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Milano è stata protagonista di un festival della durata di cinque giorni: dal 15 al 19 marzo infatti Studi Festival ha dato vita ad eventi espositivi dislocati in tutte le zone della città, articolati in focus con la possibilità di visitare più di settanta luoghi diversi. Abbiamo scelto alcuni studi e fatto delle domande ai curatori e agli artisti coinvolti.
Cometa sepolta sottoterra – intervista a Martino Genchi
Studio di Mario Airò, Diego Perrone, Stefano Dugnani , artista: Martino Genchi
ATP: Il titolo dell’evento in cui presenti due tuoi lavori per studi festival è Cometa sepolta sottoterra: cos’è per te questa cometa? Ha a che fare per te con il tempo e con lo spazio artistico?
Martino Genchi: In realtà è solo un titolo: un accostamento di parole che serve ad evocare un’immagine che potrebbe anche non esistere in altra forma. Per me il lavoro deve sempre essere autosufficiente, parlare da solo. Le interpretazioni gli fluttuano attorno come una nube che non si definisce mai. Avevo quindi bisogno di un’immagine che non funzionasse come la descrizione di una cosa precisa. In questo modo il titolo è in grado di incorporare tutta una serie di suggestioni che mi interessano senza limitarsi ad una e una soltanto, lasciando assaporare il complesso rapporto che c’è tra la stratificazione del reale e la sintesi della percezione. Quando questo sfasamento diventa visibile si avverte che qualcosa non è al posto giusto e la sensazione dell’errore diviene in qualche modo “rivelante”: è quello che accade anche nel lavoro che porta lo stesso titolo dell’evento, una struttura di luci a neon grondanti acqua. Ma c’è anche, solo per farti un altro esempio, una meditazione sull’immagine e sulla tecnologia. Il titolo è stato composto come soluzione a un problema che avevo in mente: come si connettono con l’esperienza quotidiana figure supernaturali e sublimi come quelle astronomiche? La possibilità di vedere coi nostri occhi le foto di Titano fatte dalla sonda Cassini, di sapere fra quanti anni un certo asteroide passerà vicino alla Terra, di indovinare in quale parte di cielo è più probabile che esploda una supernova – tutte queste cose hanno trasformato radicalmente la possibilità del mito, non sostituendola però con qualcosa di altrettanto evocativo, ma con quella che in fondo è pura informazione. Mi sembra che il nostro tempo stia distruggendo qualsiasi distinzione tra idee astratte e oggetti concreti. Un fatto divertente è che è anche quello che ha sempre cercato di fare l’arte, trasportando ai sensi cose che ne stanno normalmente lontano.
ATP: Riflettendo sulle tue opere in mostra: la scultura posta all’interno dello studio, dal colore blu e con un corpo sinuoso, mi fa pensare molto all’abbandono di un essere vivente, quasi senza più forze, con un ciclopico fanale che fa da occhio e che probabilmente si spegnerà con il corpo. Quale idea ha dato vita a questa scultura?
MG: Una sera stavo parlando al telefono mentre camminavo. Avendo gli occhi non impegnati guardavo le macchine in un parcheggio accanto alla strada. In quel momento ho immaginato questa figura, che per me è semplicemente la traccia lasciata nello spazio-tempo dal movimento del fanale – come una scia – che si appoggia indolente. Vale lo stesso discorso che facevo anche prima rispetto all’interpretazione. Il lavoro non si risolve completamente in un rimando a qualcosa che già esiste, neppure un’idea. Non è importante che cosa l’opera è materialmente, o che concetto esatto cerca di veicolare, quanto quale tipo di relazione complessa genera nei sensi e nel cervello dell’osservatore. Questa reazione non è mai pura, ma è un misto di conoscenze pregresse, strategie interpretative personali, convinzioni e convenzioni che vanno dalla cultura di un’intera società a quello che si è mangiato per colazione… Ogni volta è una sorpresa anche per me. C’è uno sviluppo di pensiero in tutto il processo, prima e durante la costruzione, ma che continua anche dopo, quando il lavoro materiale è terminato. Ogni interpretazione entra nell’opera a tutti gli effetti, anche quelle degli altri. Per esempio una ragazza, mentre le raccontavo di quest’oggetto, mi ha parlato del mito delle metamorfosi. È un elemento anche quello: qualcuno che per sottrarsi al suo destino, invece di accelerare, si blocca in una forma allo stesso tempo immobile e inafferrabile…Oppure ho un amico che lavora nella modellazione 3D. Per lui è interessante l’estrusione di una luce perché dice che è una cosa che nel software non si può fare. Credo che ognuno di noi abbia un modo suo proprio di interpretare l’incontro con qualcosa di sconosciuto ed è in buona sostanza questa l’idea alla base di tutto quello che faccio.
ATP: Studi Festival permette agli artisti di aprire le porte del luogo di ideazione, di ricerca e di lavoro degli artisti, certo le cose sono cambiate rispetto all’atelier del secolo scorso, oggi molti artisti creano la propria arte senza aver bisogno di un luogo fisso dove “creare”, che valore ha per te l’ambiente-studio oggi?
MG: L’ambiente dello studio dovrebbe essere il luogo ideale per favorire la qualità della produzione. Certo, per molte cose ora basta uno smartphone, si può comprare la manodopera di altri e gestire il tutto dal proprio divano, dal treno o camminando nel parco. A volte mi trovo a lavorare in maniera piuttosto distopica, con pezzi della stessa opera che stanno in vari luoghi fino all’ultimo momento, appunti sparsi in città diverse… Capita spesso, sia per scelta che per compromesso. C’è però un rapporto empatico, come una “trasmissione” che non può avvenire se non in presenza. Personalmente ho bisogno di vivere coi miei lavori per un po’, è una cosa che mi fa stare bene.
QUINCAILLERIE – Intervista a Patrizia Emma Scialpi e Flavio Scutti
A cura di Patrizia Emma Scialpi e Flavio Scutti
Artisti: Calembour, Mario Conte, Lucia Leuci, Antonio Cavadini, Vincenzo Simone, Makika, Luca Tanzini.
Studio di Gigantic, Patrizia Emma Scialpi e Pelagica
ATP: Il titolo della mostra che presentate per Studi Festival è una parola onomatopeica, fa proprio pensare al rumore delle cianfrusaglie, al rumore di oggetti-ferraglie in uno svuota tasche. Qual è l’origine di questo titolo? A cosa si riferisce nello specifico?
Flavio Scutti: Prende spunto dal concetto che si nasconde dietro la mia e-mail. Quando aprii il primo account di posta elettronica internet era agli albori e gli utenti che erano migrati dalle piattaforme BBS avevano tutti dei nick name che in qualche modo raccontavano una storia. Sentivo la necessità di avere una parola che racchiudesse una serie di significati e fosse al contempo identificativa del nuovo mondo che si stava delineando. Trovai l’ispirazione leggendo il testo teatrale “Hamlet Suite – Riversione-collage da Jules Laforgue” di Carmelo Bene, dove c’è questa frase “Frasi chincaglierie ricordi in grumi”. In fin dei conti i primi siti web e soprattutto quelli ospitati su Geocities erano delle trasposizioni in tutti i sensi del mondo degli utenti che digitalizzavano i loro archivi per renderli disponibili pubblicamente. Si trovavano collezioni di foto storiche, francobolli, indumenti, giocattoli, liste di nomi, tabulati, libri vecchi di autori sconosciuti, ecc.. chincaglierie appunto, proprio come succedeva nei mercatini d’antiquariato. Fatto sta che di lì a pochissimo si diffusero i siti di marketplace e la condivisione divenne un reale scambio dei beni tra gli utenti che ha sancito una vera rivoluzione commerciale. Eravamo ben lontani dall’utilizzo che si ha oggigiorno della posta elettronica. Le prime mail che scambiavo con altri utenti, magari apparentemente non avevano nessun valore oggettivo, ma trasportavano emozioni ed erano molto importanti per me. Per questo le chiamai le chincaglie.
Patrizia Emma Scialpi: Con Flavio avevamo iniziato a confrontarci sulle rispettive ricerche artistiche, a dialogare sul suo lavoro e sulla digital art e in particolare mi aveva colpito questo suo discorso sulle chincaglie quindi realizzare una mostra nel mio studio mi è sembrata l’occasione adatta per collaudare una collaborazione tra le nostre visioni della cosa: gli ho proposto quindi di percorrere a ritroso questo concetto trasportando l’idea dalla dimensione web a quella degli oggetti. Ho suggerito poi di utilizzare come titolo del progetto la radice francese del termine chincaglierie, Quincaillerie perché individua rigattieri, ninnoli, bigiotteria varia ma anche ferramenta e ferrivecchi e poi per il suo valore fonosimbolico.
ATP: Il tema che fa da fil rouge nell’esposizione è il mondo virtuale, come entra nella dimensione artistica e come l’arte, a sua volta, reagisce ad esso. Ogni opera è come fosse un link per le altre, un effetto domino nel quale l’una trascina l’atra. Come avete pensato l’allestimento della mostra in funzione del tema? Ci sono dei vostri interventi, non solo come curatori, per facilitare l’interazione tra i lavori esposti?
FS: Dopo aver invitato gli artisti a partecipare alla nostra idea li abbiamo lasciati liberi di creare quello che sentivano più attinente al tema. Poi abbiamo indetto delle giornate per il sopralluogo nello spazio espositivo e altre per l’installazione delle opere in cui gli artisti, autonomamente decidevano quale parte dello spazio utilizzare e come far dialogare le proprie opere con quelle degli altri. I nostri interventi sono diventati maggiormente incisivi nei punti in cui le opere erano più isolate valorizzandole nel percorso di fruizione su cui abbiamo innestato dettagli estetici come proiezioni di dinosauri, fili annodati, quadri di autori anonimi, luci colorate e cartoncini ritagliati.
PES: C’è da dire che questa era un’esposizione in cui l’elemento sonoro era molto importante per mettere in dialogo sia gli artisti che il pubblico ed è stato fondamentale durante l’inaugurazione: penso a Makika, progetto di Carlo Spiga in questa occasione sotto forma di una brutal folk band siberiana dal repertorio ascoltabile attraverso un walkman portato in giro per lo spazio o alle performance dal vivo di Luca Tanzini, Mario Conte, Flavio Scutti, Calembour e TonyLight.
ATP: Studi Festival è un omaggio agli spazi di creazione degli artisti, luoghi anche molto privati che ad oggi però subiscono facilmente trasformazioni e adattamenti anche per ospitare eventi, tipo questo. Come è cambiato ad oggi il rapporto dell’artista con il suo studio?
PES: Da diversi anni includo nella sua pratica artistica, la promozione di diversi progetti artistici o la promozione di situazioni ed eventi che prevedono la compresenza di altri autori. È in quest’ottica che rientra anche la scelta di utilizzare come studio un posto già con una sua identità, GIGANTIC (spazio fondato nel 2014 seguito da Elisabetta Claudio, Mario Conte, Matteo Ferrari e Andrea Volta) e attraversato da varie personalità artistiche (è anche sede di Pelagica). Sento l’esigenza di avere un luogo di lavoro che è al contempo luogo di creazione e di scambi, stimoli e possibilità di molteplici connessioni.
FS: Personalmente più che cambiare il mio rapporto con lo studio ho cambiato studio per adattarvi le mie esigenze. Molto spesso ho sentito la necessità di realizzare le mie opere nel luogo più indicato e molto spesso è coinciso con l’essere ospitati nello studio di un altro artista. Quasi tutti i miei progetti più importanti sono stati realizzati in questa condizione. Tuttavia lo stesso succede per degli artisti che decidono di realizzare le proprie opere nel mio studio, beneficiando di attrezzature e competenze diverse dalle proprie che arricchiscono il lavoro. Una dinamica che innesca delle compenetrazioni interessanti anche tra le varie discipline artistiche. Durante Studi Festival questo carattere viene enfatizzato dalla concentrazione delle energie che si manifestano un lasso di tempo molto breve e permette una sorta di liberazione degli spazi. Girare per la città e trovare delle porte aperte con un tasso di individui abbastanza alto che vuole ascoltare quello che hai da dire lo trovo molto atipico rispetto a quello che succede in altri luoghi e per me ha un valore che bisogna sostenere.