LU MI project ha inaugurato ieri mercoledì 19 Dicembre 2012, la mostra personale di Cleo Fariselli (Cesenatico, 1982) a cura di Gino Pisapia.
L’esposizione presenta una serie di lavori fotografici inediti, mostrati per la prima volta insieme ad altre opere già edite che rappresentano alcuni tra gli step più significativi nella produzione artistica della Fariselli.
ATP: Utilizzi il mezzo fotografico come una sorta di mezzo mnemonico: ogni immagine racconta una visione che vuoi conservare o un’esperienza che vuoi mantenere ferma nel tempo. Mi racconti il tuo modo di utilizzare la fotografia?
Cleo Fariselli: La fotografia è una pratica che ha il potere di portarmi da un’altra parte, pur restando esattamente dove sono. Credo che questo sia percepibile nelle immagini. La macchina fotografica è un mezzo che ho sempre sentito vicino, lo cerco, mi viene facile, non mi intimorisce. E’ uno strumento di pensiero, un “concentratore di sguardo”, attraverso il quale osservo ciò che ho intorno. Per me la fotografia è anzitutto un atto, e in quanto tale è indissolubilmente legata al presente. Nel tempo di un attimo si crea un piccolo varco spazio-temporale che collega tempi diversi: il momento dello scatto e quello delle visioni successive. Questo è l’aspetto magico della fotografia. L’immagine ha un tempo di origine, ma poi vive nel presente e ad esso si relaziona. La sua natura mnemonica è molto personale; è presente come in qualunque altro lavoro di un artista: anche una scultura potrebbe essere vista come una fotografia del tempo impiegato per realizzarla. Non penso alla fotografia come a uno strumento di rappresentazione, riproduzione o documentazione della realtà, ma come a un mezzo in grado di generare esso stesso realtà.
ATP: Spesso nelle tue immagini il soggetto o la sua centralità scompare a favore del particolare. Ti focalizzi molto sui dettaglio, sul limite delle cose, quasi come se fotografassi con la coda dell’occhio. Cosa nascondono i tuoi dettagli?
CF: E’ mia convinzione che non esiste fantascienza più visionaria, fantasia più incredibile della realtà stessa. L’ “ordinario” è considerato tale solo per abitudine e spesso per disincanto: è necessario reimparare a sbalordirsi, ricaricare il mondo di anima. C’è un importante valore politico nella ricerca di un senso di meraviglia, perché implica un continuo sabotaggio degli schemi che portano a una visione scontata e passiva della realtà. (Tanto per dire, siamo dei bipedi glabri che vivono appesi alla superficie di un pianeta sospeso nel vuoto… tendiamo a dimenticarcene.) Se si cambia punto di vista sulla realtà si percepiscono le potenzialità immaginifiche e stranianti di un linguaggio, come la fotografia, ritenuto “realista” per eccellenza. La seduzione che ha per me il dettaglio proviene dalla ricerca di un coinvolgimento, di un’intimità con ciò che mi circonda. Nessuna oggettività, nessuna obiettività. In questo senso non esistono per me soggetti o situazioni più interessanti di altri per essere fotografati: ogni cosa ha importanza. Quello che mi interessa è l’esperienza che riesco a fare di un soggetto e il fatto di “prendere una posizione” (psicologica, visiva, fisica) nei suoi confronti. Il fatto di differenziare dettagli marginali e soggetto centrale, come tra visione periferica e visione centrale, implica l’adozione/proiezione di una visione gerarchica sulle cose. Il mio non è un tentativo di focalizzarmi sul marginale a discapito del principale, ma di scavalcare questi luoghi comuni, per esplorare una visione personale.
ATP: Per molti versi le tue sono anti-fotografie accademiche. Non privilegi le grandi scene, la centralità, non riveli ma illudi, suggerisci. E’ come se la Fotografia – con la F maiuscola per intenderci – non ti interessasse. Che relazione c’è tra questa ricerca e il resto della tua produzione scultorea o performativa?
CF: In campo teatrale presenza significa energia, consapevolezza. Ricerca su un come, non su un che cosa. Ricerca di unità pensiero-azione. Ha a che fare con lo straordinario, con la sua percezione e comunicazione, a prescindere da ogni contesto o convenzione. Per me è un concetto fondamentale, una vocazione alla base di tutto il mio lavoro. La scelta che di volta in volta faccio di un mezzo piuttosto che un altro, è qualcosa di strumentale a sollecitare questa attitudine, anzitutto in me stessa. I lavori sono dei veicoli. Sono a loro volta dei mezzi, degli strumenti.
ATP: Bellissimo e molto poetico il video “Me as a star”. Come nasce questa opera?
CF: Me as a star è un lavoro a cui sono molto legata. Ci sono io, vestita di materiale riflettente, che ballo a una distanza tale dalla videocamera per cui appaio come un puntino luccicante all’orizzonte, indistinguibile come figura umana. E’ un lavoro che vive in equilibrio tra l’energia esplosiva di una pulsione molto fisica e l’imperturbabilità della sua messa in scena. E’ del 2008, ma lo sento ancora molto vicino e mi continua a sollecitare pensiero e immaginario. Ho sempre delle difficoltà a datare i lavori in un senso cronologico lineare, invito quindi a pensare ai miei lavori uno a fianco all’altro su un unico piano, e non uno davanti all’altro, perché io li vivo così.