ATP DIARY

Studi Festival: porte aperte sugli studi d’artista 1

[nemus_slider id=”54162″] Milano è stata protagonista di un festival della durata di cinque giorni: dal 15 al 19 marzo infatti Studi Festival ha dato vita ad eventi espositivi dislocati in tutte le zone della città, articolati in focus con la...

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Milano è stata protagonista di un festival della durata di cinque giorni: dal 15 al 19 marzo infatti Studi Festival ha dato vita ad eventi espositivi dislocati in tutte le zone della città, articolati in focus con la possibilità di visitare più di settanta luoghi diversi. Abbiamo scelto alcuni studi e fatto delle domande ai curatori e agli artisti coinvolti.

Anelli 8 – Intervista a Marta Pierobon

Artisti: Chiara Camoni, Sabine Delafon, Helena Hladilovà, Lucia Leuci, Clemen Parrocchetti, Marta Pierobon, Marzia Corinne Rossi, Marcella Vanzo, studio di Marta Pierobon.

A cura di Marta Pierobon e Lucia Leuci

ATP: Il progetto che avete presentato per Studi Festival ha un titolo “aperto”, nel senso che non definisce in nessun modo il tema dell’evento che avete organizzato. Cosa significa quindi Anelli otto?

Marta Pierobon: “Anelli otto” è il nome che abbiamo utilizzato per il progetto Studi Festival, ed è stata una scelta volutamente ambigua. Il mio studio si trova, appunto, in via Anelli al numero civico 8, e da qui è nata l’idea di utilizzare l’indirizzo dello spazio per dare il nome al progetto. Tra l’altro sono state coinvolte otto artiste e in qualche modo gli “anelli” concettualmente rimandano sia all’idea di catena/legame che ad una visione puramente femminile. Al contempo non c’è niente di troppo esplicito e dichiarato, è stato infatti importante per noi che l’approccio dello spettatore al progetto e alla mostra in sé, fosse il più libero e spontaneo possibile.

ATP: Lo spazio di Anelli otto è stato per un periodo uno spazio espositivo, ad oggi è diventato uno studio e un salotto culturale. In che cosa si è modificata la natura di questo spazio? Che identità e valore ha per voi oggi?

MP: Da quando Spazio_Morris ha cessato di utilizzare la sede di via Anelli come spazio espositivo si è trasformato sia nel mio studio che in quello di Alessandra. Ognuna di noi ha uno spazio per se stessa dove puoi lavorare e realizzare i propri progetti, e poi abbiamo una zona comune (che è quella dove abbiamo presentato il progetto per Studi Festival) che utilizziamo come luogo di scambio di idee sia tra di noi che con altri creativi, artisti, designer, scrittori…Lo spirito aggregante e di condivisione che si era creato con Spazio_Morris è rimasto assolutamente intatto e continua ad essere molto presente ed attivo.

ATP: Le opere in mostra hanno tutte un legame con la materia e la concretezza del gesto. Soprattutto i materiali usati per realizzarle sembrano avere un legame, dalla terra cruda al neon è come se si ripercorresse la storia dei materiali nell’arte. Questo link tra le opere è stato pensato e voluto oppure è casuale?

MP: Quando io e Lucia Leuci abbiamo iniziato a pensare al progetto è stato subito evidente la direzione verso la quale volevamo lavorare. La scelta delle artiste è stata molto spontanea e immediata proprio perché entrambe abbiamo sentito la necessità di raccontare i diversi rapporti e i linguaggi utilizzati da alcune artiste verso la materia. Il risultato è un viaggio articolato nei meandri della materia, se pur racchiuso in un progetto di piccole dimensioni.

Anelli otto,   Studio di Marta Pierobon - Studi Festival Milano 2016 - Installation view
Anelli otto, Studio di Marta Pierobon – Studi Festival Milano 2016 – Installation view

Intervista a Gianni Caravaggio e Rebecca Moccia per Linea del tempo annodata

Artisti: Alice Cattaneo, Gianni Caravaggio, Satoshi Hirose, Silvia Mariotti, Diego Miguel Mirabella, Rebecca Moccia Ornaghi&Prestinari, Paolo Piscitelli con un progetto speciale di Cosimo Filippini. Studio di Rebecca Moccia, Silvia Mariotti, Emanuele Resce, Cosimo Filippini, Claudia Ventola.

A cura di Gianni Caravaggio e Rebecca Moccia

ATP: Nel titolo della mostra per Studi Festival c’è l’immagine di questo nodo annodato, cos’è questo intreccio sulla linea del tempo? 

Gianni Caravaggio: Quello che a primo acchito può sembrare un’immaginazione ludica con fondo mitologico in sostanza è una riflessione su quello che si potrebbe definire come ‘filologico’. L’idea della filologia all’interno della linearità oggettiva della storia, della storia dell’arte, introduce un elemento di natura soggettivo, emotivo e arbitrario. In effetti esso permette la contemporaneità di stima e di emotività di cose che in una visione di linea del tempo “archivistica” sono collocate in netta successione. E’ possibile avere la sensazione concreta che la storia non sia una successione di fatti in una statica progressività ma che questa linea possa ad un certo punto “annodarsi” e saldare fisicamente e non solo nella virtualità della memoria, un pezzo del passato con un pezzo del futuro proprio come succede in un nodo. Rebecca ed io abbiamo scelto rispettivamente tre artisti delle nostre differenti generazioni che stimiamo. Abbiamo scommesso su un’ipotesi di natura psichica, ovvero che la stima che tra di noi nutriamo rispettivamente, agisse come “un riverbero garante” sul rapporto tra gli altri artisti in mostra. Il risultato della mostra mi sembra contenere e trasmettere una precisa familiarità contemplativa.

ATP: Lo studio che avete aperto in questi giorni per il festival sembra quasi essere uno spazio perfetto per le esposizioni: è semplice, asettico, pulito e si presta benissimo ad ospitare una mostra come questa. Secondo voi in che modo sta cambiando per gli artisti, oggi, il rapporto con il proprio studio?

Rebecca Moccia: Lo studio è un luogo di sperimentazione, di scambio, di scoperta, di messa in gioco di un progetto o di un lavoro oltre che un luogo in cui si produce fisicamente qualcosa (nello studio ad esempio io non produco fattualmente quasi niente). E’ sempre stato questo. E’ vero però che ultimamente questo tipo di operazioni, che nello studio si facevano in solitaria o con pochi intimi stanno tendendo verso il pubblico. Questa tendenza è evidenziata da un progetto come Studi Festival; si tratta di una necessità di apertura, una volontà di proporre il proprio spazio come terreno primario ed immediato di dialogo, perché forse non ve ne sono altri o semplicemente perché è più “naturale”.

ATP: L’opera di Cosimo Filippini permette ai visitatori di vivere con voi il momento dell’allestimento.  La documentazione fotografica coinvolge chi di solito è estraneo all’organizzazione, in quanto fruitore del prodotto finale, e lo proietta direttamente nell’allestimento. Come è avvenuto quel momento di lavoro e come si è sviluppato? 

GC: La mia sensazione è che il progetto di Cosimo Filippini non sia quello che di solito si definisce come documentazione perché le sue foto mi sembrano la testimonianza di una profonda empatia con i gesti del formarsi dei lavori e questo mi dà un senso di bellezza.

RM: La mostra è stata costruita veramente in maniera collettiva, lo spazio è stato creato insieme, senza sovrastrutture, imposizioni o temi, soltanto gli artisti, le loro opere e quelle degli altri. Il progetto fotografico che accompagna la mostra lo testimonia. Sono felice di aver predisposto il terreno per questo incontro e di aver imbiancato i muri.

Linea del tempo annodata. Installation view - Foto Cosimo Filippini 2016 - Studi Festival
Linea del tempo annodata. Installation view – Foto Cosimo Filippini 2016 – Studi Festival

Aosta Dreamin’

Artisti: Matteo Cremonesi, Joykix, Samuele Menin, Enrico Smerilli

A cura di Rossella Moratto

ATP: Lo spazio aperto per Studi Festival è uno spazio multi-identitario: è una casa, uno studio d’artista e per l’evento è diventato anche spazio espositivo. Che valore ha per te lavorare in un ambiente che è intriso di lavoro e di quotidianità e non uno spazio codificato come una galleria tradizionale?

Rossella Moratto: Potendo avere a disposizione uno spazio dedicato – una parte dello studio di Joykix che è stato svuotato per l’occasione – insieme agli artisti – Joykix, Enrico Smerilli, Matteo Cremonesi e Samuele Menin – abbiamo deciso di organizzare una mostra in cui i diversi lavori potessero confrontarsi sulla base di un orizzonte concettuale comune. Non c’è stata, come in altri studi, l’interazione e la commistione con la parte abitata. Il lavoro non cambia quindi, rispetto all’organizzare una collettiva in una galleria anche se il calore di un luogo vissuto e abitato si percepisce comunque e lo hanno percepito soprattutto i visitatori che sono stati accolti in una casa-studio, quindi un ambito più informale, dove hanno potuto vedere anche il “dietro le quinte” del lavoro artistico.

ATP: Aosta Dreamin’ è la via nella quale è situato lo spazio ma è soprattutto l’immaginario del sogno che stimola la curiosità. Qual è questo sogno che anima l’esposizione?

RM: Il sogno di Aosta Dreamin’ è la possibilità di riscoprire l’universo quotidiano che ci circonda. Modificare la nostra percezione abituale degli oggetti della nostra casa e della nostra vita, che vediamo sempre ma non guardiamo mai con attenzione, spostandola dall’ovvio all’inconsueto. Nell’incessante flusso comunicativo in cui siamo immersi, che annulla la sorpresa e la scoperta e rende impossibile lo straordinario, l’endotico è il nuovo esotico.

ATP: Le opere in mostra si interrogano, e interrogano chi guarda, sul potere di fascinazione degli oggetti quotidiani e su quanta poca attenzione gli si attribuisca ogni giorno. È quindi questo l’unico dialogo che le unisce o c’è dell’altro che traspare anche dall’allestimento da te pensato?

RM: I lavori in mostra declinano in diversi modi la necessità di “interrogare l’abituale”, come dice Georges Perec. Ci sono anche delle affinità nel modo in cui gli artisti riportano al centro l’oggetto qualunque, attuando pratiche di decontestualizzazione e ricontestualizzazione, lavorando sul dettaglio, avvicinando lo sguardo e concentrandosi sull’oggetto che perde così il suo valore d’uso per acquistare presenza e consistenza e una valenza estetica autonoma.

Samuele Menin,   Pull-OVER #1,   #2,   #3,   2016. Maglione,   ferro,   plexiglass
Samuele Menin, Pull-OVER #1, #2, #3, 2016. Maglione, ferro, plexiglass