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“Questo ricordo lo vorrei raccontare” di Mario Giacomelli

Intervista di Sara Benaglia e Mauro Zanchi — Sara Benaglia + Mauro Zanchi: Questo ricordo lo vorrei raccontare è una mostra che MUFOCO di Cinisello Balsamo dedica alla serie fotografica di Mario Giacomelli, realizzata poco prima della morte, tra il 1997 e il 2000. È un incontro speciale, perché la riapertura del museo coincide proprio […]

Mario Giacomelli, Questo ricordo lo vorrei raccontare, 2000, stampa vintage ai sali d’argento, 30×40 cm, Courtesy Archivio Mario Giacomelli © Rita Giacomelli

Intervista di Sara Benaglia e Mauro Zanchi

Sara Benaglia + Mauro Zanchi: Questo ricordo lo vorrei raccontare è una mostra che MUFOCO di Cinisello Balsamo dedica alla serie fotografica di Mario Giacomelli, realizzata poco prima della morte, tra il 1997 e il 2000. È un incontro speciale, perché la riapertura del museo coincide proprio con l’esposizione di questo lavoro intimo e visionario. Ci parleresti di come è stata composta questa serie?

Katiuscia Biondi Giacomelli: Le opere di Mario Giacomelli sono organismi che hanno la forma dell’interiorità di chi le ha create, sono pezzi di lui. Nelle sue inesauribili revisioni e accostamenti, lui diceva di lavorare sulle immagini per “tenerle in vita”, per mantenere il loro “respiro”. Quando veniva chiamato fotografo, rispondeva: “io non faccio il fotografo, non so farlo, sono solo uno che cerca godimenti”. Questa serie è la naturale chiusura del percorso di un’intera vita. A metà degli anni Novanta, Giacomelli trasforma lo scenario da fotografare in spazio in cui a volte apparire con il suo stesso corpo, non per autoritrarsi, non per parlare di sé, ma per innescare un rituale: evoca i fantasmi dell’inconscio, dei sogni e del ricordo, fa emergerei legami tra le cose e chi le guarda. Questo per lui è il reale. Secondo questa accezione si definisce “realista”.
In questo rituale si mette in gioco e si lascia invadere da un’alterità che prende forma tramite lui (come quando dice “non sono io che scelgo il paesaggio, è lui che mi chiama”). Attraverso la fotografia si lascia trasformare, immergendosi nella memoria, come aveva sempre fatto con la materia delle cose nella camera oscura delle sue alchimie. Come quando si con-fonde con sua madre (morta nell’86, ma tenuta viva nel ricordo), quando l’ombra dell’artista proiettata su un muro restituisce forme femminili. Ed è così, attraverso di lui, che ha inizio una contaminazione che si espande al di là di lui. Una disseminazione di indizi della metamorfosi pervade ogni fotografia del periodo della maturità: la madre è nei segni ruvidi e materici dei paesaggi, nel bianco che mangia e astrae, nel nero che custodisce dentro un mondo brulicante, nel contrasto dell’ossimoro, nelle lenzuola sparse (come quelle che lei aveva lavato, da giovane vedova con tre figli, all’ospizio di Senigallia). Indizio della metamorfosi in atto anche la volontà dell’artista di dare nuova vita alle cose, fotografandole nella trasmutazione della materia (farsi lui stesso madre). Tutto è invaso di questa Grande Madre evocata, chiamata continuamente da Giacomelli, perché la vita abbia la meglio sulla morte, perché l’unità rimuova le distanze. Un disperato inno alla vita.
Nel 2000 Giacomelli viene a sapere di avere un tumore, ormai in metastasi. Dopo l’operazione torna a casa e scrive il suo testamento: Questo ricordo lo vorrei raccontare, lo scrive con le immagini e i personaggi (i suoi “compagni di poesia”, animali di pezza e maschere fotografati intorno al 1997 nei casolari abbandonati delle colline senigalliesi) che gli erano apparsi urgenti sul letto d’ospedale. Questo ricordo lo vorrei raccontare si esprime con il linguaggio dell’inconscio. L’immagine, enigmatica, non libera il suo segreto, ma trasmette un surplus di senso in virtù del fatto che ogni scena sembra dare consistenza alla precedente: è un film in corso, senza un narratore esterno a raccontare i fatti, ma, come nella vita, solo il loro nudo svilupparsi
L’oggetto di questa serie è l’atto di raccontare – il titolo stesso lo dice –, ossia vivere

SB+MZ: La mostra si compone di due sezioni: al primo piano si trovano i provini originali che costituiscono la serie ed è possibile vedere il modus operandi di Giacomelli, anche attraverso un video inedito, mentre al piano superiore sono esposte 66 stampe vintage. Da dove nasce la necessità di esporre anche una parte più operativa del lavoro di Giacomelli?

KBG: È stata una scelta allestitiva legata alla volontà di far sentire presente l’artista. La mia intenzione era di riavviare quel rituale messo in atto un quarto di secolo fa da Giacomelli per connettersi al reale. La serie non è il frutto di una giornata di riprese, ma di cicli sviluppatisi nella durata di quattro anni, intorno al 1997, in cui Giacomelli ha raccolto tanto di quel materiale da poterlo riorganizzare in diverse serie e gruppi fotografici, tra cui Questo ricordo lo vorrei raccontare, che è il sunto e la conclusione di tutto il grande lavoro della maturità. Quello di Giacomelli è stato un lavoro complesso che richiede complessità nel presentarlo oggi.
Quindi in mostra, su 18 metri di parete, si susseguono, con rigore “scientifico”, come in un museo ornitologico, 15 teche in cui sono installati 420 provini di stampa, uno in relazione all’altro senza soluzione di continuità, raggruppati per luoghi, soggetti e sedute, per seguire il filo del tempo con cui Giacomelli ha creato le scene, per entrare nel suo ritmo creativo, nelle pieghe del suo discorso, e seguire il racconto reale di quel che è accaduto, come davanti a un film ripreso da una telecamera dimenticata accesa mentre qualcosa stava accadendo.
I provini svelano il complesso e profondo lavorio di Giacomelli per la costruzione di una serie, non solo nella fase di stampa – le sue alchimie in camera oscura – ma anche nella fase di ripresa con valenza performativa. Mi interessava mostrare in modo diretto e per immagini, usando il materiale documentario custodito nell’Archivio Mario Giacomelli, quanto questo artista del XX secolo fosse a noi contemporaneo nel suo essere costruttore di mondi possibili, di interazioni virtuali, nella messa in questione della percezione umana e della figura di fotografo, nella visione della fotografia come racconto, come immagini in movimento, nel rifiuto di concepire la singola fotografia come oggetto concluso in sé perché parte di un tutto.
Lo stesso motivo mi ha spinta a mostrare al pubblico un frammento di 15’ in loop di un video inedito e unico girato amatorialmente da mio padre nel 1997, che mostra un Giacomelli a nudo nel costruire la scena da fotografare. Mentre nelle bacheche, suoi manoscritti degli anni ’90 ci restituiscono la complessità della riflessione dell’artista sulla fotografia; e alcuni negativi, a confronto con i relativi provini a contatto, rivelano dettagli di stampa che illuminano su questo suo “entrare sotto la pelle del reale”. 
Sono elementi che ho disseminato in mostra per un’immersione profonda nel suo flusso creativo, frammenti provenienti da Giacomelli stesso. Io non ho fatto altro che mostrarli.

SB+MZ: È un Mario Giacomelli imprevisto, quasi surrealista e performativo, quello che incontriamo in questa mostra. La messa in scena fotografica, la comparsa di Mario nello spazio di costruzione dell’immagine, l’utilizzo di peluche che fatichiamo a non scambiare per animali vivi aprono la posa, la messa in scena fotografica, a una rimessa in vita con uno scarto non conclusivo. Quali sono le linee guida che tuo nonno ci ha lasciato per leggere queste immagini? Ce ne ha lasciate?

KBG: Lo spirito con cui Giacomelli ha affrontato la creazione di quest’ultima serie è coglibile dalle sue stesse parole, che il visitatore può leggere sia nella sala dei provini da un manoscritto sulla genesi del suo progetto artistico, sia nella sala delle 66 opere fotografiche di Questo ricordo lo vorrei raccontare, in cui l’artista confida la sua gioia nel sentirsi creatore di nuovo senso e nuova vita in un mondo dove, tra guerre e fame e indifferenza del potere, c’è tanta distruzione. Giacomelli ha sempre chiesto allo spettatore non di capire, ma di interpretare le sue immagini, interiorizzarle, unirsi al processo creativo attraverso il proprio vissuto e il proprio sguardo; ha bisogno dello spettatore, lo dice, per mantenere in vita il suo organismo, nel costante sforzo di conservare, nella sua concretezza e presenza, quel sogno collettivo, che universalmente condiviso chiamiamo “realtà”. 
Infine, rintraccerei le linee guida per un’ermeneutica dell’opera nella filosofia stessa di Giacomelli di una fotografia come un tutto che si sviluppa da sé, come sistema organico fatto di ripetizioni di elementi significanti. Basta cogliere tali elementi per trovare una possibile interpretazione. 
Per questo mi era necessario creare un allestimento organico dei provini di stampa, per mostrare il suo sistema linguistico, il suo essere nel tempo: la serialità di soggetti ripetuti, spostati di qualche centimetro, scambiati di posto in variazioni su tema, interconnessi, simulacri di qualcos’altro; il girare attorno a questi elementi, ossessivo, di Giacomelli e il suo confondersi ad essi attraverso la sinestesia, sviluppando una forza mesmerica da un reale cinetico, sono tutti elementi di un rituale in atto che ci danno il senso di questa serie. 

Mario Giacomelli, Questo ricordo lo vorrei raccontare, 2000, stampa vintage ai sali d’argento, 30×40 cm, Courtesy Archivio Mario Giacomelli © Rita Giacomelli

SB+MZ: Abbiamo trovato delle analogie visive evidenti tra questa serie e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi oltre a immagini fotografiche che sembrano quasi sospensioni diaristiche sui paesaggi aerei da lui immortalati in Metamorfosi della terra. Sono riferimenti intimi, in cui il doppio da sé appare quasi come un monito morale. Come viveva l’idea della morte Giacomelli?

KBG: Giacomelli ha sempre fotografato quel che stava per scomparire, dissolversi, distruggersi, per portarlo in salvo fissandolo in un’immagine eterna. Così faceva nella vita quotidiana, portando il contingente sul piano della poesia attraverso rituali famigliari per non farsi dimenticare, per restare per sempre. La morte in sé non credo lo spaventasse, poiché lui, da buon Informale, credeva veramente nella Materia e nella sua metamorfosi. Quel che lo preoccupava era il distacco, la lontananza, la cancellazione. Per questo la fotografia, che blocca nell’eternità l’attimo, per lui fu strumento per preservare quell’Unità cucita per un’intera vita attraverso innesti, ripetizioni, revisioni, sovrimpressioni e scambi per creare un tessuto interconnesso e unitario, un collante tra le cose, gli spazi e i tempi. E non è un caso che proprio alla fine del suo ciclo vitale, abbia messo sé stesso nei suoi scenari fotografici, per sopravvivere alla morte.
Questo ricordo lo vorrei raccontare è una narrazione che lui vuole condividere, un ricordo. Il ricordo di essere stato vivo, e vivendo di aver generato mondi, di aver prodotto frutti dagli innesti, di aver dato nuovo senso alle cose attraverso il suo sguardo, di aver riposto nell’eternità ciò che altrimenti si sarebbe disperso nella dimenticanza. Le fotografie vibrano di presenza, come a dire che la vita continua per sempre. Un esorcizzare la morte.

SB+MZ: Appena lasciato l’ospedale dopo un ricovero, Mario Giacomelli scrive: “Non è facile spiegare la presenza della mia persona nelle ultime fotografie, è come se io entrassi dentro di me e ne uscissi purificato. Quindi in questo lavoro ho messo anche il mio volto; questo è come la storia della maglia che si rovescia: è il rovescio della mia interiorità, io vado dentro ed esco fuori. Però con questa immagine esco da me stesso come lavato, […] purificato, perché ho provato la gioia di essere presente e averne il ricordo.” (Mario Giacomelli, in S. Guerra, La mia vita intera, Bruno Mondadori 2008). Potresti approfondire questo pensiero poetico?

KBG: Quel rituale chiamato fotografia, che per Giacomelli era “la scatola che tiene dentro la mia memoria” (e la memoria del genere umano), per lui aveva lo scopo non di generare oggetti estetici, ma situazioni esistenziali, occasioni immersive, incontri veri con il reale. La fotografia, soprattutto nel periodo della maturità, è per lui strumento di “purificazione” e “libertà” attraverso l’abbandono della postazione privilegiata del fotografo, da cui guardare oggettivamente il mondo, facendosi “cosa tra le cose”, nella consapevolezza di essere il nulla che contiene tutto (questo il senso dell’astrazione in cui Giacomelli si addentra sempre più nel corso della sua evoluzione artistica). 
Le fotografie della maturità hanno per soggetti i suoi “compagni di poesia”, ossia animali finti che sembrano veri, maschere e manichini che sembrano uomini, lenzuola che sembrano corpi distesi, e altri oggetti inanimati che sotto il suo sguardo diventano vivi, presenze fortissime, simboliche, persino la luce e il vento, le ombre e le macchie sui muri corrosi vibrano di presenza in queste fotografie dove tutto si fa animato. E lui dice di essere uno di loro, cioè si cala nel mondo, quello più profondo, senza veli, inconscio, e da lì si cerca e ricompone tutto, senza sovrastrutture, senza abbellimenti, senza paura. Alla fine della sua vita e del suo lunghissimo percorso artistico, Giacomelli riacquista lo sguardo limpido, purificato, del bambino: un cerchio che si chiude in un moto infinito.

SB+MZ: La mostra è accompagnata da un catalogo che hai curato insieme a Milo Montelli di Skinnerboox. La logica del catalogo segue quella della mostra oppure i due lavori sono indipendenti? Come è stato sviluppato?

KBG: Il libro nasce da un’idea di Milo Montelli accolta da me con gioia, perché ritenevo importante fare un focus su questa serie così particolare e forte, ancora mai approfondita e presentata in modo organico. Non si tratta di un catalogo della mostra, ma di un libro con una vita propria, da cui anzi la mostra stessa nasce. Il prodotto editoriale ed espositivo si completano, ognuno con la sua struttura, i suoi dettagli, le sue chiavi di lettura e i suoi materiali d’archivio, sono due punti di vista della stessa scena, molto connessi tra loro. 
La volontà da cui tutto si è sviluppato è stata di far sentire quanto Mario Giacomelli fosse chiamato in gioco nel suo rituale, e far sentire la “magia” del suo atto creativo. Cosa che nella mostra ho trasmesso tramite un atteggiamento filologico di ricostruzione e contestualizzazione della serie; nel libro tramite un linguaggio più poetico, fatto di libere associazioni, tra assonanze e stonature, a restituire le immagini di Questo ricordo lo vorrei raccontare come flashback e flashforward, stati allucinati di un sogno, immagini simboliche che avanzano a ritmo sincopato, instabile per questo vibrante, sospese nel bianco abbondante della pagina che isola e astrae come fa il bianco mangiato di Giacomelli. Il risultato è merito di Milo e dello studio grafico CH RO MO. 
Ci siamo presi tutto il tempo, sei anni, perché il libro prendesse forma quasi da sé, dalle nostre riflessioni, dall’immersione nel materiale d’archivio, e anche dai momenti di apparente stasi, per un prodotto editoriale che non fosse solo un insieme di immagini fotografiche ma un organismo con una sua profondità e potenza. 
Ho voluto corredare le immagini della serie con i provini per trasmettere il brusio della mente di Giacomelli mentre creava le sue fotografie, e riprodurre i movimenti ossessivi intorno ai suoi “compagni di poesia”. Era importante per me mostrare che Giacomelli non scattava fotografie istantanee, ma per la fotografia organizzava il mondo delle cose dandogli nuovo ordine, e per fare ciò si prendeva tanto tempo. Le sedute duravano ore, tra gli innumerevoli spostamenti e la partecipazione performativa dell’artista alla scena da fotografare. 
Senza l’apparato dei provini con cui si conclude il libro, tutto questo non sarebbe emerso.
Anche l’apparato critico fa tutt’uno con le immagini: ogni autore (Francesco Zanot, Davide Rondoni, Brad Feuerhelm, Katiuscia Biondi Giacomelli) è un dettaglio negli abissi di Questo ricordo lo vorrei raccontare, tanto profondo da rendere il libro di fotografia anche un libro di filosofia, semiologia, antropologia, cinema, teatro… 
Solo per dare un’idea della follia dei curatori: l’immagine di copertina non fa parte di Questo ricordo lo vorrei raccontare, è uno scatto delle stesse sedute da cui nasce la serie ma poi confluito nel gruppo Autoritratti: un modo per dire tra le righe che nell’opera di Mario Giacomelli tutto è collegato, e tanto altro…

Mario Giacomelli, Questo ricordo lo vorrei raccontare, 2000, stampa vintage ai sali d’argento, 30×40 cm, Courtesy Archivio Mario Giacomelli © Rita Giacomelli

SB+MZ: Dirigi l’Archivio Mario Giacomelli. Quali responsabilità e scelte comporta operare con queste immagini, che costituiscono l’opera di uno dei grandi maestri della fotografia italiana? Come vivi la tensione tra ciò che le persone si aspettano da te e la libertà che inevitabilmente devi prendere e vivere per portare avanti questo lavoro?

KBG: Non sento nessuna tensione da questo punto di vista. Sono consapevole della serietà con cui porto avanti il mio lavoro. La libertà che mi prendo non sfocia mai in una spinta puramente soggettiva o individualistica o commerciale che prevarichi l’artista, che devo proteggere e promuovere. L’Archivio è un prezioso spazio per un prezioso contenuto in cui devo muovermi con i guanti, con cura, usando materiali e metodi adatti a preservare questo spazio. Mario Giacomelli è colui che ci ha parlato per immagini e io non faccio che mostrare i suoi racconti. Il linguaggio che uso per la narrazione è filosofico, perché questa è la mia formazione, e perché ritengo l’arte il più lucido e immediato specchio dei tempi e dunque una riflessione sul mondo, dunque una filosofia. E non penso mai a ciò che le persone si aspettano da me, percorro la mia strada fatta di studio continuo e di disciplina all’ascolto, con estrema umiltà. Ci sono delle regole ben precise per condurre un archivio, e finché ci si attiene ad esse, nell’onestà e nella concentrazione, poco alla volta si fanno passi verso dei risultati. 

SB+MZ: Hai competenze e studi inerenti all’arte e conosci le questioni legate alle attuali visioni del contemporaneo. Alla luce di quello che è emerso nel mondo dell’arte negli anni più recenti noi tutti tendiamo a rileggere opere del passato secondo altri punti di vista, in un processo di connessioni tra passato e futuro. Come ti rapporti con le opere di tuo nonno nel complesso equilibrio tra approccio filologico di matrice storico-artistica e nuove letture favorite dagli attuali studi e approcci?

KBG: Innanzitutto porto avanti i progetti su Giacomelli con tanta cura, e, come dicevo, tanta attenzione a non tradirlo. Nei miei progetti curatoriali seguo solo la sua visione della fotografia, il suo pensiero, la sua personalità, il suo modo di concepire una sequenza fotografica e il corpus fotografico, e tengo sempre a mente i suoi capisaldi.  Sono certa che la fotografia, soprattutto quella di Giacomelli, debba essere presentata nella sua complessità. Per cui faccio emergere l’inedito, il materiale d’archivio che fortunatamente l’artista ci ha lasciato copiosamente conservato; approfondisco, confronto, decostruisco, cerco continuamente legami tra ogni elemento, metto in ordine, scelgo un tema, contestualizzo, scendo nelle viscere con lui. E trovo questa la parte più divertente del mio lavoro. 
L’inedito che da anni sto cercando di tirar fuori non riguarda solo le fotografie e l’apparato documentario, ma riguarda soprattutto il suo sguardo sulla fotografia, lui che non ha mai smesso di sperimentare precorrendo i tempi. E il suo essere innovativo non si ferma al linguaggio formale del forte contrasto b/n del suo realismo magico, notato sin dagli anni Cinquanta, ma emerge anche e soprattutto dalla sua concezione della fotografia, il suo atteggiamento. E il mio sguardo inedito su di lui vuole restituire la sua visione attraverso il linguaggio di oggi.  Questo non mi mette a disagio, perché Giacomelli è un artista del nuovo millennio pur essendo deceduto proprio sulla soglia del 2000: il suo corpus fotografico è una storia performativa, una porta su un mondo possibile, un continuum virtuale, un’interazione enciclopedica, un’espressione performativa, e non una somma di isolati “attimi decisivi” bloccati nella cornice di una fotografia ben eseguita. Dunque, il suo linguaggio si innesta perfettamente nel linguaggio contemporaneo. Il linguaggio giacomelliano è improntato sulla non narratività, sui paradossi del tempo, sul tempo ciclicoe sulla ripetizione significante, sull’inversione dei valori quando nulla è come sembra, sull’identità non monolitica e la questione del doppio, sul mondo possibile e la messa in scena dell’invisibile, sull’irriducibilità della rappresentazione all’oggetto, sulla trascendenza implicata dall’immanenza, sul montaggio come produttività e sul materiale come “organismo”, sulla discesa dell’autore dalla postazione privilegiata. Questo è un atteggiamento contemporaneo verso la fotografia, io non devo far altro che renderlo evidente, attraverso un sistema adatto e fedele al linguaggio e al pensiero di Mario Giacomelli. È un passo naturale inserirlo nella nostra contemporaneità, basta seguirlo in profondità ed è lui che ci porta qui, oggi. L’approccio filologico e il confronto tra materiali d’archivio e opere, l’approccio semiotico e filosofico che decostruisce per trovare una decodificazione di un linguaggio complesso ma articolato in sintagmi sistematici, sono per me strumenti necessari per far emergere la sua essenza e la sua contemporaneità. 

SB+MZ: Come ti metti in connessione con tutto ciò che ha creato tuo nonno? Quando curi nuove mostre, dove magari sono messe in gioco questioni complesse e più legate al nostro tempo, come ti relazioni con le scelte che stai operando e con i dubbi che potrebbero nascere dal porsi la domanda se queste scelte sarebbero state amate o volute anche da tuo nonno? 

KBG: Io lo cerco, cerco sempre una connessione con lui e parlo con lui attraverso il mio lavoro di emersione della sua opera. Lo ascolto profondamente quando faccio una mostra o quando semplicemente studio e lavoro in tutta solitudine in Archivio. Parlando di questa mostra, so che lui non l’avrebbe mai fatta così, perché un fotografo non espone i suoi provini, questi per lui erano solo funzionali alla stampa; ma io ho un ruolo diverso dal suo, lui parlava per immagini, era l’artista, mia invece la responsabilità di far risuonare il suo linguaggio usando i mezzi espressivi di oggi, ma sempre perfettamente in linea con la sua filosofia. 
Anche per quanto riguarda le 66 fotografie della serie, Giacomelli non le ha mai allestite nel modo in cui le ho mostrate al MUFOCO: lui le accostava due a due o al massimo in gruppi di quattro su due livelli, ma i tempi erano diversi, allora con la fotografia non si osava troppo (persino la cornice, ancora oggi, ha il suo canone, di preferenza nera con passe-partout). Ma sono certa che il contenuto debba integrarsi alla forma, ossia che la struttura grafica di un libro e di una mostra debbano esprimere il senso del contenuto. Dunque, trattandosi di un “ricordo che lui ha voluto raccontare”, la struttura allestitiva doveva avere in sé l’aria di un racconto e di un ricordo, un andamento di immagini come note su uno spartito musicale (le parole hanno un suono). Per cui esse si sviluppano dinamicamente su tre livelli, creando un certo movimento. Questo mi ha permesso di dare l’idea di un discorso unico, che si manifesta attraverso flash di memoria, come in un sogno, ossia con l’andamento di immagini in movimento come una pellicola cinematografica (tanto più che nel libro sia io che Zanot abbiamo rilevato similitudini tra l’impianto della serie e il cinema). La sala dei provini, invece, crea un ambiente immersivo di partecipazione del pubblico, il quale si ritrova a “spiare” l’artista nella sua performance segreta, nel suo rituale messo in atto per sé, nel silenzio dei casolari, per connettersi al mondo e chiamare i suoi fantasmi. E possiamo vederlo muoversi nello spazio, possiamo percepire il tempo impiegato a costruire quelle foto, quel rituale. Siamo di fronte a centinaia di provini come di fronte a un filmato segreto. Questa lunga parete di provini è una sorta di sala immersiva, anche se si resta nell’analogico. Si resta nel mondo di Giacomelli, offrendo allo spettatore quel che Giacomelli aveva vissuto al momento degli scatti e visionato in camera oscura per le scelte di stampa. 
Ho offerto in una forma contemporanea ciò che più è fedele all’ottica di Giacomelli: considerare il corpus fotografico come unità, seguendo il suo metodo di accostare in innumerevoli incastri simbolici, innesti, rimescolamenti, assonanze e cesure, quei frammenti di reale condensati in ogni immagine, con cui lui si liberava dalle sovrastrutture per accedere a una dimensione archetipica e prerazionale. Una realtà colta per quella che è, nella sua nudità: non mistificata, non abbellita, non descritta, non esaltata, ma semplicemente vissuta