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Fino al 14 maggio 2017, nei suggestivi spazi dell’Albergo Diurno Venezia, in Piazza Oberdan a Milano, è possibile vedere Senso 80: un progetto di Flavio Favelli, presentato dal FAI – Fondo Ambiente Italiano. Come ci racconta l’artista nell’intervista che segue, questo luogo ha suscitato in lui ricordi lontani, “le corde immaginifiche del mio passato e della mia famiglia, un bagaglio paradigmatico, direi profetico.” Immergendosi nelle sue atmosfere, Favelli ha cercato di “attraversare con uno sguardo e un sentimento un luogo che genera e ricompone la mia vita. Portare l’interno all’esterno. Il Diurno è un pezzo delle case dove ho vissuto.”
L’allestimento ideato per questa mostra intende suggerire una lettura originale di ciò che c’era e non c’è più, usando la ricostruzione di parte degli arredi, apparentemente formale ma in realtà concettuale, e l’assemblaggio di vari materiali, stili e oggetti, per approdare all’evocazione di una memoria storica e affettiva e per restituire un’idea di narrazione che ben esprime la natura e la vocazione di questi spazi, intrisi di umanità e passato.
Segue l’intervista con Flavio Favelli —
ATP: L’Albergo Diurno Venezia è un luogo pregno di passato. Come ti sei relazionato con questo luogo ‘funzionale’ per la salubrità del corpo? Che sensazione hai avuto nell’attraversare quegli ambienti?
Flavio Favelli: Come ho scritto nel mio testo in catalogo, la cosa più interessante per me è il contrasto fra il progetto originale degli anni Venti e le tracce, diciamo, volgari degli anni della Repubblica fino alla sua chiusura. C’è un adesivo sul vetro, in fondo al primo salone, quello che doveva essere un angolo bar, del Caffè Hag col logo col cuore che è commovente. Gli arredi originali, le vasche da bagno che traboccano di materia, la pasta di vetro dei rivestimenti al posto della ceramica e gli archi di legno in radica suscitano in me una specie di richiamo della foresta perché ho conosciuto queste cose nelle case dove ho vissuto. Ho familiarità psichica con queste forme e materiali. Non si tratta di ricordare cose d’infanzia al calore del focolare del c’era una volta, ma ho vissuto per un certo periodo con due persone – i nonni materni – che erano adepti, custodi, devoti e militanti di un cosmo con regole e leggi che rispondeva al mondo borghese bolognese che aveva esperito il mondo dei diurni e lo ereditava contaminandolo, piano piano, con quello che offriva il nuovo tempo e soprattutto la televisione. In quella casa dei nonni, la tv, che avrebbe piallato via tutto con gli show dell’imbonitore Mike transitato velocemente da un mondo formale e composto di Lascia o raddoppia? a una vendita sozza fra quiz pomeridiani e surgelati, era considerata così sconcia che dopo lo spegnimento si chiudevano le porte di legno del mobile su misura che la conteneva. Spento, coi bottoni metallici e lo schermo grigio, il televisore era troppo moderno, nudo e volgare per essere visibile in sala. Ho vissuto in un ambiente regolato da senso dei soldi e del risparmio, una regolare passione per l’antiquariato e la Bellezza, Buon Gusto, un velo di cattolicesimo, credenze religiose, superstizione, tradizione, usi, dedizione per il cibo e un grande piacere di godere la vita regolato sapientemente da una apparente sobrietà e morigeratezza. Un fiuto sottile per districarsi da vincoli che andavano rispettati solo in superficie. L’immagine e l’apparire era tutto. Fare bella figura.
È così che questo luogo tocca le corde immaginifiche del mio passato e della mia famiglia, un bagaglio paradigmatico, direi profetico.
Il senso di Senso 80 è quello – ancora una volta – di andare a fondo verso tutto questo.
È quello di attraversare con uno sguardo e un sentimento un luogo che genera e ricompone la mia vita. Portare l’interno all’esterno.
Il Diurno è un pezzo delle case dove ho vissuto.
ATP: Il titolo del tuo progetto “Senso 80”, ha una molteplicità di significati: dai ‘sensi’ in relazione alla nostra fisicità, ma sembra anche ripreso da un contesto cinematografico. Penso al film “Senso” di Visconti del ’54. Che significato hai dato a questo titolo?
FF: Al di là del titolo del film, amo la grafica molto audace della locandina originale, che posseggo. Grafica spinta, coi colori fluorescenti. Senso è roba fisica, concettuale, orientamento. 80 perché sono gli anni, molto importanti per la mia esperienza, e credo più ambigui e diabolici che ci siano, anni di edonismo, piacere, individualismo, di grande crisi, ricchezza e speranza. Il mondo si divide fra quelli che li disprezzano e quelli che li comprendono; non ho mai legato nella mia vita con chi prende le distanze dagli anni ‘80 giudicandoli superficiali e negativamente. Alla fine Ustica, il terrorismo, il Mundial, la Guerra Fredda, la stazione di Bologna, la moda, la musica, sono stati e sono tutti soggetti di mie opere e progetti; per me sono l’alba e il tramonto insieme. Mi piace poi un nome seguito da un numero: Airport 77, Spagna 82, Pop 84, Boccaccio 70, Europa 80. Una vecchia lattina di Coca Cola che possiedo recitava: ‘bevanda gassata ufficiale dei Campionati Europei di Calcio 1980” e la mascotte era un pinocchio di legno, sicuramente più interessante di Ciao, la mascotte di Italia 90 (ma nessuno se lo ricorda).
ATP: Per l’ideazione dell’installazione site-specific che presenti, hai tratto ispirazione dalle cartoline che mostrano l’Albergo nei suoi anni migliori. Cosa ti ha affascinato di queste immagini? Perché ricreare quegli ambienti?
FF: C’è una foto del Diurno degli anni Venti dove ci sono quattro arredi in coppia. Sembrerebbe un bordello con quei divanetti tondi-rondò con lampade Art Nouveau che fanno così Bella Époque. Il progetto nella prima sala consiste nel riproporre in qualche modo i quattro arredi. Sono oggetti familiari e un’immagine che collego a questo ambiente è il caveau del palazzo della sede della Cassa di Risparmio di Bologna in via Farini, fra l’altro opera dell’architetto Giuseppe Mengoni, autore della Galleria Vittorio Emanuele a Milano, che frequentavo col mio nonno materno. Era – ed è – lo scrigno delle cassette di sicurezza dei bolognesi e dei tesori delle famiglie del tempo, sembra di stare dentro un sottomarino; è uno dei luoghi più interessanti di Bologna. Tutto ciò emana una forte reminiscenza di cose vissute a cui ritorno sempre. È una specie di eden originario, sede della mia vicenda familiare. Il progetto dell’architetto Portaluppi del Diurno è l’inizio di una strada che porta naturalmente all’adesivo del Caffè Hag apparentemente volgare rispetto ai materiali nobili dello stabilimento sotterraneo. La Bella Époque, dopo le vomitate della Prima e Seconda Guerra, porta dritto ad oggi; chi fa il Diurno, progetta anche la Bomba e finisce con Internet che è solo un altro inizio della Fine.
Più che ricreare tento di ricomporre non le cose che non ci sono più, ma l’idea e le forme e i sensi di quelle cose che rimangono come tracce nell’aria, sono bagliori che scappano, sono ricordi di ricordi che diventano nuove cose ma si compongono di quello spirito. Ed è uno spirito che mi tiene occupato mentalmente, psicologicamente e materialmente. Pensare, scrivere, comporre, lavorare a queste cose mi provoca piacere e lo affermo con grande consapevolezza, visto che oggi sembra che quasi tutti gli artisti facciano opere solo per l’arte pubblica, i cittadini, gli immigrati, la Croce Rossa e il circolo anziani di periferia o semplicemente per cambiare il mondo. Un piacere decisamente privato, ambiguo e irrisolto, perché erano ambigui e irrisolti quegli ambienti e i loro milieu. Sono un uomo nostalgico (è un gran tabù oggi la nostalgia e sembra che anche l’arte debba guardare al futuro) che è consapevole che non si può tornare indietro ma non gliene frega nulla di guardare avanti. Intendo nostalgia di quel clima psicologico, intendo andare attorno al concetto di rêverie. Intendo impressioni emotive, che non sono pensabili, ma solo ricomponibili in qualche modo in forme e ambienti che diventano nuovi e differenti.
Ho nostalgia dei luoghi del mio passato perché sono luoghi psicologici e luoghi che rappresentano un passaggio cruciale del (mio) tempo e della (mia) storia.
ATP: Un ruolo importante per il tuo progetto è dato alla luce. Com’è l’hai organizzata nei vari ambienti?
FF: Ho usato le stesse plafoniere ministeriali che usai al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro anni fa, ma anche in tante altre mostre. Sono neon per le piante tropicali e gli acquari, li ho anche nel bagno e nel guardaroba dove abito. Fin da bambino ho avuto problemi con la luce, influiva molto sul mio umore. Nella prima casa di Via Guerrazzi dove ho vissuto cambiavo spessissimo luci, il modo di illuminare. Era una casa al piano terra, era sempre buia; rifuggo la luce naturale, non sopporto i luoghi dove il sole e il cielo accecano. Con questi neon violetti è come avere il sole in casa, come il mare nel cassetto. Sottoterra deve essere tutto più artificiale perché sotto terra ci stanno le casse da morto. In fondo al Diurno, invece, i due corridoi degli ex bagni saranno illuminati da 5 insegne luminose, sono dei collage-assemblaggi. Sono le marche, loghi, i nomi dei prodotti che illuminano il nostro cammino. Sono nomi eterni, come lo sono gli slogan. Nessuno crede agli slogan, ma poi con quelli si vincono le elezioni dei paesi e vincerle vuole dire diventare anche il capo dell’esercito. Everybody can make a great drink dice la Smirnoff. Make America great again dice Trump.
ATP: Hai descritto l’Albergo Diurno come un luogo ‘super artificiale’. Cosa intendi con questa definizione?
FF: Alla fine si può dire che questo sia uno dei primi non luoghi. Chi l’ha fatto si ispirava al glamour del tempo che era dettato dalle Esposizioni Universali, dalla Bella Époque, da un pensiero nuovo che stava pensando al tempo libero e al benessere per finire al Vip Lounge. Franz Kafka nel 1909 descrive un viaggio a Brescia, a vedere gli aeroplani; davanti all’aerodromo ci sono delle baracche con delle insegne: Garage, Grand Buffet International. Il Diurno Venezia era un luogo super moderno perché era una sfida, come lo sono le linee aeree e gli aeroporti, mondi artificiali che sfidano la Natura e il tempo. Il Diurno fu una vera rivoluzione perché i cessi prima stavano fuori, erano reietti, si chiamavano latrine. I diurni erano i primi luoghi dove i bisogni del corpo furono elevati. Il Diurno è il benessere ma con un’ombra: è sotterraneo, ma non in una grotta con stalattiti o in un tunnel naturale di lava, ma vicino alle fogne, dove stanno i ratti, sotto il cemento e fra le fondazioni delle case, al livello della cantina, sotto i tombini fra i tubi delle città moderne. Un posto – sotterraneo – bello per farsi belli, fatto da un grande architetto dell’epoca non può essere che un’idea totalmente artificiale. Si scende sottoterra per farsi belli. I decori, le paste di vetro colorato, le vasche lavorate, sono un lusso che prima stava solo ai piani nobili. Il Diurno è il mondo alla rovescia. Ecco perché è bello e ci piace: perché è ambiguo. Se fosse stato un luminoso e arioso secondo piano sarebbe stato banale, noioso.
C’era anche un’agenzia di viaggio al Diurno: e cosa c’è più di artificiale del viaggio inteso come viaggio di piacere? Tutto deve essere finto, le foto dei luoghi del desiderio sono finte perché la bella vita può essere solo finta.
Se dopo la Bella Époque c’è stata la Grande Guerra, dopo la Vip Lounge cosa ci sarà? L’adesivo del Caffè HAG ci dice che da tempo voliamo alto, vogliamo tutto.
Un caffè che è un caffè, ma che non è un caffè. Solo il buono del caffè.