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ReA! Fair | Focus sulle proposte della V° edizione

ReA! Fair torna a Milano dal 12 al 15 giugno 2025 con la sua quinta edizione, per la prima volta in formato estivo e in una nuova sede: lo spazio OPOS, nel cuore del Certosa District.

La fiera, organizzata da ReA! Arte, è dedicata agli artisti emergenti e si distingue per la scelta di escludere gallerie e musei, creando un contatto diretto tra artisti e pubblico.
Quest’anno sono stati selezionati 50 artisti tra oltre 500 candidature internazionali, offrendo una proposta più concentrata e curata. Le opere in mostra affrontano temi legati all’identità, alla tecnologia, al corpo e al nostro modo di guardare il mondo, con approcci personali, sperimentali e spesso provocatori.
Per la prima volta, la fiera presenta anche una sezione dedicata a sei artisti provenienti da Egitto e Arabia Saudita, curata da Sahar Behairy, che porta in fiera nuove prospettive e narrazioni dal Medio Oriente e dall’Africa.

Di seguito una selezione di artisti e opere presenti in questa edizione della fiera, tra pittura, scultura, fotografia, video e linguaggi espressivi ibridi.

Erica Bardi

Erica Bardi (Napoli, 1998) è un’artista visiva italiana di base a Milano. Dopo aver studiato pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera e fotografia al CFP Bauer di Milano, attualmente frequenta il master in Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Brera. La sua pratica artistica si fonda su un legame costante tra una componente autobiografica e ciò che la circonda. La fotografia funge allora da tramite tra la sua sfera emotiva e il mondo esterno, dove la realtà quotidiana e gli oggetti legati alla memoria hanno un ruolo fondamentale e diventano protagonisti delle sue opere.
C’è un moto interno che spinge ciascun artista a intraprendere l’atto di creazione di un’opera d’arte, quell’onda inspiegabile che porta con sé la volontà di trovare una forma alle proprie emozioni, di far apparire cose ed esseri che prima di questo atto non esistevano, così come esiste un legame invisibile tra lo spettatore e l’opera nel momento in cui avviene l’immedesimazione. Erica Bardi rappresenta con una poeticità visiva delicata e silenziosa quegli stati d’animo che arrivano senza preavviso nelle vite di ognuno, ma che almeno una volta tutti hanno provato. Impotenza, vuoto, apatia, ma anche incontrollabile emotività, agitazione, euforia.
Le opere esposte in fiera sono parte dell’ultimo progetto dell’artista, As long as the Sun lasts (2023 – 2025), e danno forma a un periodo della sua vita costellato da forti contrasti emotivi. Attraverso la metafora della cometa, corpo celeste che alterna fasi di totale stasi e momenti di massima attività a seconda della loro vicinanza al Sole, Bardi rielabora il viaggio di queste stelle -che da asteroidi freddi si trasformano in oggetti luminosi con le loro code e le loro chiome- tentando di trovare in loro un punto di contatto. “Così ho iniziato a cercare comete – spiega l’artista – nella mia realtà quotidiana, indagando un legame tra me e loro”.
 Queste fotografie rimandano a quella sensazione di eccitazione, ma anche disorientamento, di quando si chiudono gli occhi talmente tanto forte che una volta riaperti un milione di piccole stelle e lucine oscurano la visione. E poi le venature di un pezzo di ghiaccio che si fa immagine di uno stato di immobilità. Elementi di un corpo al microscopio o oggetti quotidiani, facili da riconoscere e associare al calore o alla freddezza di un momento di vita, di quello che è il nostro viaggio intorno al Sole.
Erica Bardi nell’ultimo anno ha partecipato a diverse mostre collettive e festival in Italia, tra cui La Prima Volta a Casa Testori a cura di Marta Cereda, una bi-personale a Chippendale Studio a cura di Luca Panaro, Liquida Photo Festival alla Cavallerizza Reale di Torino e alla Fabbrica del Vapore di Milano a cura di Laura Tota. Nel 2025 il suo progetto As long as the Sun lasts è diventato un libro d’artista, realizzato con il supporto di Luca Panaro e Chippendale Studio. La pubblicazione è stata presentata a BASE durante l’evento The Art Chapter e con una mostra presso Chippendale Studio.

Testo di Erica Massaccesi

Graziella Romeo
Home
Tecnica mista su tavola
12,5 x 8,5 cm 10 x 14 cm 2023

Graziella Romeo

Graziella Romeo è un’artista visiva italiana che vive e lavora a Reggio Calabria. Le sue opere ruotano intorno al tema della memoria, con frequenti riferimenti alle sue radici e ad immagini della sua infanzia. La incuriosiscono l’idea di falso ricordo, che ha indagato in alcune sue opere, e l’utilizzo dell’intelligenza artificiale come possibile medium creativo. Anche la contrapposizione tra ricordo e dimenticanza ha grande importanza nel lavoro di Romeo che vede questo binomio come la base fondante dell’idea che ognuno ha di sé. 

Home è l’opera con cui Romeo prende parte a questa edizione di ReA Fair, un titolo scelto non a caso, ma in contrapposizione a “house”, termine che si limita a descrivere una semplice struttura abitativa. “Home” evoca invece un luogo dell’anima, il rifugio della memoria. In questo progetto, frammenti d’infanzia riaffiorano attraverso fotografie trasformate, reinventate dal gesto artistico che intreccia collage, pittura e decollage. Spessi blocchi di legno sono sagomati a riprodurre delle casette di diverse dimensioni all’interno delle quali le immagini si sgretolano, consumate dal tempo, come tracce di un passato che riaffiora e si trasforma, rivelando nuove forme e significati. L’effetto di logoramento delle immagini porta a riflettere non solo sul naturale deteriorarsi dei ricordi, ma anche sul modo in cui l’esperienza e il vissuto personale li ridefiniscono.

Con grande intensità e poesia Romeo riesce con quest’opera a trasformare frammenti di vita in una narrazione visiva che va oltre la semplice rappresentazione, sottolineando che la casa non è solo un luogo fisico, ma anche uno spazio emotivo ed interiore.

Con le sue opere Graziella Romeo ha preso parte a numerose esposizioni collettive come “Illustrami 5”, mostra a cura di Young Art Hunters, Milano (MI) 2022, “Oikos – La dimora delle memorie”, bipersonale a cura di R. Guarnera con testo critico di M. Zagone, FOTO G Gallery, Messina (ME) 2024 e al “Premio Luigi Candiani – Giovani Artisti”, collettiva a cura di SAC – Spazio Arte Contemporanea, Robecchetto con Induno, Milano (MI) 2024.

Testo di Rita Meschiari

Andrea Ricklin

Il mondo di Andrea Ricklin è fatto di illusioni color pastello e disincanti zuccherati. Una fusione tra Polly Pocket e l’iper-capitalismo da doomscrolling compulsivo: un viaggio nostalgico dai toni tenui, dove ogni sogno venduto alla cassa arriva con l’asterisco. La sua pratica si muove tra il digitale e l’analogico, smontando i modi in cui gli algoritmi plasmano le nostre ossessioni, le nostre relazioni, il nostro stesso senso dell’identità. È giocosa, è tagliente — come sfogliare un vecchio catalogo di giocattoli, cerchiando desideri che non sono mai finiti sotto l’albero.

Il lavoro di Ricklin vibra nella tensione tra scelta e controllo: quanto di ciò che bramiamo è davvero nostro? E quanto ci è stato imboccato, pixel dopo pixel, curato da una mano invisibile? L’artista si diverte a svelare l’assurdità della cultura del consumo, mescolando oggetti quotidiani a estetiche surreali per rivelare i meccanismi che si nascondono dietro a patine luccicanti. Scaffali coordinati per colori brillanti, packaging brandizzati, slogan pubblicitari, si infiltrano nelle sue installazioni non come elementi passivi, ma come artefatti di un’esistenza silenziosamente orchestrata dalle promesse del marketing. Non è un caso che Ricklin lavori in un supermercato: lì, il desiderio si produce in tempo reale. Accorgersi che quegli elementi si erano già infiltrati nel suo lavoro in modo inconsapevole è stato un momento di svolta per l’artista — un’epifania avvolta in un codice a barre.

Le sue opere oscillano tra lo stupore infantile e il disagio dell’età adulta, come a guardare in un caleidoscopio per scorgere un riflesso distorto della realtà. C’è qualcosa di innocente, quasi rassicurante, nelle sue immagini — casette di bambole, lucciole, finestrini che incorniciano il mondo come un diorama in movimento. Ma basta uno sguardo più attento, e quel ricordo dai toni rosa si incrina sotto il peso della precarietà economica, dell’ansia climatica, del controllo algoritmico. Il sogno si trasforma in prodotto standardizzato, impacchettato e monetizzato.

Alla ReA Fair 2025, Ricklin presenta Like a Moth to a Flame (2025), un’installazione che cristallizza la sua continua esplorazione del libero arbitrio nell’era digitale. Una costellazione di finestrini d’auto, disposti a formare una farfalla — delicata, effimera, sul punto di svanire. La farfalla, simbolo di metamorfosi e rinascita, qui si trasforma in uno specchio delle nostre aspettative: fragile e leggera, schiacciata sotto il peso della fantasia consumistica. Ma non è solo una questione di metafore poetiche. Ispirato ad Alice nel Paese delle Meraviglie, un video accompagna l’installazione, guidando lo spettatore attraverso un paesaggio onirico e iperreale fatto di inganni algoritmici: la Regina di Cuori come figura d’autorità assoluta, la realtà che si dissolve in uno scroll infinito di paesaggi surreali e pubblicità mirate. Clicca qui. Acquista ora. Segui il Bianconiglio.

Il lavoro di Ricklin è una lettera d’amore alle ragazze che sono cresciute fantasticando dal sedile posteriore dell’auto, credendo che il mondo fosse lì per essere conquistato — solo per scoprire che era già stato confezionato e venduto. Mescolando i contorni morbidi della nostalgia con la pungente consapevolezza della manipolazione digitale, L’artista trascina gli spettatori in un mondo allo stesso tempo familiare e disorientante, dove , dove l’illusione di poter scegliere si confonde con sottotesti iperreali. In Like a Moth to a Flame (2025), l’invito è chiaro: entrate, ma fate attenzione a ciò che desiderate. Le farfalle possono essere affascinanti, ma la luce che inseguono non è altro che uno schermo che lampeggia.

Testo di Vittoria Martinotti

Jeltje Schuurmans
Spine 
50 x 2 cm
Metallo
2024

Jeltje Schuurmans

Jeltje Schuurmans (1996, Utrecht) si è laureata presso la Utrecht School of the Arts (Hogeschool voor de Kunsten Utrecht) e ha conseguito un Master presso il Piet Zwart Institute di Rotterdam nel 2023. La sua ricerca artistica esplora il complesso rapporto tra psiche e corpo, indagando le interazioni e le distorsioni che li legano. Attraverso scultura, video e performance, la sua pratica trasforma il corpo in un paesaggio emotivo in cui il passato e il presente si intrecciano, creando uno spazio dove la materialità e l’introspezione si incontrano. Le sue opere offrono una riflessione sulla vulnerabilità del corpo, sulle memorie che esso conserva e sulle tracce invisibili lasciate dalle esperienze.

Le opere esposte in ReA Fair concretizzano questa ricerca attraverso una scultura e due opere pittoriche fortemente materiche. Spine, una spina dorsale trasparente e argentea, pensata per essere posizionata sulla costa di una porta – simbolo di soglia e passaggio – suggerisce il confine tra l’interno e l’esterno, tra il visibile e l’invisibile. La sua superficie riflettente e la sua struttura sottile evocano un corpo sospeso tra presenza e dissoluzione, fragile eppure resistente.

Accanto alla scultura, due dipinti materici amplificano la tensione tra corpo e materia. Inflammation I e Hemostasis III sembrano incarnare ferite aperte, superfici lacerate che trattengono e al tempo stesso rivelano un processo di trasformazione. Il primo, di dimensioni più contenute, si manifesta come un coagulo di materia, mentre il secondo, con la sua ampiezza e stratificazione, allude alla complessità della riparazione e della memoria corporea. Ogni strato di questi lavori suggerisce un tessuto connettivo tra pelle ed emozione, tra trauma e guarigione.

Come afferma l’artista: “Ogni opera che creo è una superficie, uno strato o un impronta, e può essere vista come pelle o paesaggi. L’idea di pelle mi affascina — la parte più esterna è visibile, ma sotto di essa ci sono molti altri strati nascosti.” La pelle, simbolo di confine e protezione, diventa il punto di partenza per una riflessione che va oltre la materialità del corpo, toccando la sua dimensione psichica ed emotiva. Ogni strato della pelle nasconde storie e memorie, tracce di esperienze che parlano di vulnerabilità e cambiamento.

Le opere di Schuurmans, recentemente esposte in mostre come ECC Italy alla Biennale di Venezia e al Het HEM di Zaandam, ci invitano a riflettere sul corpo come una forma in continuo cambiamento, permeata dalle memorie e dalle interazioni con l’ambiente che lo circonda. La sua pratica sfida il confine tra ciò che è visibile e ciò che rimane nascosto, creando uno spazio in cui il corpo diventa metafora della nostra esistenza fluida, interconnessa e in costante trasformazione. Schuurmans non solo rivela il corpo nelle sue forme più intime, ma lo mostra come un’entità sempre in dialogo con il mondo, con le sue emozioni e le sue memorie.

Testo di Benedetta Maiani

Marko Milovanovic
Ornaments Collapsing
Stagno, lattice
155,5 × 200 × 4 cm
2024

Marko Milovanovic

Marko Milovanovic è un artista svizzero-serbo nato a Berna nel 1997. La sua ricerca esplora la tensione tra artigianato e tecnologia, natura ed effimero. Attraverso un’attenta indagine sulla materialità, la sua pratica mette in luce l’impermanenza delle sostanze organiche in contrasto con la durabilità dei materiali industriali. Tra le sue esposizioni più recenti figura Regrets and Regards (2024, Berna).

In Ornaments Collapsing, Milovanovic realizza una composizione fragile ma complessa, formata da ottanta moduli individuali. L’opera impiega stagno — materiale chiave nell’elettronica — modellato in strutture elaborate e simili a merletti, parzialmente rivestite in lattice. Questo processo dà origine a un sorprendente gioco di contrasti tra resilienza e decadenza: mentre i fili metallici restano intatti, la pelle di lattice è soggetta a inevitabili trasformazioni nel tempo, rivelando gradualmente il nucleo strutturale sottostante.

Da lontano, l’opera emana un senso di raffinatezza, con la sua rete delicata che richiama motivi ornamentali. Tuttavia, a un’osservazione ravvicinata, ne emerge la lenta disintegrazione, suscitando un senso di inquietudine e confrontando lo spettatore con la fragilità della permanenza artificiale. Ornaments Collapsing si configura così come una riflessione sulla durata dei materiali in un’epoca dominata da un consumo tecnologico accelerato, dove innovazioni effimere convivono con scarti persistenti.

L’approccio di Milovanovic, sospeso tra intuizione e rigore, dà vita a un’opera al tempo stesso poetica e perturbante. Ornaments Collapsing invita a riflettere sulle contraddizioni della sostenibilità, sull’estetica della decadenza e sul complesso dialogo tra il gesto umano e la permanenza generata dalle macchine.

Testo di Valeria Conti

Ohii Katya Buffet of the Odd (Cutlery Set) Argento massiccio 13 x 8 x 4 (ognuno) 2024

Ohii Katya

Ohi Katya è un artista multidisciplinare di origini ucraine con base a Berlino.
I suoi lavori comprendono installazioni immersive, sculture e performance che spesso vedono integrare materiali organici come cibo e liquidi ma anche industriali come metallo, resina e siliconi. Spesso l’artista fa interagire le diverse forze di questi materiali per confondere le potenzialità e creare suggestioni allucinatorie e aliene nel suo spettatore.
Cercando di incentrare la sua narrazione sulla speculazione fantascientifica, porta alla realtà creature oscure e mondi alieni che vedono nei processi di metamorfosi, intensi e persino violenti, l’unica possibilità di comprensione del mondo odierno.
I mutanti e le creature ibride messe in scena dall’artista, assieme alle loro gestualità e costumi inediti e sconvolgenti, creano una tensione respingente e provocatoria che allo stesso tempo incuriosisce e ha il fascino dell’ignoto, di qualcosa di sconosciuto e indefinito. Nelle performance dell’artista cavi d’acciaio, tubi, liquidi e cibarie si confondono e si penetrano costantemente fino a confondere le categorie di corpo umano e corpo artificiale. La performance mira a produrre umori e inquietudini rappresentando l’affermazione del soggetto ma la vanificazione della specie umana. 
In occasione della quinta edizione di ReA Fair, l’artista porta tre oggetti apparentemente semplici che appartengono a qualche creatura a noi lontana. Sono tre utensili che associamo alla cucina e alla tavola ma che non hanno le forme che conosciamo in epoca moderna. Sembrano appartenere ad una specie che forse non conosceremo mai, che avrà sembianze fisiche completamente diverse da quelle umane. Sono sculture in argento, che luccicano come gioielli preziosi con dettagli minuziosi. L’artista ne ha ricavato il modello attraverso la modellazione di zucchero sciolto, spesso utilizzato anche nelle sue performance e nelle sue installazioni, per permetterle di giocare con forme ardite e taglienti.
Le tre sculture esplorano cosa significhi esistere in un mondo in continua evoluzione in cui niente e nessuno potrà mai essere uguale. Immaginare scenari futuristici significa mettere il corpo umano al centro della trasformazione, un corpo che avverte la necessità di ibridarsi con la tecnologia per necessità evolutiva ma soprattutto per sopravvivenza. 

Testo di Milena Zanetti

Yicai Pan
View
Installazione scultorea
140 × 70 × 100 cm
67 × 67 cm
2025

Yicai Pan

Il world-building è un atto di immaginazione e potere, un modo per ridefinire la percezione e costruire nuove possibilità. Eppure, riscrivere il mondo, tramandarne le sue cronache, porta sempre con sé una tensione sottile — un misto di dolore ed eccitazione. Come si può ricostruire una società in declino, alimentata dal consumo e dalle disuguaglianze coloniali? Forse la chiave sta nell’immaginare l’inimmaginabile, nel creare spazi in cui la creatività possa muoversi oltre i limiti — verso il fantastico, verso l’altro.
È proprio questo che fa Yicai Pan: dà vita a mondi — strani, fratturati, indomabili. La sua pratica si colloca tra il surrealismo e la simulazione, dove il mito si mescola al digitale e la natura non è mai ciò che sembra. Non si limita a rappresentare paesaggi: li deforma, smontando la logica che stabilisce ciò che è considerato reale. Un salice-dragone sviluppa artigli. Il cielo restituisce lo sguardo. Un bonsai non resta più docile nella sua prigione di ceramica, ma si torce in una creatura mostruosa, sfuggendo alla domesticazione. Il suo lavoro disintegra la rassicurante illusione del controllo. Il bonsai, radicato nella tradizione cinese del penjing, nasce come simbolo di armonia — un equilibrio curato tra l’essere umano e la natura. Ma per Pan, non si tratta di equilibrio: è una metafora di potere. Potare, modellare, contenere — finché il selvatico diventa oggetto ornamentale, estetica addomesticata. L’artista porta questo gesto al limite, creando forme ibride che rivelano le tensioni tra naturalità e artificio, mito e macchina. Il risultato? Un ecosistema in cui l’adattamento biologico è indistinguibile dall’intervento tecnologico, dove ogni cosa — viva o inanimata — rischia di essere riconfigurata, convertita, estetizzata. Nelle sue mani, la vegetazione sviluppa pelli sintetiche, il metallo pulsa come se fosse vivo, e tutto sembra bloccato in una mutazione instabile, in un processo inquieto di trasformazione continua.
Il linguaggio visivo di Pan si fonda sulla contraddizione — delicato ma feroce, controllato eppure caotico. Attinge all’assurdo dell’era digitale, all’immaginario del mostruoso, a una lunga genealogia mitopoietica. La scienza può aver fornito spiegazioni, ma lei preferisce indagare le crepe — i margini in cui la realtà si sfalda. Cosa vediamo quando guardiamo il mondo? E, soprattutto, cosa ci sfugge? Le sue immagini evitano la narrazione lineare, rifiutano la spiegazione. Nessuna trama, nessun pathos — solo frammenti, scorci, ambienti che sembrano provenire da un sogno interrotto o da una simulazione incompleta. Il mondo che costruisce non è né qui né altrove — ed è proprio questa la sua natura.
All ReA Fair 2025, Pan presenta View (2025), un’opera che condensa la sua riflessione su percezione e controllo. Un salice-dragone, un tempo emblema di raffinatezza colta, si trasforma. Artigliato, allungato, deformato in una creatura a metà tra pianta e bestia, diventa un monumento surreale al confine sfocato tra organico e artificiale. Materiali industriali come ferro e resina si infiltrano nella sua struttura, rafforzandone la natura liminale e ibrida. L’opera emana una minaccia silenziosa, come a ricordare che ciò che plasmiamo potrebbe, a sua volta, plasmare noi.
E poi c’è il cielo — incontrollabile, eterno. Pan lo incornicia come una finestra bonsai, un simbolo di prospettiva confinata. Ma il cielo sfugge alla cornice. Resta intatto, incombente sopra il paesaggio distorto, uno sguardo antico che sopravvive a ogni tentativo umano di imposizione. L’installazione vibra di tensione — la resina fluida evoca la trasformazione naturale, mentre il ferro rigido incarna l’intervento umano. È uno scontro tra ordine e disordine, civiltà e selvatichezza.
Con View (2025), Pan non si limita a invitare l’osservatore a guardare: lo sfida a vedere davvero — ad abbandonare la comodità del controllo antropocentrico e affrontare la logica inquietante di un mondo in costante evoluzione. Un mondo dove mutare significa sopravvivere, e dove anche i paesaggi più familiari possono, in un attimo, diventare estranei. La domanda non è se il naturale cambierà — ma se saremo in grado di accorgercene.

Testo di Vittoria Martinotti

Adriano Bassi Geometria & Materia Acrylic paint, rain water, marker and spray paint on canvas 100 x 70 cm 2023

Adriano Bassi

Adriano Bassi è un artista italiano che vive e studia tra Milano e Varese. Attualmente è studente del triennio presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. La pratica artistica di Bassi si basa sull’utilizzo della pittura per studiare l’irregolarità con cui gli elementi naturali si imbattono su oggetti di pubblico utilizzo modificando l’aspetto. È affascinato dagli eventi imprevisti e non regolati da scelte predefinite o razionali. Oggi, la sua ricerca studia un fenomeno specifico, ovvero l’erosione di lastre di metallo come quelle utilizzate per le affissioni pubblicitarie o per la segnaletica stradale e si propone di raggiungere una riproduzione pittorica il più possibile fedele alla realtà.
Per la quinta edizione di Rea Art Fair, Bassi porta la sua tela Geometria & Materia. Quest’opera pone in primo piano la superficie di un pannello a cui sono state sottratte le affissioni pubblicitarie e nel quale rimane solo lo spoglio strato di metallo segnato dal tempo insieme alle linee guida che ospiteranno la prossima reclame. Il lavoro di Bassi è un lavoro minuzioso, da archivista. Con il suo riprodurre la realtà Bassi registra l’erosione del tempo ma sceglie di farlo con discrezione e senza fare rumore. La scelta di riprodurre così fedelmente questi pannelli è tanto un gesto archivistico quanto di ricerca di perfezione tecnica. Con le sue tele “di metallo” Bassi mette in mano allo spettatore un oggetto visibile a tutti ma mai esaltato per il suo valore estetico ponendoci di fronte alla bellezza di un macchia schiarita che non segue regole geometriche ma è nata dalla semplice ed arbitraria volontà di un raggio di sole. 

Nonostante la giovane età, Adriano Bassi ha preso parte a numerose mostre collettive e progetti indipendenti come la realizzazione della pubblicazione Vertigo. Nato nel 2020 questo progetto editoriale si propone di studiare il parallelismo tra regolare e non-regolare facendosi guidare da specifici canoni estetici quali l’astrattismo, la contrapposizione di bianco e nero e la ricerca del segno. 

Text by Rita Meschiari

Anna Andrzhievskaia Along the Shore
Acrilico e olio su tela
190 x 130 cm
2025

Anna Andrzhievskaia

Anna Andrzhievskaia (nata nel 1989, Perm) è un’artista russa che vive e lavora a Barcellona. Il suo lavoro esplora i temi della migrazione e dello sguardo femminile. Affascinata dai modi in cui l’arte può trascendere il linguaggio e creare intersezioni culturali, costruisce narrazioni visive suggestive che indagano lo spaesamento, l’identità e il senso di appartenenza. Il suo linguaggio artistico si è formato all’interno del collettivo indipendente North 7, noto per le sue incursioni negli spazi pubblici e la ricerca sulla cultura dell’ospitalità.
Il dipinto Along the Shore, presentato in ReA Fair, evoca lo stato psicologico di derealizzazione spesso vissuto dai viaggiatori — una sensazione in cui la realtà appare distante, frammentata o surreale. Attraverso un delicato equilibrio tra composizione e atmosfera, Andrzhievskaia cattura la tensione tra presenza e disconnessione, offrendo una riflessione poetica sulle complessità del movimento e della transizione. Sebbene l’opera possa apparire caotica a prima vista, con volti fluttuanti, elementi organici e pennellate impazienti, le due figure raffigurate camminano con sicurezza e rapidità verso un paesaggio montuoso di ispirazione tolkieniana, allontanandosi da noi. Il loro percorso sembra quello di Alice nel Paese delle Meraviglie, o meglio Alice nel Paese degli Immigrati — un paesaggio per me fin troppo familiare, con barriere metalliche, uccelli in gabbia e liane spinose che l’artista colloca attentamente all’interno del piano pittorico. E, come in ogni storia, il racconto non è unilaterale: tra cerchi di fuoco e fiori velenosi, troviamo una vegetazione onirica e fontane magiche.
Il viaggio delle due figure è appena iniziato, ma sembra che abbiano già superato la prima soglia, la barriera iniziale, rappresentata dalla liana spinosa. Questo è ulteriormente sottolineato dai due elementi scultorei posti accanto al dipinto: le liane scolpite si fondono perfettamente con quelle dipinte, connettendosi ai margini della tela e accentuando la sensazione di essere testimoni diretti del lungo e faticoso cammino delle due figure. Mentre il mio sguardo si perde nella scena surreale che si dispiega davanti ai miei occhi, non posso fare a meno di provare un senso di unità e solidarietà con i viaggiatori. Li immagino voltarsi indietro, incrociare il mio sguardo, e io annuire come a dire: “Ce la farete, continuate ad andare avanti.”

Andrzhievskaia ha ricevuto ampi riconoscimenti per il suo lavoro, tra cui il Premio Speciale dell’Institut Français al Sergei Kurekhin Award nel 2021 e il Present Continuous Prize della Fondazione V-A-C in collaborazione con M HKA di Anversa nel 2018. Tra le sue mostre personali si annoverano Fundbüro Geist presso la Voskhod Gallery di Basilea (2024) e Beauty and Escapism a BAD+, Bordeaux (2023). Ha inoltre partecipato a importanti mostre collettive, tra cui l’Art Nou Festival, Barcellona (2024), Lost and Found: North-7 Expedition al M HKA, Anversa (2019) e Towers alla 10ª Biennale di Arte Contemporanea Manifesta (2014). Ha approfondito la sua ricerca attraverso residenze internazionali, tra cui CalGras ad Avinyó, Spagna (2023), e la Cité Internationale des Arts di Parigi (2021).

Testo di Maria Myasnikova

Carla Giaccio Darias Julian en su patio Oil on Canvas 90 x 80 cm 2025

Carla Giaccio Darias

Carla Giaccio Darias è un’artista italo-cubana, nata a Roma nel 1998, che attualmente vive e lavora tra Italia, Cuba e Messico. Carla si è laureata in Pittura e Arti Visive presso la NABA di Milano, Italia. Nel 2024 è stata artista residente presso The Lab Program a Città del Messico, Messico e nel 2021 presso Palazzo Monti a Brescia, Italia.  Tra le mostre recenti After Reminiscence, 2024, Cassina Projects, Milano; Oltre il Sangue Amaro, 2024, MO.CA, Brescia; Los únicos son los niños, 2024 Tlaxcala 3, Città del Messico; The Perf. End, 2023, Milano.

La sua pratica esplora il rapporto tra memoria, identità e territorio attraverso la pittura, utilizzando archivi fotografici, sia analogici che digitali, come strumenti di ricerca per analizzare le dimensioni culturali e sociali della memoria collettiva. Le immagini che seleziona vengono trasformate sulla tela in una sorta di stratificazione visiva che sfida la loro funzione originaria di documento, aprendo a nuove interpretazioni.

Nei suoi lavori più recenti, Giaccio Darias si concentra su un archivio personale: fotografie scattate da lei stessa a Cuba, terra delle sue origini. Questa svolta intima segna un’evoluzione nella sua ricerca, portandola a indagare il senso di appartenenza e la percezione dello spazio domestico. I dipinti diventano frammenti di luoghi vissuti, visioni parziali che catturano dettagli di ambienti e figure umane accennate, senza mai rivelarne i volti. Il risultato è una rappresentazione evocativa dell’assenza e della presenza, in cui il tempo sembra sospeso tra passato e presente.

Le opere ‘Julian en su patio‘ e ‘Come si dice quando le parole restano?’ sono emblematiche di questa ricerca. Quest’ultimo rappresenta la casa del nonno dell’artista, un luogo carico di ricordi e affetti, in cui la luce, i tessuti e gli oggetti raccontano una storia familiare. La scelta di non mostrare i volti, ma solo dettagli di corpi e ambienti, sottolinea la volontà dell’artista di evocare piuttosto che descrivere, lasciando spazio all’immaginazione dello spettatore. Questa serie si presenta così come un viaggio emotivo, in cui la pittura diventa un mezzo per interrogarsi sul significato della casa, della memoria e dell’identità. 

Testo di Valeria Conti 

Catelijne Boele

E mentre cerco di rimanere concentrata, cerco di attenermi a questi punti e parole, non posso negare che sono ripetutamente distratta. Distratta da sussurri invisibili. Sussurri che, ignorati o riconosciuti, assumono una presenza inevitabile nello spazio. Incarnati, ma non nella materia. Non nel concreto o nei mattoni. Ma in qualcosa che viaggia:
Invisibilmente.
Infinitamente.
 
– Catelijne Boele 

Catelijne Boele (1996, Paesi Bassi) vive e lavora a L’Aia, nei Paesi Bassi. Ha conseguito la laurea triennale in Belle Arti presso la Royal Academy of Fine Art (KABK) nel 2021 e da allora ha avuto uno studio presso la comunità culturale See Lab dell’Aia, dove ha lavorato anche per i dipartimenti di programmazione e comunicazione del collettivo. La sua pratica artistica si concentra sulla pittura, ma si espande nello spazio lavorando con elementi scultorei, spesso costruiti con materiali edilizi di scarto come legno di scarto, pezzi di gesso e mattoni. 

Come il canto di una sirena lontana o quel motivetto che rimane in testa e non se ne vuole proprio andare. Di fronte alle opere di Catelijne Boele siamo Alice nel Paese delle Meraviglie e cadiamo giù giù giù nella tana del bianconiglio per ritrovarci in un mondo allucinato popolato da creature antropomorfe. Dove è il ricordo di un momento reale e dove il sogno che alimenta l’immaginazione? C’è un velo leggero che divide la dimensione quotidiana, fatta di esperienze personali, da quella onirica e notturna. Boele lascia che l’illusione e la natura autentica delle cose si sovrappongono, lasciando cadere la linea di confine tra questi due mondi. “I luoghi atmosferici che dipingo – spiega l’artista – fungono anche da contenitori metaforici, conservando simbolismi, memorie e storie sottostanti. Permettono alle figure nei dipinti di muoversi liberamente attraverso gli schemi cromatici o monocromi mentre fluttuano nello spazio e parlano attraverso le loro forme e contrasti”.

Il dipinto Songs between the Trees (2024) rappresenta un grande albero centrale, spoglio e quasi stilizzato, con i rami rivolti verso il cielo scuro. Le sue radici non affondano in nessun terreno ben definito, fluttua nell’oscurità della notte, eppure sembra così reale. Piccole stelle gli danzano tutte intorno inondando di nuova luce. Viste più da vicino, nel lavoro di dimensioni ridotte Song (2024), le stelle sono in realtà un volto, piccoli fantasmi o dolci presenze raffigurate nel momento in cui stanno iniziando a canticchiare una melodia misteriosa. Sono degli spiritelli effimeri che si muovono in una foresta incantata invocando un’atmosfera magica e ammaliante. “Il riferimento alla musicalità in queste opere – continua l’artista – simboleggia un processo mentale e fisico, in cui la tensione emotiva viene trasformata in una melodia, creando così uno spazio più morbido per l’introspezione e la trasformazione. In altre parole, questi dipinti sono una traduzione visiva di un’armonia o di una canzone, che viene composta per elaborare certi sentimenti e ricordi in modo più delicato”.

Boele ha esposto in varie gallerie e project space come la Galleria Nono (L’Aia), The Green Room (Amsterdam) e Josilda da Conceição (Amsterdam). Recentemente ha concluso un programma di residenza sull’isola di Örö (ÖRES Residency Programme) e presso Taidetila Muijala (spazio d’arte e residenza per artisti a Reila, Finlandia), dove ha anche esposto nella mostra collettiva trees, stones, reeds.

Testo di Erica Massaccesi

Larissa Laban Particular 5 Olio su tela 80 x 100 cm 2024

Larissa Laban

Larissa Laban (nata a Cabo Frio, Brasile) è un artista visiva, designer e illustratrice che vive e lavora a San Paolo in Brasile. Recentemente ha esposto presso Shug Gallery a Londra, UK; Caroço a São Paulo, Brasile e presso The Cyrus Collective a New York,USA.
I suoi diversi contesti professionali spingono Laban all’utilizzo di diverse tecniche che coincidono nell’espressione solida e giocosa delle texture visive. Aerografo e pittura ad olio interagiscono spesso sullo stesso supporto giocando su diversi piani, tra bidimensionalità e tridimensionalità. I suoi personaggi fluttuano su sfondi evanescenti ma dai toni profondi, inglobando oggetti che hanno invece la simpatia e la leggerezza della fanciullezza. Il contrasto la fa da padrone nei lavori pittorici dell’artista brasiliana, la forza dei colori entra in contrasto con la morbidezza delle forme, il pericolo contro l’innocenza e la dicotomia tra l’io interiore e quello esteriore. 
Nell’ultima serie di lavori intitolata Particular, di cui è esposta la numero 5, Laban si concentra sullo studio dei peluche come oggetti che incarnano il concetto di infanzia e innocenza, ma allo stesso tempo ritraggono animali che si potrebbero trovare solo nella natura selvaggia e nei contesti di pericolo per l’umano.

Entrambe le forme di questo animale compaiono all’interno della scena, l’animale reale con le sue sembianze erculee e il peluche con la sua testa e gli occhi sproporzionati che non spaventerebbero nemmeno un bambino. Nel dipinto che troviamo in fiera si aggiunge inoltre un terzo elemento, che parla chiaro al suo pubblico, ed è uno specchio nel quale troviamo riflessa l’immagine della tigre peluche. Immaginiamo che probabilmente il peluche si stia chiedendo se sarà mai una vera tigre spaventosa e maestosa o se invece riuscirà mai ad accettare la sua natura ironica e scherzosa. La dicotomia tra ciò che siamo e vorremmo essere viene espressa tramite il mezzo del giocattolo, rendendo una domanda così esistenziale e universale piacevole allo sguardo e commestibile anche ai più scettici. 

Testo di Milena Zanetti

Zehui Xu

Zehui Xu (1998, Weihai, Cina) è un’artista multidisciplinare che si occupa principalmente di pittura a olio, ma la sua pratica comprende anche ceramica, tessuti e installazioni. Ha conseguito la laurea in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia nel 2021, studiando sotto la guida di Carlo di Raco e Martino Scavezzon. Nel 2022 ha partecipato al Programma di Scambio Culturale Erasmus presso la Bath Spa University nel Regno Unito, sotto la supervisione del Dr. Robert Luzar. Successivamente, ha preso parte al Programma Internazionale di Tirocinio presso la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia e ha tenuto la sua prima mostra personale a Mosca. Nel 2024, ha completato il Master in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia e ha vinto il primo premio alla 106a Collettiva di Giovani Artisti organizzata dalla Fondazione Bevilacqua La Masa. Nello stesso anno, ha anche tenuto mostre personali a Verona e Mosca e ha partecipato al Programma Internazionale di Tirocinio presso il Padiglione degli Stati Uniti della Fondazione Biennale di Venezia.

Ogni angolo in una casa, ogni cantone in una camera, ogni spazio ridotto in cui è piacevole rannicchiarsi, raccogliersi in sé stessi, è per l’immaginazione, una solitudine, vale a dire il germe di una camera, il germe di una casa. (Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1975, pag. 159)

Una volta un’amica mi disse “Prendi coraggio e parti. Potrai sempre tornare a casa”, negli anni non credo di essere riuscita a seguire a pieno questo consiglio, ma Zehui Xu senza alcun dubbio ha avuto molto più coraggio. Ha lasciato la sua terra, i suoi affetti, il mondo a lei conosciuto e ha intrapreso un viaggio, un viaggio sia fisico, sia interiore. Mossa da quel desiderio di scoprire l’ignoto, di vedere cosa c’è al di fuori della propria casa. Ed è così che ha scoperto il vero significato di questa parola, di quel luogo che non è solo un costrutto architettonico, uno spazio reale in cui rifugiarsi, ma anche un’entità psichica dove trovare pace e sicurezza emotiva. Lo ha capito ancora di più quando in quella sua casa non è potuta far ritorno per quattro lunghi anni durante il periodo di pandemia. E allora ha ripreso a dipingere mettendosi a nudo, iniziando a dialogare intimamente con sé stessa. Si è ascoltata senza vergogna, con profonda introspezione, e una volta finito si è ritrovata di fronte a uno specchio che rifletteva la sua anima.

Il dittico At dusk, a gentle breeze brushed against my forehead (Al crepuscolo, una leggera brezza mi ha sfiorato la fronte, 2024) e Silently listen to the sound of the wind (Ascoltare in silenzio il suono del vento, 2024) è parte di questo ultimo ciclo di opere, in cui Xu decide con estrema sensibilità di raffigurare il suo mondo interiore attraverso ricordi, memorie, di quelle stanze che possono essere reali tanto quanto immaginifiche. Atmosfere fumose dai colori freddi – il blu del primo dipinto che si trasforma in un celestino, fino alle sfumature violacee e giallastre di un tramonto – rimandano a una dimensione instabile e onirica, dove i pochi elementi riconoscibili sembrano scomparire da un momento all’altro. “Ogni opera rappresenta una stanza del mio cuore – spiega l’artista – e in queste stanze cerco delle risposte. Il mio lavoro non appartiene solo a me, ma anche a tutti gli spettatori che lo vedono e si confrontano con esso. Queste opere sono una forma di auto-risanamento e spero che possano offrire un senso di guarigione anche agli altri. Al di là del piacere visivo, spero di evocare un dialogo interiore, un viaggio verso la “casa” di ciascuno”.

Testo di Erica Massaccesi

Castro Lobato

Castro Lobato è un artista multimediale messicano, nato a Città del Messico nel 2003, che vive e lavora tra Venezia e Parigi. Dal 2024 studio Arti Multimediali presso l’Università IUAV di Venezia. Tra le mostre recenti L’HABITAT DI DOMANI, 2024, Fondazione Bevilacqua La Masa, Ep.t topología conectiva, Xpan, 2025, Parigi and Lo intangible sobre lo inmutable, Xpan, 2025, Città del Messico.

In SOLO, Castro Lobato intreccia memoria personale e riflessione universale sul processo di apprendimento dell’essere. L’opera nasce dall’esplorazione dell’archivio visivo familiare, un gesto di riappropriazione che scava nella storia intima per interrogare il modo in cui il corpo viene educato, formato, addomesticato.

Il video mostra l’artista da bambino seduto, guidato da un medico nei primi tentativi di movimento. Una voce femminile – quella della madre dell’artista – lo esorta ad ‘alzarsi da solo’, una ripetizione insistente che si fa eco, ritmo e comando. Questo frammento sonoro, estratto da un altro video in cui la madre insegnava all’artista a camminare, viene sovrapposto come un leitmotiv che interroga il concetto di autonomia e formazione. Castro Lobato riflette sulla costruzione dell’identità e del movimento corporeo come risultato di una serie di apprendimenti imposti o trasmessi. L’opera problematizza l’idea di “farsi da soli”, svelando come ogni gesto, ogni passo, sia il frutto di una rete di esperienze, influenze e relazioni che ci modellano. La ripetizione del comando “Alzati da solo” si trasforma così in una provocazione: davvero possiamo dire di essere autonomi nel nostro crescere e formarsi? O siamo il prodotto di una stratificazione di insegnamenti e condizionamenti?

Nel lavoro di Castro Lobato, il corpo diventa territorio di resistenza e contrazione. L’artista esplora la tensione tra l’addomesticamento e la rivendicazione del selvaggio, inteso come spazio di libertà e disobbedienza. Il movimento, l’atto di alzarsi, diventa un atto di sovversione contro i sistemi che tentano di definire chi siamo e come dobbiamo essere. SOLO è un’opera che parla della fragilità e della forza insite nel processo di formazione del sé, un’indagine profonda sull’apprendimento, la memoria e la resistenza corporea.

Testo di Valeria Conti