipinto a olio.
Gli artisti coinvolti in questo secondo appuntamento sono: Giovanni Copelli, Linda Carrara, Giacomo Montanelli, Giulio Saverio Rossi, Michele Tocca e Mimmo Germanà.
L’intervista con le curatrice sulla prima mostra.
Segue il testo critico che accompagna la mostra di Alberto Mugnaini —
L’intelligenza della bêtise
“Divenire animale significa appunto fare il movimento, tracciare la linea di fuga in tutta la sua positività, varcare una soglia, arrivare a un continuum di intensità che valgono ormai solo per se stesse, trovare un mondo di intensità pure, in cui tutte le forme si dissolvono e con loro tutte le significazioni, significanti e significati…”Deluze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore (1975)
In questi ultimi tempi le discussioni sullo stato della pittura, intesa come genere autonomo nel contesto delle arti visive, si sono arricchite dei più variegati punti di vista, riguardo la sua attualità, il suo stato di salute e la sua stessa liceità nell’epoca che stiamo attraversando. Puntando i riflettori sulla giovane pittura italiana, e mettendola a confronto con personalità di più consolidato spessore storico, Rossella Farinotti e Simona Squadrito hanno intitolato la loro rassegna, quasi per antifrasi, prendendo in prestito la nota massima citata e immortalata da Marcel Duchamp, “Stupido come un pittore”.
Che questi giovani autori siano tutto l’opposto dello stereotipo dell’artigiano della tavolozza invischiato nelle sue mestiche e incapace di districarsi dalle forzate traiettorie della sua manualità per elevarsi alle superiori sfere del pensiero, è un dato di fatto, ma, prendendo in controbalzo la palla che Duchamp ci ha lanciato, vediamo se ci riesce di prendere in contropiede anche questo luogo comune cercando di cogliere in esso un sottofondo di senso rimosso.
Già nel 2013 una mostra di Cesare Biratoni aveva lanciato un segnale nella direzione di un ripensamento del rapporto che lega la pittura alla stupidità: con il titolo “Nessuno è più stupido di un pittore” si rimetteva l’accento sulla radice etimologica di questa parola ricollegandola a una condizione di stupore, di sorpresa e di rapimento.
Ma prendiamo ancora più alla lettera la citazione duchampiana nella sua versione originale, bête comme un peintre: dove potrebbe condurci, oggi, questo raffronto con una condizione di animalità?
La pittura, non dimentichiamolo, nacque in una grotta, e nacque in relazione alla vita e alla morte di diverse specie di creature, per propiziare, celebrare ed eternare questa vita e questa morte che erano l’una condizione dell’altra. Chi potrebbe negare che l’aurora della pittura sia stata salutata da un concerto di versi bestiali e abbia trovato la sua ragione fondante nella carne e nel sangue degli animali? La bestialità, si potrebbe anzi dire, è il peccato originale della pittura. Non potrebbe essere anche una delle condizioni della sua salvezza? Nei momenti in cui durante il secolo scorso sembrò che venisse realmente relegata ai margini dell’arte contemporanea, per difenderla e salvaguardarla, schierandosi sul versante opposto rispetto alle conclusioni a cui era invece arrivata la riflessione sull’art brut, si cercò di incrementarne il lato concettuale, come accadde con il gruppo Support/Surface in Francia e con la Pittura Analitica in Italia. Che dire se si capovolgesse la prospettiva e si rivalutasse, invece, proprio questo aspetto della bêtise?
Nel 1962 uscì uno studio di Desmond Morris dedicato alla pittura praticata da alcune scimmie, che nello spiegare come e perché le scimmie facessero arte cercava di spiegare al contempo il mistero del fare arte tout court. Ma non solo primati dotati di una loro rudimentale manualità dettero prove sorprendenti se messi in grado di usare colori e pennelli. “That’s a damn talented elephant!” pare abbia esclamato Willem De Kooning vedendo i disegni tracciati con la proboscide da un’elefantessa dello zoo di Syracuse. Queste testimonianze, rintracciando dei principi compositivi, degli schemi grafici e un’autoconsapevolezza tecnica nelle prove pittoriche eseguite da animali, hanno dunque cercato di mettere in discussione un principio dato per scontato, un luogo comune pure esso, e cioè che non si dia possibilità di arte al di fuori dei confini dell’umano.
Nella conquistata consapevolezza che riporta l’essere umano alla dimensione animale, di cui si fece manifesto, ad esempio, L’animale che dunque sono dell’ultimo Derrida, nella revisione radicale dello statement heideggeriano dell’animale come “povero di mondo”, con gli studi relativi al cosiddetto antispecismo e con le derive post-human che guardano all’animale non meno che al cyborg come soglia di una ibridazione inevitabile, anche la bêtise trova forse il suo riscatto. È arrivata forse l’ora della sua emancipazione dal confino che le inflissero gli stupidari ottocenteschi, in cui trova appunto origine la frase di Duchamp, e che ebbero il loro massimo cultore nella persona di Gustave Flaubert, egli stesso, del resto, stupido patentato a tutti gli effetti, o, per meglio dire, “idiota della famiglia” per eccellenza.
Filiberto Menna, con La linea analitica dell’arte moderna, nel delineare le vicende di ricerche e di tendenze di vario tenore ma tutte votate alla razionalità e all’autoconsapevolezza linguistica, non potè fare a meno di verificare la presenza di una falla nel muro di precetti e di progetti che stava illustrando: un “controdiscorso”, un quid incontenibile di irrazionalità, una vena di mistero, di magia, di imponderabile deriva nell’ordine aritmetico delle griglie e delle sintassi, un disavanzo incolmabile e non padroneggiabile nel calcolo degli effetti e dei risultati. Ecco emergere dunque, quando meno te l’aspetti, nel compatto ordito del tessuto razionale, il cortocircuito, la vertigine, lo scacco, lo stupore, la regressione. E forse, perché no, un barlume di animalità.
Oggi lo statuto dell’arte si è arricchito di studi e di ricerche che ne hanno ampliato irreversibilmente i confini da un punto di vista epistemologico – basti pensare alle collusioni individuate da Nelson Goodman o da Louis Marin con l’universo scientifico e con il sistema del linguaggio – e nessuno ormai potrebbe negare alla pratica della pittura una sostanziale componente speculativa e sintattica.
Partecipando idealmente alle sorti della scienza, l’arte non può non condividerne però anche i limiti, i dubbi e le incertezze. Quando Foucault ne Le parole e le cose parlava di sonno antropologico, di arretramento e di ritorno dell’origine, ci poneva di fronte all’idea di un anti-umanesimo come frutto estremo di un umanesimo che si apre oltre se stesso e trova la chiave per mettersi in discussione come senso unico dell’episteme occidentale. Così, la pittura che riflette sulla sua storia, che si assume le conseguenze della sua eredità, che si industria di tenerla viva nelle sue ramificazioni senza tagliare i ponti con le sue radici arcaiche, che affondano nei crepacci dai quali emerse l’homo sapiens, oltre a mettersi in gioco come gioco dalle regole sempre rinnovate e sincronizzate anzi sul ritmo del divenire, deve pur fare i conti con una sorta di residuato ancestrale non assimilabile entro i confini della personalità cosciente di chi la pratica. Chissà, forse è quello che voleva insegnarci Joseph Beuys se mai avessimo inteso la voce delle sue lepri e dei suoi coyote.
Certo, si dipinge col cervello, non con le mani, l’aveva già detto Michelangelo, che però poi non disdegna di raffigurare se stesso nel Giudizio come effige flaccida e scuoiata, come inerte spoglia animale. Interroghiamoci allora su questo sostrato, su questa eco sotterranea dell’origine che guida dai precordi del corpo la mano del pittore, con un moto derivante dalle correnti del sangue e dall’elettricità dei muscoli. Se la pittura è, come è stato detto, manifestazione dell’invisibile, con quali mezzi può sintonizzarsi con esso se non attraverso correnti ed energie altrettanto invisibili, indefinibili e imponderabili? Non viene da chiedersi, allora, se il nucleo più segreto e magico del fare pittura non evidenzi un qualche cosa che va oltre le potenzialità specificamente umane e non riveli tracce dormienti di un istinto perduto? Dove trova origine quel cortocircuito sensoriale che spiazza il gusto, quell’agguato del senso che genera lo stupore, se non in un estremo residuo istintuale, che potrebbe forse coincidere con quella seconda vista di cui ci parla Franz Marc, il quale pareva che guardasse il mondo attraverso gli occhi degli animali?
Potrebbe forse venirci in aiuto, per abbozzare una possibile risposta, il recente libro di Jean-Cristophe Bailly, intitolato Il partito preso degli animali: descrivendo comportamenti improntati all’eclisse, all’intermittenza e alla cancellazione, con piste da segnare, traiettorie da seguire, movimenti da dissimulare, possiamo trovare intuizioni accenni e modelli, o anche riecheggiamenti, risonanze e ricorrenze per rileggere secondo criteri sempre più sorprendenti il misterioso rapporto che lega peinture e bêtise.