Testo di di Irene Bagnara —
La vastità e varietà di progetti, esposizioni e iniziative che interessano Venezia nel periodo di Biennale rendono la laguna un luogo artisticamente e culturalmente denso, il punto d’intersezione e incontro di voci internazionali e tendenze.
In questo panorama complesso e ricco di stimoli, cinque fra le più importanti gallerie veneziane presentano altrettante mostre in cui vengono esplorate questioni quali il rapporto fra rappresentazione e imitazione, contenuto e stile, fruitore ed esperienza, narrazione e identificazione culturale, espressione artistica e denuncia politica.
Marignana Arte presenta Ideal-Types [Chapter 2], collettiva incentrata sul rapporto fra universale e particolare curata da Alfredo Cramerotti ed Elsa Barbieri. Gli “ideali” o “tipi” sono le strutture attraverso cui organizziamo concettualmente la realtà. Pur non riducendosi o esaurendo la varietà di concretizzazioni singolari che ci circondano, questi paradigmi generalissimi sono in grado di descrivere i tratti salienti e le connessioni distintive dell’esistente. L’universale è intrinsecamente utopico: non imita la realtà ma la modifica attivamente e ha per questo una portata sovversiva, rivoluzionaria. L’archetipo è dunque strumento al contempo logico e pratico, la condizione necessaria tanto della conoscenza quanto dell’azione. I curatori ci propongono una serie di lavori dall’estetica asciutta, indagini ridotte ai minimi termini percettivi in merito ai concetti di “scultura”, “dipinto”, “opera d’arte”. Il percorso è pensato per coinvolgere direttamente il visitatore, chiamato a instaurare un dialogo fra le opere e lo spazio espositivo. Mentre Angelicato di Maurizio Donzelli è il risultato di una ricerca sull’archetipo di immagine e sulla sua manipolazione, i lavori di Veronica Vázquez e Artur Lescher esplorano l’essenza materica e volumetrica della scultura e i rapporti che questa instaura con lo spazio circostante. Le opere provenienti dalla serie Essenziali (1990-1995) di Antonio Scaccabarozzi indagano infine l’idea di pittura come corpo fisico, costituito da tracce di colore puro e denso che, attraverso la sovrapposizione e ripetizione, arrivano ad acquisire tridimensionalità.
Proprio come l’archetipo, l’opera è portatrice di un’istanza di riflessione e promuove quindi mutamenti pratici. A differenza degli antichi non concepiamo l’arte – e specialmente quella contemporanea – come mera imitazione o rappresentazione della realtà. “Dallo specchio alla finestra sul mondo”: con queste poche parole potremmo descrivere tale cambiamento radicale della nostra comprensione e percezione del lavoro artistico. È interessante dunque che la mostra Mauri I Muntadas, ospitata dalla Galleria Michela Rizzo e curata da Laura Cherubini, si apra con un grande Schermo, lavoro del 1970 di Fabio Mauri. La superficie monocroma cita letteralmente lo screen televisivo o il terminale informatico: uno spazio vuoto, anonimo, pronto ad essere “riempito” da qualsiasi tipo di contenuto, anche strettamente personale. L’artista infatti è interessato allo scontro fra la coscienza del singolo e il corso della Storia, allo scarto fra le decisioni individuali e i macroscopici eventi socio-politici. Se per Mauri i concetti chiave della mostra – Potere e Manipolazione – sono esaustivamente rappresentati e descritti nelle strutture dei regimi totalitari, Antoni Muntadas declina il tema prendendo in esame le forme occulte di sorveglianza e controllo di cui il potere si serve per mantenere le masse in posizione subalterna. I lavori dell’artista spagnolo sono dei “non-finiti”, proposizioni incompiute che richiedono l’intervento del visitatore. È il caso del banner “Attenzione: La Percezione Richiede Impegno”, riportato da Michela Rizzo in laguna dopo la Biennale del 2005. Il progetto di Laura Cherubini fa incontrare per la prima volta questi due artisti di fondamentale importanza per la storia dell’arte a cavallo fra Novecento e XXI secolo, creando dialoghi inediti fra lavori che condensano in una forma semplice e immediata una ricchezza di significati e rimandi eminentemente politici.
Island Ark, personale di Marcos Lutyens presso la sede veneziana della galleria Alberta Pane, muove da riflessioni socio-economiche e politiche per sollevare interrogativi sulla natura del lavoro e dell’esperienza artistici. Quello che ci viene presentato nello spazio espositivo è un vero e proprio progetto utopico, la cui probabilità di concretizzazione non ne inficia l’efficacia culturale e spirituale. L’artista propone di risolvere la perdita di abitabilità causata dall’innalzamento del livello del mare attraverso la riqualificazione di piattaforme petrolifere abbandonate. Sovvertendo il rapporto fra oggetto e funzione, strutture che per decenni hanno distrutto interi ecosistemi possono così diventare strumenti di riappropriazione geografica, identitaria e sociale. Oltre all’istanza politica e alla riflessione sulla crisi ambientale, Island Ark suggerisce un modo del tutto peculiare di esperire il lavoro artistico e lo spazio espositivo. Attraverso una stimolazione al contempo visiva, tattile e uditiva il visitatore è invitato a riscoprire i propri sensi, la relazione con gli altri e con l’ambiente. Seguendo un percorso ascensionale mediato da una serie di sollecitazioni e dal contatto diretto con le installazioni, si ha accesso a un elevamento spirituale che, partendo dal subconscio, arriva a sfidare le categorie attraverso cui pensiamo e conduciamo la nostra esistenza su questo pianeta. La mostra si è aperta con la rielaborazione di una performance fatta da Lutyens nel 2000 allo IUAV, realizzata in collaborazione con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. I performer, condotti dall’artista a uno stato di profondo rilassamento, hanno prodotto un lavoro pittorico camminando a piedi nudi intrisi di colore su di una superficie candida. La personale di Lutyens si configura perciò come un’opera totale che sfida i confini – ideali e reali – dell’oggetto artistico.
Il concetto tradizionale di spazio espositivo viene messo in discussione nella collettiva Exercises in Style, ospitata dalla galleria A plus A e organizzata da Novel, piattaforma curatoriale itinerante ideata da Alun Rowlands e Matt Williams per indagare differenti forme di story-telling nell’ambito delle arti visive e non. La mostra affronta una serie di contrapposizioni connaturate alla rappresentazione letteraria e visiva, conducendo la pratica del racconto alle sue estreme conseguenze: i lavori degli artisti non vanno letti in sequenza lineare ma nella simultaneità propria delle immagini; non mirano a produrre un resoconto esatto della realtà, una storia coerente e veritiera. L’obiettivo è invece quello di comprendere quanto la relazione fra voce parlante e lettore influenzi le modalità e l’oggetto della narrazione. Il nodo tematico fondamentale è forse il rapporto fra contenuto e stile. Si tratta di un’opposizione solo apparente: specialmente nell’ambito artistico ciò che viene raccontato determina – e a sua volta è determinato – dal tipo di story-telling scelto dal narratore e dalla risposta dell’interlocutore. Ghislaine Leung interviene direttamente sulla vetrata principale della galleria, occludendo la vista ai passanti e trasformando la finestra in una pagina di postfazione. Il lavoro di Leung ci accompagna lungo l’intera mostra, con note a parete che rendono lo spazio espositivo un libro collettivo, in cui le pagine sono le sale e i lavori degli artisti i capitoli. Se Loretta Fahrenholz usa la sovrapposizione d’immagini per raccontare Mirror Story. Anthony D Green traduce in forma scultorea l’ultima performance di Antonin Artaud, condensando nella simultaneità propria dell’oggetto fisico e dell’immagine una serie di azioni e gesti. Helen Cammock (nominata finalista del Turner Prize 2019), in conversazione con James Baldwin, racconta la storia degli artisti afroamericani trasferitisi in Europa per lavoro a partire dagli anni ’20, instaurando interessanti parallelismi con la congiuntura politica e socio-economica odierna. Keren Cytter trasla in disegno la biografia The Woman with Fifteen Legs, sovrapponendo la propria identità a quella della protagonista e creando così un cortocircuito fra autore e personaggio, realtà e finzione, contenuto e contenitore.
L’intersezione identitaria, culturale e storica è anche alla base del lavoro di Njideka Akunyili Crosby, artista affermata nel panorama internazionale di origine nigeriana, a cui è dedicata la personale The Beautiful Ones nella sede veneziana di Victoria Miro. Il titolo della mostra richiama l’omonima serie iniziata da Akunyili Crosby nel 2014 e non ancora conclusa. Si tratta di ritratti di bambini realizzati a partire da fotografie di famiglia o scattate in occasione dei numerosi viaggi dell’artista nel suo paese d’origine. Il tratto pulito, quasi “cristallino”, di impianto fortemente realista, delinea scene solo apparentemente ordinarie: questa quotidianità “fittizia” è costellata di oggetti dall’identità culturale marcata, dettagli che confondono il senso del tempo e rimandano agli anni Ottanta più che alla contemporaneità. Da questa prima superficie pittorica vivida e vibrante emerge, ad uno sguardo attento e ravvicinato, una seconda ondata di immagini, provenienti dalla cronaca nigeriana o dalla cultura pop e incastonate dall’artista sul foglio attraverso la tecnica del trasferimento con acetone. Si realizza così una composizione ritmica e complessa, in cui alla stratificazione temporale corrisponde un’ibridazione culturale e identitaria. Non è un caso infatti che i soggetti di Akunyili siano solo bambini: legandosi alla tradizione europea del ritratto infantile, quelle che l’artista nigeriana offre sono immagini altamente condensate di presente e futuro; rappresentazioni dell’infanzia attraverso le aspettative, le paure e i progetti propri dell’età adulta. Una sorta di romanzo di formazione per immagini, un processo in fieri cristallizzato nella bidimensionalità. In sostanza l’opera d’arte per antonomasia: una narrazione non necessariamente informativa, veridica, coerente; un racconto mai neutro, il cui contenuto e la cui modalità di esternazione si definiscono compiutamente solo attraverso la relazione fra voce parlante e interlocutore, artista e pubblico.
Ideal-Types [Chapter 2]
Athanasios Argianas, Maurizio Donzelli, Nancy Genn, Artur Lescher, James Lewis, Alice Pedroletti, Antonoi Scaccabarozzi e Veronica Vázquez.
A cura di Alfredo Cramerotti ed Elsa Barbieri
Dal 7 maggio al 7 settembre 2019
Marignana Arte, Dorsoduro 141, Rio Terà dei Catecumeni, 30123, Venezia (VE)
Mauri I Muntadas
Fabio Mauri e Antoni Muntadas
A cura di Laura Cherubini
Dal 9 maggio al 31 agosto 2019
Galleria Michela Rizzo, Isola della Giudecca 800 Q, 30133, Venezia (VE)
Island Ark
Marcos Lutyens
Dal 9 maggio al 14 settembre 2019
Galleria Alberta Pane, Dorsoduro, Calle dei Guardiani 2403/h, 30123, Venezia (VE)
Exercises in Style
Helen Cammock, Keren Cytter, Loretta Fahrenholz, Anthony D Green, RB. Kitaj, Ghislaine Leung, Josef Strau.
Dal 5 maggio al 7 agosto 2019
Galleria A plus A, San Marco, Calle Malipiero 3073, 30124, Venezia (VE)
The Beautiful Ones
Njideka Akunyili Crosby
Dal 8 maggio al 13 luglio 2019
Victoria Miro Venice, Il Capricorno, San Marco 1994, 30124, Venezia (VE)