Soap Opera | Interview with Nuvola Ravera

A Napoli negli spazi della Fondazione Made In Cloister si mescolano arte e tradizione artigianale. In mostra fino al 17 aprile 2019
13 Aprile 2019
© Danilo Donzelli Photography

Testo e intervista di Giuseppe Amedeo Arnesano

Quando un’operazione artistica, sperimentale e multisensoriale come quella di Nuvola Ravera avviene all’interno del chiostro cinquecentesco di Santa Caterina a Formiello, si innesca un ragionato processo di riconversione spaziale e sociale di un luogo storico, in questo caso parliamo dell’ex complesso del Lanificio borbonico situato nelle vicinanze di Porta Capuana, sede della Fondazione Made in Cloister a Napoli.
In questo spazio, carico di una forte identità, le suggestioni materiche, le antiche conoscenze e le singolari visioni urbane, frutto delle ricerche e delle intuizioni della raffinata e versatile pratica di Nuvola Ravera, confluiscono nell’installazione site specific intitolata Soap Opera.
Il progetto della giovane artista genovese, a cura di Chiara Pirozzi e realizzato in collaborazione con l’architetto Giuseppe Ricupero, nasce all’interno di Lab.Oratorio uno spazio di ricerca promosso sempre dalla Fondazione Made in Cloister che indaga le più interessanti pratiche artistiche legate al circuito dell’arte contemporanea, in dialogo con il recupero delle arcaiche maestranze artigianali e la riappropriazione funzionale del luogo disabitato. L’artista dopo un periodo di ricerca compone, sui resti di una pavimentazione preesistente, un camminamento effimero -scaturito da un confronto con le maestranze napoletane specializzate nella saponificazione artigianale- che rispetta, esalta e rilegge le caratteristiche architettoniche e quelle urbanistiche dello spazio espositivo. Per la curatrice Chiara Pirozzi: “Nuvola Ravera si confronta con le suggestioni provenienti dalla città di Napoli, ne analizza i processi sociali, la stratificazione, l’attività lavica, in Soap Opera traccia i resti di una pavimentazione virata nei toni del grigio, del bianco e del nero, che descrive passo dopo passo un’infilata di ambienti – selciati e ammattonati, riggiole e basolati – come fossero emersi da una campagna di scavo ancora in corso”.

In occasione di Soap Opera abbiamo scambiato alcune domande con Nuvola Ravera.

Giuseppe Amedeo Arnesano: Soap Opera è un’installazione site specific nata dopo un periodo di ricerca a Napoli e realizzata insieme alle maestranze napoletane specializzate nella saponificazione artigianale. Qual è stato e in che modo si è formalizzato il processo artistico, simbolico e concettuale che ti ha condotto alla definizione materiale di questo lavoro?

Nuvola Ravera: Il lavoro si anima attraverso l’esperienza di un’attitudine dei viventi a interrogare la dissoluzione dell’essere e del proprio costruito. Si è partiti quindi problematizzando questa azione di resistenza alla caducità, illuminando la ricerca di equilibrio tra conservazione e trasformazione plastica che spesso interessa il mio lavoro. Soapopera nasce ancora prima che il progetto venga scritto o anche solo pensato. Ci sono granelli di sapone invisibili in altre ricerche che l’hanno preceduto, come ad esempio nella parte di convivio del progetto Big Babol in cui, a seguito di una psicanalisi alla città di Venezia, offro al pubblico delle gelatine d’ acqua veneziana facendo consumare così in un’azione di urbanofagia parti della città. Per quanto possano sembrare due azioni molto distinte, respirano la stessa aria tra discorso di conservazione e esperienza corporea a tutta pelle di un “bene”.
La mediazione tra gravità e corpo eretto, si sviluppa in quell’elemento dell’architettura che tocca così spesso il nostro corpo fisico e si esprime in un “saggio di sapone” che scarica a terra le proprie tensioni. Queste considerazioni sullo spazio sono frutto dello scambio con Giuseppe Ricupero, l’architetto con il quale ho sviluppato le emergenze generative del progetto e le sue varie posture assunte durante il lungo periodo di progettazione e produzione.
Così il mio rifugio in una lettura antropologica degli elementi vitali, incontrando Napoli, ha iniziato subito ad includere il tema dell’igiene appoggiandosi ancora una volta sulla spazialità che ci contiene e costringe e sulle vertiginose liste di monumenti a volte incipriati, a volte squisitamente vandalizzati che annovera il territorio italiano.
Contro il disgusto, la sporcizia, gli escrementi, il pericolo di contaminazione ma anche contro il contatto di cose e persone sgradite (il disgusto dell’estraneo), di volta in volta le società classificano oggetti ed eventi come sporchi o puri. La sporcizia si lega al disgusto ed è un evento in primis biologico poi stratificato in costrutti culturali e sociali di varia entità.
Da questo nascono pregiudizi per il diverso e il proliferare di tabù nei confronti dei cosiddetti “lavori sporchi” ai quali quest’opera si lega criticamente. Soapopera si appoggia infatti su queste note attraverso il concetto ampio di pulizia per suggerire una riflessione su ciò che gli esseri umani creano e producono e solo talvolta accettano o consumano con profondità perché occupati a igienizzare, inquadrare, valorizzare, musealizzare “mettere in conserva” ancora prima di aver concluso la digestione del solo sguardo.

© Danilo Donzelli Photography

GAA: Come hai vissuto il periodo di residenza e come si è articolato il dialogo come la maestranze locali?

NR: Non si è trattato di una vera residenza ma di una produzione a lungo termine sfrangiata su quasi un anno solare che ha permesso tre momenti di visita e lavorazione sul territorio napoletano. Si può dire che il progetto ha attraversato un primo periodo di progettazione seguito da un tempo piuttosto dilatato fatto di trattative e svariate riprogettazioni. Si è lavorato principalmente da remoto tra Genova e Venezia. Da lontano si è avviata la produzione di una serie di prototipi, test, maquettes e disegni che hanno colmato a volte una distanza geografica e talora di intenti.
Per quanto riguarda il dialogo con le maestranze locali avrei preferito fosse più diretto in fase di progettazione, ma quando ci sono molte figure coinvolte, lo scambio può risultare delicato. In ogni caso, finita la produzione, ho avuto tempo di notare un’intesa sottile sul profilo più profondo ed umano venutasi a creare con gli artigiani che ha arricchito di molto l’esperienza. 
La complessità progettuale data dal contesto ha aperto una grande finestra di osservazione sulla pratica di negoziazione e percezione di disattesa, permettendo un affondo su un certo sistema culturale, sui suoi protagonisti, sulla figura dell’artista e sui possibili sistemi di produzione. Grazie al confronto con il territorio abbiamo presto scoperto la narrazione riguardante gli storici “saponari” che andavano di casa in casa a barattare saponette scadenti in cambio di altri beni materiali. L’immagine del “saponaro” ambulante ha richiamato a presenza altre figure contemporanee di venditori (autori, galleristi, musei) e di oggetti in maschera (opere, monumenti, feticci, oggetti comuni). Tutti temi entrati a fare parte del progetto, ora attivo come “sceneggiata scultorea”.
E’ stato prezioso poter approfondire l’alchimia che si nasconde dietro ai processi di saponificazione che dalla soda caustica arriva ad un materiale detergente e associare a questa alchimia il legame che Napoli intesse con l’idea di pulizia, conservazione e uso del proprio scenario urbano e naturale.
Queste figure artigiane poi incarnano una vitale forma di resistenza che a prescindere dal recupero della tradizione e dal legame partenopeo, trovano ragione d’essere come strumenti per esistere in una realtà articolata come quella napoletana con un’artigianalità estremamente simbolica.

Soap Opera © Danilo Donzelli Photography
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GAA: L’ex Chiostro fa parte del complesso di archeologia industriale del Lanificio borbonico, è un luogo speciale e ricco di storia. In che modo hai percepito lo spazio espositivo in termini di valore funzionale dell’opera e di allestimento?

NR: Essendo il lavoro un’apparizione, un glitch temporale, un fantasma del futuro, l’intorno risulta accessorio, utile principalmente ad amplificare la narrazione che lo ospita. Il grande corridoio che accoglie il lavoro è parte del complesso di Santa Caterina a Formiello, fabbrica Borbonica, ma ciò che adesso rimane di questa navata laica è uno stretto passaggio senza uscita e senza luce soffocato da superfetazioni che murano le aperture verso l’esterno. In questo senso l’opera è l’ennesima superfetazione che si va ad aggiungere all’esistente che ha fortemente influenzato e costretto in sé l’intervento impigliandolo come in una rete temporale. Il luogo è certamente ricco di storia come d’altronde ogni zolla di terra e goccia d’acqua del globo. Il contesto ha stimolato quindi ulteriori e utili domande sull’utilizzo di questi “santuari della storia”. Mi chiedo ancora provocatoriamente che farne, se continuare ad indorarli con progetti artistici, visite guidate e pedaggi o trasformarli in super mercati o riportarli a rimessa auto quale era ad esempio negli anni ’80 il chiostro dell’ex lanificio.

GAA: Tra le numerose esperienze di ricerca e formazione possiamo nominare quella iniziale al dipartimento di Pittura presso l’Accademia Ligustica di Belle Arti a Genova, il master di fotografia contemporanea alla Cfp Bauer di Milano e quello di cinema e video all’Accademia di Belle Arti di Brera e all’Hochschule für Grafik und Buchkunst di Lipsia, mentre adesso concludi gli studi al dipartimento di Arti Visive dell’Università IUAV. In questi anni come si è evoluta la tua ricerca artistica e quali sono stati i passaggi pratici e teorici fondamentali attraverso con i quali hai orientato il tuo modus operandi?

La formazione è sicuramente un “luogo” che mi ossessiona e che vedo come moto perpetuo ed elemento costitutivo del mio ricercare. Da quando ho smesso di oppormi alla scolarizzazione forzata post infanzia -analfabeta e silvana- ho iniziato a dare molto valore all’autoapprendimento e allo studio attraverso la pratica, per quanto abbia spesso usufruito di contesti educativi nei quali sviluppare uno spazio critico e coltivare relazioni fertili.
Ho appena iniziato, ad esempio, un percorso formativo in Mediazione Etnoclinica, dispositivo che cerca di far negoziare elementi culturali di diversi mondi attraverso il dialogo, in casi di difficoltà o vulnerabilità di vario genere. Questo studio rientra nel mio campo di interesse in quanto corpo di presenza politica oltre che poetica prima ancora che come artista o ricercatrice. Cerco così di comprendere come riequilibrare le possibilità espressive rispetto alle posizioni dominanti e come relazionarmi all’alterità ponendomi la questione dei sistemi in cui siamo immersi e da cui siamo a volte sedati. Ho necessità di creare questi varchi nelle domande di ricerca che porto nel lavoro perché i boxe dell’arte non sempre hanno forme ospitali e genuinamente coinvolte e attivanti.
Ho lavorato a lungo attraverso l’emersione di immagini inconsce su cui mi sono concentrata come emergenza primaria, mentre negli ultimi anni l’urgenza dell’intorno si sta facendo forte. Quindi seppur mantenendo questo intuito onirico come guida all’invisibile, tento ora un avvicinamento continuo all’espressione di dubbio sugli strumenti e gli spazi in cui siamo chiamati ad operare pensando ai materiali a disposizione come luogo di crisi e ritrovamento e al corpo nello spazio come armi energetiche.
Un’altra radice del il mio fare è l’antropologia multi-specie che dà un nome e un significato ad un mio interesse disarticolato che possiamo chiamare “animista” e che coltivo da sempre. Sto volgendo l’attenzione sui non-umani per trovare un terreno comune con altri viventi. Mi interessa come i batteri, gli animali, le piante, i funghi “dipingono” i loro mondi e quanto possa essere di stimolo nella produzione di contenuti. E’ rincuorante che vista, rappresentazione, forse anche conoscenza e pensiero, non sono esclusivi per gli umani. Il fatto che elaborare segni sia di pertinenza a tutta la vita è uno spunto di riflessione sempre vivo che vorrei tradurre ancor meglio nel lavoro.
Un metodo per dare attenzione a questo aspetto è stato avviando delle analisi psichiche del paesaggio considerandolo dotato di psiche al di là degli umani, ma vorrei oltrepassare la linea dello strumento culturale di lettura psicanalitica per vedere dove si può arrivare.

GAA: In occasione della 58° Biennale di Arte Visiva di Venezia sono solo due gli artisti italiani che partecipano alla mostra internazionale curata da Ralph Rugoff. Qual è la tua riflessione sulla scena artistica contemporanea in merito a questa scelta?

NR: Aspetterei di incontrare e fare esperienza delle opere prima di esprimermi in merito perché credo sia molto importante entrare in relazione con gli oggetti per capire quale azione agiscono sullo spettatore. Per fare una riflessione così generale sulla “scena contemporanea” poi introdurrei l’idea di una famiglia di scene che co-abitano in maniera complessa nel panorama mondo.

Soap Opera © Nuvola Ravera
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