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Testo di Fabio Ippolito —
Il concetto di storytelling è oggi spesso associato al controverso mondo del marketing e della pubblicità, dove le storie servono per vendere, influenzare o manipolare l’ignaro consumatore. La narrazione è un metodo efficace, in molti casi, per veicolare un messaggio in maniera incisiva, e questo è dovuto alla dipendenza innata dell’essere umano dalle storie, qualcosa di cui gli uomini “sembrano aver bisogno allo stesso modo del cibo e dell’amore”[1].
Le tecniche di storytelling ritenute oggi più significanti non fanno altro che giocare su un nostro istinto primordiale, lo stesso che ha portato le prime comunità di esseri umani a raccogliersi intorno a un fuoco per raccontare di esperienze vissute, di leggende, per trasmettere insegnamenti, spaventare o meravigliare.
I processi narrativi su cui fa riflettere Liu Ye nella mostra Storytelling, in Fondazione Prada a Milano fino al 10 Gennaio 2021, riguardano quest’ultimo aspetto del raccontare, quello più autentico: la pratica della narrazione come esercizio di apprendimento, riflessione e, ovviamente, di evasione. L’allestimento della mostra, in particolare, chiama in gioco una pratica umana con radici molto profonde, quella che porta la nostra mente a fabbricare storie in continuazione, a configurarsi come una mente narrante. Ne L’istinto di narrare (2012), Jonathan Gottschall spiega come il nostro cervello crei costantemente narrazioni e trame, anche dove magari non esistono, come se fosse naturalmente predisposto a “unire i puntini” in ogni circostanza. Questa innata disposizione porta il visitatore di Storytelling a sviluppare dei racconti che uniscono i soggetti dei quadri all’interno di una narrazione propria. L’allestimento stesso della mostra favorisce questo naturale processo, esponendo i quadri in piccoli nuclei di massimo quattro opere, dove il singolo dipinto è portavoce, oltre che delle storie che racconta e rappresenta, anche di quelle che intesse con gli altri. Liu Ye stesso afferma: “I miei lavori suggeriscono messaggi diversi a seconda di dove vengano esposti”, suggellando l’importanza del contesto e dell’allestimento nell’ambito della mostra.
Storytelling è dunque una mostra che si alterna in molteplici nuclei tematici a seconda dello spettatore. Le relazioni che si instaurano tra i diversi dipinti si caricano di significati e raccontano storie differenti in base a chi le interpreta, e ciò trascende la semplice propensione a una lettura personale dei quadri, sottolineando, invece, la precisa inclinazione dell’uomo a creare storie. Alcune delle linee narrative che si creano tra i dipinti sono piuttosto semplici e immediate (ad esempio quella che lega i quadri inerenti al tema dell’amore o al rapporto tra Oriente e Occidente, uno dei fili conduttori di tutta l’esposizione) altre, invece, sono lasciate alla libera interpretazione dello spettatore, fortemente chiamato in causa come parte attiva nella mostra.
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Una delle connessioni più interessanti riguarda la sezione con le tre opere Catherine Deneuve (2012), Pinocchio (2011) e The Goddess (2018); le prime due raffigurano i soggetti dei titoli, la terza è invece un ritratto dell’attrice cinese degli anni ’30 Ruan Lingyu.
I livelli di lettura sono diversi: un primo tentativo potrebbe unire l’attrice francese Deneuve alla cinese Lingyu per i personaggi che più di tutti hanno segnato la loro carriera, entrambi portati a prostituirsi in segreto, pur per ragioni diverse. Tenendo comunque conto delle differenze che sussistono tra la protagonista di Belle de Jour (1967) e quella di The Goddess (1934), il ritratto che emerge dall’analisi di questi due personaggi non è certamente positivo, sottolineando le disparità di trattamento tra i generi e le conseguenti difficoltà che le donne si trovano ad affrontare nel quotidiano, pur all’interno di epoche e aree geografiche così distanti.
In un’altra lettura di questa storia, includendo anche il ritratto di Pinocchio, il centro della narrazione si costruisce sulle conseguenze dei comportamenti dei personaggi dipinti. La figura di Pinocchio campeggia al centro dello spazio, legando a sé gli altri due soggetti in un’unica trama. La sua presenza, giocosa e familiare tra due bellezze distanti e raffinate, forse un simpatico gioco dell’artista, può essere letta come monito: noto in tutto il mondo, Pinocchio unisce l’Occidente di Catherine Deneuve e l’Oriente di Ruan Lingyu e, col suo aspetto infantile e innocente, ci mette in guardia sulle conseguenze delle bugie. Il tema della bugia, del segreto e della menzogna riesce a legare i tre dipinti in un’unica narrazione, rendendo il burattino di Collodi una sorta di emblema della calunnia che convoglia in sé i significati delle altre opere. Tutti e tre i personaggi, infatti, subiscono le conseguenze dell’aver mentito o nascosto una doppia vita, anche se motivati da ragioni diverse e all’interno di contesti eterogenei.
In Storytelling,
Liu Ye e il curatore Udo Kittelman creano dunque un universo in cui il
visitatore è portato a riflettere, traendo insegnamenti e costruendo
connessioni mutevoli, tornando così al compito primario della narrazione. Lo
spettatore viene destato dal suo ruolo passivo e diviene narratore all’interno
di una mostra che ribadisce la forza della pittura figurativa nel XXI secolo,
una pittura che è decisamente in grado di coinvolgere e dire qualcosa, o
meglio, di raccontarlo.
[1] J. Gottschall, L’istinto di narrare, 2012, Bollati Boringhieri Editore, Torino.
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