
Chi segue da vicino la scena degli spazi indipendenti bolognesi, sicuramente negli ultimi mesi ha avuto occasione, per passaparola o per caso, di imbattersi nelle serate di Gelateria Sogni di Ghiaccio. L’artist-run-space fondato nel 2016 da Mattia Pajé, Filippo Marzocchi e Marco Casella, il cui nome è a tutti gli effetti un’“opera” donata da Roberto Fassone (l’operazione che ha portato alla scelta del titolo è spiegata sul sito), dal 2024 è andato incontro ad un’evoluzione sul piano gestionale, approdando ad un progetto di gruppo definito secondo la formula aggiornata di “friends-run space”. Con l’inizio del 2025 il team si è stabilizzato in un collettivo curatoriale eterogeneo di circa venti persone, tra artistə, curatorə indipendenti, tecnici e professionistə del mondo dei musei, che prendono decisioni in modo assembleare e paritario. Ciò ha permesso di incrementare e diversificare notevolmente l’offerta dello spazio affacciato su via Tanari Vecchia, rendendo una realtà dalla storia già consolidata uno dei fulcri nodali dell’offerta underground bolognese. A distanza di sei mesi da questo cambio di passo, è possibile stilare un bilancio di quanto fatto finora e provare a documentare un esperimento originale che potrebbe offrirsi, sul piano organizzativo e/o curatoriale, come modello per realtà analoghe in altre città.
La programmazione di GSG si articola in un calendario serrato di eventi a ciclo continuo, con appuntamento fisso al venerdì di ogni settimana. Nelle serate presso lo spazio, in cui è incoraggiata la convivialità e la partecipazione, si alternano regolarmente progetti espositivi site-specific, live, laboratori, reading e performance, con ospiti italiani e internazionali. Può capitare che lo spazio si trasformi radicalmente da un “venerdì” al successivo; la programmazione viene comunicata via newsletter, ma, trovandosi a passare da quelle parti, si può decidere di lasciarsi stupire, dato che c’è sempre la garanzia di trovarsi davanti qualcosa di diverso. Resta come ricordo di ogni serata uno “scontrino” in carta termica, con una grafica ad hoc.


A dare il via alla programmazione di gennaio è stata la proiezione dell’opera video Trekking (1992) di Emilio Fantin (Bassano del Grappa, 1954), documentazione di un’azione partecipativa condotta dall’artista sui colli bolognesi assieme a un centinaio di protagonisti della scena artistica di quegli anni, accompagnata da una serie di fotografie di Giancarlo Norese. In sostanza si trattò di una gita conviviale (con tanto di bus a noleggio), fuori da ogni luogo tradizionalmente deputato alla produzione e alla mercificazione dell’arte. La scelta di presentare la nuova gestione di GSG con questo lavoro è stata funzionale ad instaurare un’analogia con gli obiettivi della propria realtà: vivere lo spazio condiviso come un luogo di incontro in continua ri-definizione, mettendo al centro il valore del “fare insieme”. A questa dinamica di condivisione informale di un’esperienza di gruppo – dopo una serata dedicata all’installazione Vienna di Stefano Faoro (Belluno, 1984), che faceva uso della sua collezione di bicchieri acquistati nei negozi dell’usato durante gli anni trascorsi nella capitale austriaca – ha invitato senz’altro anche l’installazione all’ombra di un albero di Gianlorenzo Nardi (Giulianova, 1995). Un tavolo e delle sedie in plastica da esterni, liberamente utilizzabili, hanno trasformato lo spazio in uno spoglio bar di periferia. Da casse nascoste sotto le sedute e il ripiano del tavolo promanava un sottofondo sonoro, che consisteva nella registrazione dei suoni di una passeggiata compiuta dall’artista in scenari urbani desertici alle prime luci dell’alba, quando il canto degli uccelli non è sovrastato dai rumori della città; quel paesaggio sonoro era poi destinato ad entrare in interferenza costruttiva con il chiacchiericcio dell’opening e con i rumori della strada, mentre il tavolo veniva colonizzato per una partita a carte. A febbraio, nei giorni di Arte Fiera, lo spazio ha eccezionalmente previsto un’offerta diversificata su tre serate: un “editorial party” di presentazione di un volume che raccoglie contenuti visivi e letterari relativi agli eventi tenutisi nello spazio lo scorso anno (Edito da Condylura e realizzato da Studio visivo, una collaborazione di Marco Casella e Mattia Pajé), una sessione di live broadcast del progetto itinerante di poesia e arte radiofonica Canale Milva e infine, in collaborazione con Act of Kindness, la presentazione di un nuovo dispositivo della serie Aural Tools (curato da Attila Faravelli con Luigi Turra e Fabio Perletta), concepito per ampliare l’esperienza di ascolto in relazione al corpo e allo spazio.



È stato poi il turno di un’altra proiezione: L’oiseau de feu, a ballet for tower cranes (2014-2015) del duo Calori & Maillard (Letizia Calori e Violette Maillard, insieme dal 2009), testimonianza di un’azione performativa su scala urbana ambientata nel grande cantiere di tre grattacieli in costruzione nel centro di Francoforte. Sette gru a torre montate in loco smettono di operare in modo funzionale e vengono coordinate dalle artiste in una coreografia sulle note del balletto L’uccello di fuoco (1910) di Igor Stravinskij, tratto da una fiaba russa, in cui il protagonista che dà il titolo all’opera ingaggia uno scontro con il mago Kasej, che tiene prigioniere tredici principesse e pietrifica gli uomini che si avventurano nel suo giardino. Le gru, come i malcapitati, sono liberate dalle proprie costrizioni (in questo caso l’essere al servizio della speculazione edilizia), e danzano, dissidenti, in modo improduttivo. Rispetto agli allestimenti minimali e “cristallini” dei lavori citati, nel caso di Misty lights, speed of desire di Lucia Cristiani (Milano, 1991) la fisionomia stessa dello spazio – e con essa la sua fruizione – è stata radicalmente alterata. Poste trasversalmente rispetto all’accesso dalla strada, due cortine celavano l’interno alla vista. Le superfici di questa “scultura” diafana, dal titolo Dense (2024), in varie tonalità di beige e marrone chiaro, sono il risultato di una stratificazione di bioplastiche ottenute con alghe provenienti dal Mar dei Sargassi: macchie, alonature, coaguli di materiale organico compongono un’orografia dalle screziature alabastrine. Da quella regione dell’Oceano Atlantico provengono le anguille europee, che poi al termine del proprio ciclo vitale vi ritornano per riprodursi e morire; sottotraccia permane dunque un riferimento ai corsi e ricorsi, alle mareggiate cicliche delle vite di tutti. Oltrepassati i separé, si disvelava un tesoro di spugne in bronzo disposte casualmente al suolo (Spugne perse, 2025), come se l’addentrarsi nello spazio avesse implicato anche uno sprofondamento nel mare, fino a toccarne il fondale.

Dopo una serata di talk e dj-set con Fango Radio, un laboratorio di scrittura creativa di Trinie Dalton e un live di Damian Dalla Torre (in precedenza si era tenuta anche la live performance sunwaemo di Andrea Bruera & SØVN), GSG è tornata a misurarsi con il medium video, con la proiezione in tre canali di Young Dictator’s Village (2004) di Paolo Chiasera (Bologna, 1978), mostrato qui, per la prima volta in Italia, a dieci anni di distanza dall’ultima proiezione, allo Stedelijk Museum di Amsterdam. In un villaggio di casolari abbandonati nella campagna bolognese (di nuovo, come nel caso di Trekking di Fantin, sono le immediate prossimità del capoluogo emiliano, bloccate nelle rispettive bolle temporali, ad offrirsi come ambientazione per narrazioni che trovano riflesso nell’attualità), nove giovani impersonano altrettanti dittatori del Novecento, assumendone le sembianze e i relativi atteggiamenti stereotipici. Su questi presupposti, i rapporti reciproci degenerano rapidamente in un crescendo insensato di violenza e le due fazioni contrapposte, raggruppatesi in funzione dei rispettivi orientamenti politici, provocano infine la distruzione totale del villaggio e, con esso, delle rappresentazioni a scala monumentale dei simboli dei dittatori. Un decimo personaggio, che è poi lo stesso Chiasera, subisce e poi incanala la violenza, traghettando al termine la pseudo-narrazione. Il collasso delle ideologie e delle immagini ad esse intrinsecamente legate lascia un mondo in macerie, un presente eterno al di là della presunta fine della Storia, ma a vent’anni di distanza quell’involuzione continua attraverso nuovi falsi miti, in un flusso informativo sempre più saturo. A seguito della creazione e del conseguentemente annichilimento dei fantocci di dittatori nella farsa di Chiasera, un altro corpo bloccato in una tensione irrisolta tra disgregazione e ricomposizione è giunto a manifestarsi nello spazio espositivo. In Hide-and-seek i frammenti corporei di una creatura ineffabile, in verità delle sculture del duo Yv (formato da Yuna Leonis e Veronica Lucarelli), riaffiorano dagli interstizi della doppia stanza: un volto illuminato da una torcia, due piedi in bilico sull’armatura del controsoffitto, un sistema nervoso o capillare sospeso in alto come un fascio di fili elettrici; reliquie o manifestazioni di una presenza. Sulle pareti alcuni piccoli dipinti di Emma Masut sembrano immaginare una (o plurime) possibilità di ricomposizione. La creatura abbandona lo spazio, che rimane sensibile a farsi impressionare da altre presenze in transito. In Tonight di Davide Sgambaro (Cittadella, 1989), il volume è rimasto vuoto, le pareti lasciate bianche e intonse, se non fosse per una sequenza ritmica di stelline nere che correva tutto intorno all’altezza del battiscopa, tracce impalpabili impresse sul muro con la suola di una scarpa Nike Air Force 1. L’azione performativa, Tonight (alive and kicking), si è svolta nello spazio in assenza di pubblico, ma è stata mandata in loop sui social di GSG in orari notturni, con un rimando ideale alla notte di San Lorenzo. L’operazione rientra infatti in una serie di lavori che Sgambaro ha dedicato al tema della stella cadente, come simbolo dell’espressione di un desiderio sospeso. È stato nuovamente un allestimento minimale a caratterizzare bambin sperdut* di Agnese Oprandi (Brescia, 2000): un video proiettato su un piccolo televisore portatile collocato all’estremità della sala si rifà all’immaginario dei bambini sperduti di Peter Pan per parlare di un’infanzia intrappolata in un loop emotivo, quella di una figura infantile con una pelle di volpe, alla ricerca della propria identità. GSG è tornata a gremirsi con lying on a car hood, mostra che ha riunito per la prima volta l’intera collezione di fanzine prodotte da Marco Mazzoni tra il 2013 e il 2024.



Nel ciclo di serate e progetti espositivi cadenzati su mesi di attività si è inserita, per tre settimane, la mostra Merda e luce, personale di Lucia Leuci (Bisceglie, 1977) che prende il titolo dall’omonima raccolta teatrale (2006) di Antonio Moresco. Come nella fonte letteraria, in mostra si giustappongono immagini vivide in bilico tra il poetico e l’infimo. A catturare l’attenzione sono, sulla sinistra, alcune rose in rame e stagno; materiali, questi, che conferiscono a foglie, petali e spine una bicromia preziosa. Sulle rose è adagiato un foulard di seta, adorno di un filo di perle e madreperla. Sulla destra, invece, ecco una sequenza di quelli che appaiono come sacchetti con escrementi di cane, lasciati abbandonati sul pavimento; ma contenitore e contenuto sono realizzati in nobile vetro soffiato. I titoli rimandano ancora all’inscindibile dicotomia di fondo: se per riferirsi agli scarti da marciapiede si usa il termine Bellezze, per i fiori si evoca un Fachiro contemporaneo; a questo allude, si comprende adesso, il foulard torturato dalle spine, e il titolo rimanda a sua volta ai venditori di fiori che, la notte, abitano la periferia del nostro campo visivo. Sulle pareti di fondo, si dispongono regolari delle concrezioni rilucenti, che, analogamente alle vetrate delle chiese, sono costituite da un’armatura filiforme in ferro riempita di resina colorata, ma su di esse si incastonano pietre semi-preziose, ceramica e madreperla. A ispirarle sono le linee dei cretti che si vengono a creare sull’asfalto nella calura estiva, e le macchie di colore dei chewing-gum gettati o sputati. I titoli suggeriscono un ulteriore rimando ad altre presenze dello scenario urbano, vale a dire i “maranza” e le “maranzine”, ragazzi che si assimilano ad un’identità di gruppo fondata sull’ostentazione di abiti di marca e su un atteggiamento di rivalsa dalla precarietà sociale. Caro maranza è anche il nome di un profumo che aleggia nella sala, elevando la fisicità assertiva dei maranza ad essenza eterea. Per riflettere sul lavoro di Lucia Leuci, Caterina Molteni richiama, nel testo di sala, lo strumento critico della “giustapposizione radicale” formulato nel 1962 da Susan Sontag per descrivere l’esperienza dell’happening: “un principio mutuato dal collage, capace di mettere in relazione elementi dissonanti – immagini, gesti, frammenti di linguaggi – provenienti da contesti normativi differenti”, impostato su una “logica onirica”, che a cinquant’anni di distanza trova nel lavoro della Leuci non più l’originaria funzione di destabilizzazione o dissacrazione, bensì quella di produrre una “frizione poetica”. Perché, chiosa Molteni, qui la giustapposizione radicale, “come la poesia, non inventa un’altra realtà, ma si muove tra le sue pieghe”.
In estate, GSG riprenderà il suo usuale ritmo settimanale, che si scandirà ora nel format Family Matters: otto mostre personali di artistə di diverse generazioni attivə nell’area di Bologna si configureranno come otto momenti conseguenti di un’unica mostra collettiva. Ad inaugurare la sequenza oggi 20 giugno è Lorena Bucur, seguita nelle prossime settimane da Marcello Galvani, Bekhbaatar Enkhtur e Sathyan Rizzo.
Cover: Paolo Chiasera, Young Dictator’s Village, 2004, videoinstallazione, 3 canali, 13’ 20’, installation view, Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna | Foto Niccolò Gandolfi



