Testo di Valentina Bartalesi —
Nel 2010 Anne Carson pubblicava Antropologia dell’acqua. Riflessioni sulla natura liquida del linguaggio. Si trattava di un testo ibrido, altamente evocativo e stratificato, nel quale attraverso l’acqua si potevano esperire il Linguaggio e la Memoria.
La ricerca di Rachele Maistrello, come in parte la scrittura di Carson – e da qui nasce lo spunto iniziale – è poetica in quanto intimamente razionale. L’impressione che si avverte visitando la personale Stella Maris ospitata dallo galleria no-profit Pelagica di Laura Lecce, è quella di un’immersione in un mondo d’acqua (ne avvertiamo lo scorrere incessante, ritmico) in cui le cose si sedimentano nel tempo. Il lavorio procede con una lentezza astrale, in un divenire perenne che ha la fragilità del sogno. La natura “liquida” del linguaggio può farsi immagine e sgorgare dal flusso della memoria, colando in immagini zuppe di significato, inafferrabili sempre. L’elemento “acquatico”, fondamentale nel progetto di Maistrello, sciacqua la contingenza dalle cose, lasciando tra le mani un’essenza pura che gronda possibilità.
Come molti dei discorsi artistici maturati nell’alveo della contemporaneità, anche l’opera di Rachele Maistrello approda ad una condizione post-mediale, giungendovi però da una radice definita, quella fotografica. L’intera ricerca pare infatti scaturire dalla riflessione e dal successivo riconoscimento, – cruciale nel suo caso – delle potenzialità e delle ambiguità insite al mezzo fotografico. Ad un primo sguardo le sue immagini potrebbero risultare genuine se non addirittura rassicuranti per via del nitore che le caratterizza. Eppure, kraussianemente, quelle stesse immagini celano tra le loro pieghe una finzione sottile (non solo semantica, ma pure tecnica), oltre che una storia notevole destinata ad emergere soltanto in filigrana. Ciò che interessa raggiungere con il dispositivo fotografico non è la cristallizzazione dell’attimo, quanto la registrazione, tramite il segno – sia esso espresso nel medium del disegno, dell’incisione o dello scatto fotografico – del suo processo evolutivo. Non è un attimo, ma un flusso; camminando con i piedi immersi nell’acqua, si intrecciando memorie e si compongono atlanti con le dita.
Le vicende “biografiche” dalle quali il progetto prende avvio, pur costituendone il cuore generativo tendono a tal punto ad una qualità universale da farsi trasparenti, leggerissime e perciò, insospettabili. E così accade.
Il lavoro Stella Maris nasce nel 2017 (per proseguire l’anno successivo) a seguito di un soggiorno compiuto dell’artista presso Stella Maris, una casa di riposo che brilla tra la laguna veneta e il mare aperto. I suoi ospiti, anziani non più autosufficienti, vivono avvolti dall’abbraccio delle acque. E’ possibile, verrebbe da chiedersi, dare forma all’acqua? Una bolla spazio temporale tra le acque. Mi chiedo se ci può essere un modo di darle una forma scriveva l’artista nell’inverno del 2017, interrogandosi sulla natura magnetica di tale realtà e sul come riflettere su di essa, prima ancora di sapere se potrà lì agire. La scrittura di Rachele è satura di pensieri e di visioni che traboccano, tracimano ed eccedono il senso comune, necessitando così di coagularsi in immagine. E come talvolta accade, gli estremi del progetto sono andati definendosi una volta che l’artista è giunta sul posto e ne ha potuto conoscere a fondo le dinamiche, senza perciò essere in alcun modo premeditati.
E’ bene tuttavia ricordare che, nonostante tali premesse, non si tratta di un lavoro sociale, o per lo meno, non lo è nella misura in cui si potrebbe istintivamente supporre: si tratta piuttosto di una meditazione profonda sulla possibilità insita nel linguaggio artistico di sublimare la contingenza. Inevitabilmente tale meditazione ha molto a che fare con determinati temi nodali, quali quelli della vita, della morte e della memoria. In questo senso, il lavoro appare intimamente e profondamente umano, un’opera in cui i segni dell’età convergono in immagini artistiche.
Inedita rispetto ad altre manifestazioni attuali risulta la circolarità della ricerca di Rachele Maistrello, in cui ciascuna delle componenti progettuali risulta connessa alle altre , in un rapporto di implementazione di significato.
L’opera di Rachele è trasparente, solida eppure liquida, fredda in quanto pura, fragile perché generata in una regione in cui le cose non hanno corpo, ma resistono tenaci a qualsiasi vento. La temporalità del suo lavoro è circolare, l’importanza dell’ambiente circostante effettiva, il valore del materiale onirico e dei pensieri degli anziani inestimabile.
Così, in galleria sono custoditi i precari frammenti di corteccia presi dagli alberi che gli anziani erano soliti vedere intorno alla casa di cura, destinati a divenire a loro volta “pelle” e “matrici”. Nella serie Stella Maris (versione #1, #2, #3), quelle stesse forme risultano ingigantite e impiegate per sagomare alcuni scatti fotografici del mare – scattati in un tempo successivo – installati poi direttamente in acqua. Un caso suggestivo di trompe l’œil, in cui convivono temporalità distinte e differenti in un fluire ipnotico. Nell’agosto 2017, quando Rachele Maistrello procedeva all’immersione delle sagome insieme all’artista Marco Maria Zanin, prendeva nota di ciò che nella versioni finali di grande formato non traspare : meduse, vento, granchi che mordono i piedi, ondate improvvise, rendono il lavoro quasi impossibile. Dalle finestre di Stella Maris gli ospiti ci osservano come se questo spettacolo fosse per loro. L’acqua e il mare sono realtà complesse. L’artista ricorda poi il senso comunitario che ha accompagnato la creazione delle silhoutte, diventata una sorta di pratica collettiva, un evento catalizzatore.
I disegni e le conversazioni che Rachele ha intrattenuto durante la sua permanenza a Stella Maris – ci racconta l’artista che al fine di raccogliere materiale, oltre che ascoltare e registrare le storie degli ospiti, rivolgeva loro quesiti più mirati, spesso risolti attraverso il disegno, attraverso cui gli stessi raggiungevano un grado di sincerità e intensità ancor più viscerale – sono stati stampati in un libro d’artista con carta trasparente.
Al fine di prevenire la perdita dei segni e dei disegni, questi sono stati incisi tramite disegno vettoriale su una stele di acciaio inox (The Stele of Stella Maris (the day before), 2017) , che rifulge di riflessi e adempie al difficile ruolo di conferire eternità alle cose. Per un giorno intero la stele è stata installata in mare, esposta alle intemperie e al fremere delle acque: una fotografia documenta tale momento e viene esposta insieme al diario Rachele Maistrello (Stella Maris, a retrospective diary fanzine, 2018).
Tra gli ultimi lavori presentati per la prima volta a Pelagica si annoverano una serie di fotogrammi ai sali d’argento realizzati a tiratura unica intitolati Untitled #1, #2 e #3. Tali opere, realizzate nel 2018 a seguito di un breve ritorno presso Stella Maris, ricongiungono l’elemento fotografico a quello iconografico: in una pratica simile a quella del negativo, l’artista riprende quegli stessi disegni su carta trasparente (per ogni lavoro realizzati da un’unica persona) immergendoli in acqua e lavorandoli per una notte intera. L’esito di questo lento processo è la creazione di singoli atlanti della memoria (gli engrammi di Warbourg, trasposti nell’evenemenziale), composti da disegni di un’intensità senza tempo che ruotano su se stessi, vengono ribaltatati o tagliati o ancora incontrano forme di natura acquatica. Il procedimento mnemonico si dipana sotto i nostri occhi, fragile.
A chiusura dell’esposizione – o in apertura della stessa, chi potrebbe dirlo – una fotografia di dimensione piccolissime inquadra quattro anziane signore mentre reggono le sagome d’acqua di Rachele Maistrello, sorridendo. Un ex-voto o un’icona: in sottofondo, il respiro della laguna.