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Cinque grandi opere su carta contrassegnano il percorso della personale Ostrakon di Simone Pellegrini alla Cardelli & Fontana arte contemporanea di Sarzana (fino al 5 maggio 2018). Dalle risposte dell’artista nell’intervista che segue, scopriamo il significato del titolo, le sue considerazioni in merito al tema del corpo – “Il corpo è una resistenza, un trattenimento in cui si condensa una pretesa biologicamente ammissibile, (perché evidente) e comunque altamente improbabile.” – agli artisti a cui guarda per strutturare le sue ‘cartografie immaginarie’; gli intrecci, fatti di “esistenze, insistenze e potenze” che legano e connotano le sue opere.
Grazie alle sue parole comprendiamo anche la scelta di presentare una selezione di libri che, nel tempo, ha trasformato in ‘diari di viaggio’: “L’esposizione dei libri della mia biblioteca è determinata da un fatto specifico: il primo getto avviene sulle pagine bianche di questi testi. Qui si raccolgono segni come singulti, qui io bisbiglio al mio orecchio qualcosa di confuso, attendo di capire..”
Per un approfondimento, il testo di Pietro Gaglianò, Il sintomo del tempo
Segue l’intervista con l’artista
ATP: Per la tua personale hai scelto come titolo ‘Ostrakon’. Quale è il significato di questa parola e perché l’hai scelta?
Simone Pellegrini: Ostrakon è quel frammento in cui veniva inciso il nome di colui che andava esiliato. L’esilio è quello del segno nella materia, qualcosa di simile a una colpa nei tempi dilatati in cui la rarefazione, la sospensione, il ribaltamento, l’approccio algido sembrano essere il trionfo (trionfo che poi sono tre passi fatti danzando oppure inciampando) più naturale del concetto.
Ostracizzata mi appare la mano che segna il rovescio della pietra, la superficie del cratere con crudi geometrismi, quella ostinata nei secoli sull’irrisolto della rappresentazione che è distanza, misura, recupero e poi perdita. Sopravanza da ieri ad oggi ogni concettuosa postura su un preconcetto forte che sembra far coincidere il gioco di mano al gioco da villano.
Eppure la mano pensa.
Il titolo nasce qui sull’orlo del contemporaneo e di una forbice spuntata di cui sono desumibili i prodromi ma contestabili gli esiti; indica una condizione o un riflesso condizionato.
ATP: Nell’approfondito testo di Pietro Gagliano, il critico evidenzia un aspetto importante della tua grammatica iconografica: “E’ il corpo il soggetto di tutte le opere, moltiplicato e smembrato, rarefatto nel contorno di un simbolo e riportato alla sua natura di materia morbida e di umore”. Guardando le tue opere, infatti, corpi o parti di essi, silhouette o pezzi interni, raccontano una dimensione ancestrale abitata da uomo primordiali, antichi. Quale è il tuo punto di vista in merito a queste osservazioni?
SP: Il corpo è una resistenza, un trattenimento in cui si condensa una pretesa biologicamente ammissibile, (perché evidente) e comunque altamente improbabile. Si tratta di una promessa che non verrà mantenuta; si trovi nella condizione intensiva che lo approssima all’invaso dell’ “Io” oppure nell’estensivo dilagante o regressivo del corps morcelé di kleiniana memoria.
L’immagine già non più somiglianza è un deserto popolato, ventoso in cui sempre meno sporadiche fioriscono corolle di dissenso. L’opera come distesa a perdere si impressiona di figure evocative oppure no ma a ogni modo si tratta di figure liberate, sottratte, espulse affinché possano farsi mondo e accommiatarsi. La mano, quella di prima, esiliata nel corpo è sempre tommasea, è sempre “man che trema” perché se a risorgere è una ferita, persino il miracolo è mancato.
ATP: Osservando la costellazione iconografica che dissemini nelle tue opere, sembra che tu ti riferisca a simbologie e codici oscuri. Come geroglifici o ideogrammi, è come se per comprendere il tuo linguaggio visivo avessimo bisogno di imparare un codice specifico. Mi parli di questa tua sintassi segnica?
SP: Il corpo è già inscritto nella sua costellazione e ogni grumo di senso (o che ad esso aspira) vacilla su quel “contorno del sentire” che è l’essere.
Ogni forma impropria o difformità si dà nello spazio di una repentina ritrazione, sorta di limo che sorprendentemente lega e rapprende apparentemente tentato dal simbolico. Più propriamente, del simbolo, qui si mantiene il rapporto con una assenza a cui fa cenno quanto di presente campeggia e che rimanda ad un fuori campo paradossalmente reale.
Diversamente considerato il tutto, ci troviamo di fronte ad una sorta di carta nautica in cui poter desiderare di determinare il “punto nave”.
ATP: Ci sono degli artisti, anche passati o di altre culture, da cui trai ispirazione?
SP: L’artista che più ha impressionato la mia immaginazione è certamente Adolf Wölfli. Ad esso seguono Piero della Francesca e Pontormo. Il diario di quest’ultimo, morbosamente introverso e puntellato di corpi diversamente disposti, conficcati su un resoconto domestico dietetico, ha ispirato una mia personale tenutasi a Bologna l’anno scorso dal titolo Dishonesti corpi.
ATP: In mostra ci sono cinque grandi opere su carta. C’è una particolare connessione che lega le opere? Magari una narrazione che sottende i vari soggetti?
SP: Si tratta certamente del lento sviluppo di un linguaggio in cui si inscrive una parabola fatta di esistenze, insistenze e potenze. Il sacro non ha una inclinazione per la ascensione o circonfusione così come è nella santità, così austera, ortodossa, aurea.
Il sacro è per antonomasia il sacrificabile, qualcosa che abbisogna di un rito e l’arte, quella non filologica, non santificabile appunto, conserva le pratiche più proprie di un rito in cui si confonde la distruzione con la creazione; un luogo in cui nuovamente tentare un fallimento che si cela dietro la riuscita dell’opera, composizione eventuale, con ampio margine di decadimento perché continuamente sottesa da una contesa irrisolta.
ATP: In mostra è presente una selezione di libri che, nel tempo, hai trasformato in ‘diari di viaggio’. Cosa ti spinge a ‘trasformare’ questi volumi? Che relazione intercorre tra il testo e i tuoi interventi?
SP: L’esposizione dei libri della mia biblioteca è determinata da un fatto specifico: il primo getto avviene sulle pagine bianche di questi testi. Qui si raccolgono segni come singulti, qui io bisbiglio al mio orecchio qualcosa di confuso, attendo di capire, di sentire il sapere (vera formula di distinzione poiché sapere il saputo è davvero poca cosa a confronto) e qui capisco sempre che è alla vita che vorrei parlare ma – volendo parafrasare San Paolo – quel che posso è comunque diverso da quanto voglio. Nessuna relazione diretta quindi tra il testo contenuto nel libro e le immagini che occupano i vuoti lasciati dallo scritto. Il segno è appunto sempre un pungolo della carne e se non della carne lo è della lettera, esso è quello “spino” laforgueano senza pretesti.
ATP: Un’ultima domanda più tecnica. Ci svela come prepari le varie carte che racchiudono il tuo mondo visionario? Perché la gamma cromatica che utilizzi si limita a pochissimi colori: nero, seppia, marrone e rosso fuoco (o sangue)?
SP: La carta da spolvero viene preventivamente strappata e reincollata. Si verifica così la prima appropriazione di campo. Successivamente, essendo questa opera una paratassi di “negazioni”, ogni singola immagine viene disegnata su frammenti di carta (sorta di monotipi) che dopo essere oleati e parzialmente asciugati, vengono frizionati a tergo fino a impressione avvenuta. Gli originali subiscono quindi lo strano destino di trovare compimento altrove, in quel campo precostituito e di trasferimento, in quel rovescio in cui si inscena, di singolarità in singolarità, quel che di ulteriore è definibile come opera.
Quei frammenti cartacei, sorta di momenti seminali di questo processo, saranno poi perduti.
Riguardo alla gamma cromatica suppongo sia determinata da una sorta di soglia limite, da una sensibilità sintonizzata su certe frequenze oppure potrei pensarlo come una notte fatta a pezzi che nel corso degli anni ha accolto una sorta di redshift coincidente sempre con l’emergenza lontana di alcune formazioni inattuali.