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Saverio Rufini, Abiti per persone vulnerabili – Spazio Punch, Venezia

A Spazio Punch, il designer Saverio Rufini ha riunito nella mostra collettiva “Tropes of Vulnerability” gli abiti della sua collezione eponima e le opere di quindici giovani artisti
Saverio Rufini, The Ashes of Mata Hari, lingerie in tulle e perline, 2024

Testo di Eleonora Dal Bosco

Il 10 Febbraio 2024 a Spazio Punch, Venezia, il designer Saverio Rufini ha riunito nella mostra collettiva “Tropes of Vulnerability” gli abiti della sua collezione eponima e le opere di quindici giovani artisti; un manifesto che suggerisce nuove commistioni fra i discorsi di genere e moda. 

Quel giorno, all’interno dell’ex distilleria nell’isola della Giudecca, un ragazzo si è posizionato a intervalli regolari su un tappetino da gaming circolare per svolgere una serie di movimenti, lenti e ripetitivi al ritmo della musica riprodotta dal cellulare che teneva in mano. Ondeggiava, si sedeva, poi lasciava la sala. Il “Sick Dancer” (2024) come lo definisce l’artista e ideatore della performance Marco Resta, sembra teletrasportato da uno di quei rave che in parte ispirano l’estetica dissoluta di Rufini. Ed è infatti sua la felpa che indossa il performer: nera con motivi di piume ricamati sul cappuccio e la scritta “Kingdom of the Chosen” sul petto. I prescelti in questo caso sono gli artisti che esplorano attraverso diversi media come fotografia, pittura e scultura temi che spaziano dall’erotismo all’occulto, selezionati da Rufini per entrare in dialogo con i suoi capi. 

Appesi su grucce da lingerie fatte calare con fili trasparenti dalle luci a led, gli abiti di “Tropes of Vulnerability” sono simulacri di un armadio transgenerazionale che va giù vertiginosamente alle allacciature della corsetteria ottocentesca, per risalire attraverso i completi sartoriali dei Mod, passando per l’armamentario BDSM dei club underground e poi sempre più su, fino alla vetta del 2010, con l’abbigliamento striminzito degli emo. A cosa servono allora i vestiti, quando non ci sono corpi o manichini ad abitarli? Servono a essere guardati, ammirati e letti come planimetrie di uno spazio aspirazionale e intimo; locandine con su affisso un personalissimo ideale estetico e politico. 
Ne è un esempio la t-shirt nera di cotone dal taglio da uomo, che oscilla di fronte al dipinto “La Permanenza dell’Oggetto” di Tommaso Viccaro. Giù di spalle e larga, ma ripresa al lato con dei gancetti da lingerie a strozzarne la vita come un corsetto. Una guêpière fa  capolino dall’arricciatura sul fianco, mentre sotto al colletto a coste, un taglio sbieco incorniciato da una bordatura di raso è stato rattoppato con del pizzo bianco. Suggerisce sotto la superficie di tessuto spesso uno strato più profondo, delicato e gentile quasi provenisse da un tempo antecedente.

Untitled (Sick Dancer), 2024, Marco Resta, courtesy dell’artista.

La moda per Saverio Rufini è un complesso sistema di rimandi che si ispira in gran parte all’estetica punk, come anche alla loro abitudine ad inglobare nel loro abbigliamento quotidiano elementi esterni, come spille da balia e fantasie tartan, riscrivendone i codici. La t-shirt è un cortocircuito di stili: come l’opera di Viccaro riunisce oggetti tra il randomico e l’onirico che trascendono il concetto di tempo, così la maglietta si fa periodo ipotetico del “cosa succederebbe se” un’illustrazione medievale di Giovanna D’Arco ricamata in pizzo sostituisse le date di un qualche tour di Blondie stampate sul retro. 

Sante al rogo come allusioni mefistofeliche, c’è spazio davvero per tutto nel contesto della mostra. Sul tavolo da buffet all’entrata domina tra i “Pasticcini” (2022) – serie di cinque dipinti di Rebecca Zen – la Mano Pantea (2023) di Samuele Stazi, ricoperta di vernice rosso sangue e resina. Appesi alla parete opposta i diavoletti di Lorenzo Fasi, nei quadri “Demon Days I” e “Demon Days II” (2022). È così che il volto alato di un putto tintinna assieme agli altri pendentini sulla spilla di una harness di cinghie, fissate in vita con un nastrino di raso che pare sfilato da un corsetto vittoriano – come quelli indossati dalle bambole del trittico “Black Paintings” (2023), dell’artista inglese Toby Ursell. L’erotismo fosco e violento si mischia a uno più naif. Sotto l’imbragatura kink, una camicia leggera a righe grigie e dorate è decorata da un collo a fiocco. Non c’è un pomo d’Adamo che spunta né un seno a sollevare il tessuto, e il fatto che guardiamo questi vestiti senza sapere a chi appartengano è semplicemente irrilevante. Nemmeno i pantaloni riescono a fornirci alcuna indicazione; seppur strettissimi, non vi è segno dei genitali. Ce ne sono un paio blu in fresco lana a effetto denim, altri spalmati d’oro dove spunta tra le pennellate imprecise il tessuto grigio spinato. Un velo di tulle nero cucito alla vita e agli orli fascia entrambe le gambe. Riprende una tecnica tipica della conservazione di abbigliamento d’archivio che prevede di ricoprire il capo interamente per mantenerlo intatto. Nel caso di Rufini, è un’aura che avvolge i pantaloni e si frappone fra noi e loro; che ci permette di guardarli, di apprezzarne l’aspetto, eppure li rende inaccessibili. Come a ricordarci che quello che ci è di fronte ci appartiene solo in parte; che è estemporaneo e galleggia in un liquido amniotico fra passato e presente, libero da qualsiasi canone e politica di genere. 
Per il designer è sempre il capo d’abbigliamento a essere neutro, e mai il corpo che lo indossa a dover essere neutralizzato. I suoi sono i vestiti di tutte le ragazze e i ragazzi – un sesso a sé, lo definivano Francesco Bonami e Raf Simons. Quello della fear generation, ma con meno rabbia e acne sulle guance rispetto ai tardoadolescenti dei primi anni duemila.

Samuele Stazi, Panthea Rubedo Hand, argilla bianca e jesmonite, 35 x 18 x 7, 2023 | Rebecca Zen, Pasticcini, tecnica mista su tela, 40 x 30 cm, 2022

Una parabola del coming-of-age, come ben intende la t-shirt distrutta dalla scritta glitterata “Sweet Sixteen Forever” (2022) di Marco Resta. Maschi dalla mascolinità arrendevole alle costrizioni del tessuto quando il pezzo è attillato da non far passare neanche uno spillo, e morbida ed elastica quando i tagli si fanno più rilassati. Indossano abiti iperdecorati in un trionfo di ciondolini, collanine e fiocchetti impigliati su ogni superficie, con trasparenze che svelano i corpi spigolosi e le parti molli. Come i fianchi lasciati scoperti sotto una casacchina di paillette aperta ai lati. Un’abbondanza di elementi riconducibili al vestiario femminile che anziché evirarli, li rende appealing, li sessualizza. Sono giovani uomini vulnerabili, perché esposti e vestiti per essere guardati e desiderati. 

Tutt’altra storia per le ragazze immaginate da Rufini, che nelle sue collezioni tesse una mitologia di donne: eroine e dark ladies, fra tutte Lady Godiva e Lady Macbeth, e martiri per religione e per la nazione come Giovanna D’Arco e Mata Hari, ballerina esotica e spia. Sono le sue ceneri, quelle disposte sul tavolo di fronte ai due dettagli di nudo, “Miasma” (2023) e “Cerimoniale” (2023) della pittrice Marila Scartozzi: un set composto da bralette e guêpière di rete ornate da una cascata di perline nere. Domina fra i due seni un occhio di cristalli, a smascherare l’osservatore e renderlo cosciente del suo sguardo, un amuleto che annienta la male gaze. Il power dressing sa di naftalina, di fronte all’erotismo maturo e controllato della lingerie non riesce a non risultare contraddittorio: perché mai le donne per sentirsi potenti dovrebbero vestirsi come gli uomini? Nei manifesti di Rufini, è la nudità femminile a farsi rivendicazione di potere; come nei quadri intrisi di erotismo di Scartozzi, la loro sessualità uno strumento di libertà. 

In “Tropes of Vulnerability” non c’è niente di inedito. La collezione esposta all’interno della mostra è una rielaborazione di immagini che già esistevano, appartenenti a un passato dove la storia si intreccia al mito, che Saverio Rufini perlustra e manipola a suo piacimento e che non fa mistero di idealizzare. La moda per lui è una citazione sartoriale dove l’immaginazione riempie i vuoti della memoria; la manifattura dei suoi abiti un’operazione archeologica alla ricerca di significati inediti, che, se pur generati con uno sguardo volto indietro, risultino rilevanti per le istanze del presente. 

La mostra comprendeva, oltre agli artisti già citati, le opere di: Greta Ferretti, Pierluigi Scandiuzzi, Ornella Cardillo, Giovanni Borga, Arianna Carone, Lisa Martini, Diilan. 

Marila Scartozzi, Miasma, tecnica mista su tela, 40 x 40 cm, 2023 Marila Scartozzi, Cerimoniale, tecnica mista su tela, 60 x 40 cm, 2023
Tommaso Viccaro, La permanenza dell’oggetto, tecnica mista su tela, 200 x 140 cm, 2023 Saverio Rufini, Little Miss Emperor, t-shirt 100% cotone, ricamo in filo di cotone rosso, guanti in tulle, guepière originale, 2024