Testo di Matteo Patelli –
Se negli ultimi decenni – grazie all’emergere dei femminismi, degli studi postcoloniali e dei visual culture studies – la storia dell’arte ha subito importanti cambiamenti metodologici, in Italia tale approccio gode di ben più timide e recenti applicazioni all’interno della disciplina. Il libro di Sara Benaglia Note ai margini della storia dell’arte (Postmedia Books, 2023, 156 p.), s’inserisce in questo campo di ricerca, volgendo lo sguardo a rappresentazioni di genere e razzializzate a lungo escluse dalle analisi più canoniche. I casi studio passano senza linearità dalla storia dell’arte medioevale fino a quella contemporanea, con un ampio focus sull’arte e l’età moderna – contesto che vede l’affermarsi di diversi rapporti dualistici (uomo/donna, colonizzatore/colonizzato) al centro di molte riflessioni dell’autrice.
All’interno del volume Benaglia demistifica vari “regimi di rappresentazione” – ora del soggetto femminile come ancillare, ora di quello non occidentale come subalternità coloniale – che originano da quell’ “indegnità di parlare per gli altri” legittimata come atto di potere. Ecco che allora ci si interroga sul ruolo della serva nera nelle varie rappresentazioni di Giuditta e Oloferne, che l’autrice riconduce alla fascinazione, tutta orientalista, da parte di personaggi come Isabella d’Este. O si analizzano i blackamoors, rappresentazioni di uomini di colore inglobate nelle basi di sedute o vasi, che rimarcano (in maniera letterale) il ruolo di “servitori dal basso” andatosi a delineare dalle prime esplorazioni.O, ancora, si dedica un capitolo alle opere di Antonio Cifrondi (1656-1730), dove la rappresentazione degli schiavi mori arriva a farsi una macchina scura omogenea, priva di ogni tipo di caratterizzazione somatica e psicologica. In altri casi l’analisi entra in affondi più iconologici, come nel capitolo incentrato sul gesto della “V” in opere venete del Cinquecento. Da elemento eccentrico fatto risalire alle adepte di Diana, e legato a culti esoterici, il gesto ricompare all’interno di svariate rappresentazioni dove veneri e cortigiane alimentano la pulsione scopica dello spettatore maschile.
Ma la ricerca di Benaglia non è solo costituita dallo smascheramento dei “corpi docili” e dalla messa a fuoco delle “anamnesi delle costanti nascoste”, per citare il Foucault di Sorvegliare e Punire e il Bourdieu de Il dominio maschile. E neanche dalla sola demistificazione dell’estetica quale disciplina che ha eletto l’occidente a paradigma di universalità. All’interno del volume ci sono anche casi contro-egemonici (aspetto di per sé usuale in molte ricerche che adottano metodologie simili) che appaiono tuttavia decisamente eccentrici. Si prenda l’ultimo capitolo, che, sebbene tratti un caso di storia dell’arte medioevale, è decisamente una chiamata al presente. Protagonista è la “moglie del fabbro” illustrata nella bibbia di Holkham (1327-1335), una raccolta di storie bibliche e apocrife in francese normanno. L’episodio origina da una donna ebrea, la quale, a causa di una malattia del marito, si trova a fabbricare lei stessa i chiodi con cui Cristo verrà fissato alla croce. Applicando concetti femministi, si direbbe che Hedroit – il nome con cui la donna verrà successivamente ricordata – performa un’azione altra rispetto all’essenzialismo del suo genere. La sua agency è infatti contestualizzata da Benaglia seguendo le analisi di Silvia Federici, collocando il ruolo della donna in un periodo antecedente alla riorganizzazione del lavoro domestico a opera del capitalismo. Hedroit è quindi definita “figura protofemminista”, “icona futura”. Certo, la proposta suona come un’iperbole sovrastorica, ma qui Benaglia sembra non tanto preoccuparsi di cosa l’immagine di Hedroit rappresenti, ma di cosa essa voglia – per riprendere un testo ormai classico dei visual culture studies.
È chiaro che Note ai margini della storia dell’arte non sia una ricognizione definitiva su specifici argomenti, i quali richiederebbero affondi più precisi per essere trattati in maniera autonoma. Ecco che però l’impianto poco lineare del volume, suddiviso in brevi casi studio, contribuisca a minare il telos di una disciplina che l’autrice non si risparmia dal criticare. Allargando a possibili analogie, forse Hedroit potrebbe rientrare in quello che Griselda Pollock ha chiamato il “museo femminista virtuale”. Un museo pensato per accostamenti non diacronici delle opere, e definito “virtuale” per l’impossibilità di esistere entro i canoni attuali. Uno spazio immaginario in cui le opere, come accade nei capitoli, “cessano di essere semplici oggetti da classificare in base alla valutazione estetica o alla paternità idealizzata”, e dove l’essere ai margini della storia dell’arte può costituire – per dirla con bell hooks – anche uno spazio di possibilità.
[1] Conversazione di M. Foucault con G. Deleuze, “Les intellectuels et le pouvoir”, in M. Foucault, Dits et Écrits, Gallimard, Parigi, 1994 [1972], vol. II, testo no 106, p. 309.
[2] Cfr. S. Federici, Calibano e la strega: le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, Milano-Udine, 2020.
[3] Cfr. W. J. T. Mitchell, “What Do Pictures ‘Really’ Want?” in October, vol. 77, 1996, pp. 71–82.
[4] Cfr. G. Pollock, Encounters in the virtual feminist museum: Time, space and the archive, Routledge, 2007. [1] Ivi., p.10.
Sara Benaglia Note ai margini della storia dell’arte
Postmedia Books, 2023, 156 p.